Caterina Ricciardi,Il mondo DI JOYCE CAROL OATES

DA IL MANIFESTO

Caterina Ricciardi
GLIOSCURI RICHIAMI DELLA VIOLENZA

 

carol oates jpeg.jpegIl mondo DI JOYCE CAROL OATES
ncontro con la più prolifica delle scrittrici americane, che domani sera sarà al festival «La Milanesiana». I suoi romanzi colgono i conflitti di razza e religione, la cultura del proletariato urbano, i clan politici, l’accademia, i segreti delle multinazionali
Nelle opere di Joyce Carol Oates c’è un elemento «neogotico», e al tempo stesso il trasferimento della tradizione che viene dal Sud degli Stati Uniti (quella di Poe, Faulkner, Flannery O’Connor) in un’area del paese – in genere la zona settentrionale dello Stato di New York – e in un tempo molto diversi. Diversa è anche la materia che il mondo offre all’artista: i guasti della società americana, la crisi dell’individuo di fronte alle complessità di fine secolo, quel che è cambiato dopo l’11 settembre, e la dialettica fra un nuovo tipo di determinismo, riguardante i livelli più bassi dell’esistenza, e gli spazi del libero agire. Le convenzioni intrinseche a un «gotico» di stagionatura nazionale aprono a Oates il sipario giusto per letture sconsolanti della vita americana, ambientate in un’epoca che, a partire dagli anni ’50, scivola via via nelle maglie di allucinati scompensi. Nella corposa saga che ha tessuto attraverso un centinaio di titoli, momenti e situazioni di esistenza ordinaria deviano per strade contorte, grottesche, offrendo un panorama poco edificante delle fenomenologie paradossali che l’America sembra aver alimentato nel profondo delle proprie viscere. Lo sguardo impietoso di Oates coglie le mediocrità della provincia; i conflitti di razza e religione; la cultura del proletariato urbano; i clan del potere e della politica; il mondo dell’accademia; i paradisi artificiali dei ricchi; i subdoli segreti delle multinazionali; lo sconquasso doloso del sistema ecologico. In questi contesti domina una metafisica fatta di attrazione e al tempo stesso repulsione nei confronti della violenza, sia privata – consumata all’interno delle famiglie – sia del corpo sociale e istituzionale. Spesso al centro della rappresentazione Oates pone – vittima o carnefice – l’adolescente americano: questo è anche il caso dell’inquietante Sorella, mio unico amore (Mondadori), e dell’altrettanto inquietante Una brava ragazza (Bompiani), ultimi due romanzi pubblicati in Italia. In entrambi i giovani sono vittime di un’insensata perdita della propria innocenza, ed è questo il tema sul quale la scrittrice americana pare puntare lo sguardo, con preoccupazione. Le lasciamo la parola alla vigilia della sua comparsa alla Milanesiana, dove sarà protagonista di un incontro, domani, al teatro Dal Verme.

Nel corso della sua carriera lei si è confrontata in modo ossessivo con quella che definisce, in uno dei suoi titoli degli anni ’90, la «Darkest America». La sua è una concezione tragica del paese, come se avesse oscurato i valori e le conquiste libertarie delle origini..
Chi sa qualcosa della storia degli Stati Uniti sa che dietro quegli ideali si nasconde il terribile fardello della schiavitù, delle cui ripercussioni continuiamo a curare le ferite. Il mio specchio sul mondo si regge sul punto di vista femminile, assente nell’Ottocento. Hawthorne, Melville e altri ci hanno lasciato una visione tutta maschile della vita americana, così che il mondo delle donne restava chiuso, come in trappola.

Quindi, una visione più completa dell’America è venuta alla luce solo di recente con l’emergere del punto di vista femminile?
Il punto di vista femminile si è imposto nella sfera pubblica solo a partire dagli anni ’60 e ’70, con l’ascesa delle scrittrici di colore. Una letteratura inattesa: mentre gli autori di colore avevano già una voce forte, quella femminile restava sopita. Poi, finalmente, Toni Morrison e altre scrittrici hanno fatto irruzione nel nostro panorama, forti della consapevolezza intrinsca alle loro voci, fino a quel momento represse.

Dunque, identità nera e prospettiva femminile, sono le grandi forze oggi dominanti anche nel panorama letterario?
Aggiungerei l’omosessualità, che naturalmente è sempre stata presente, ma le voci di gay e lesbiche non avevano accesso all’espressione.

Lei direbbe che la sua percezione dell’America è cambiata nel corso di cinquant’anni di scrittura?
Rispondere non è semplice perché ho scritto molto e ho cominciato tanto tempo fa, e per di più da una prospettiva che mi derivava da un contesto marginale dell’America. Solo quando sono approdata a Detroit mi sono cominciata a interessare alla vita della città americana, così complicata e diversa. Con il romanzo titolato Them, del 1969, ho rappresentato un’intera cultura, quella industriale, con tutti suoi problemi politici e razziali, con le sue tensioni di classe, le fratture sociali, e così via. Mi misuravo, allora, su un terreno nuovo, per me ambizioso, sul quale avrei potuto passare il resto della mia vita di scrittrice. Oggi, un romanzo come Sorella, mio unico amore registra invece uno sguardo rivolto al ceto medio-alto: è un ritratto di un certo tipo di America, quella «assurda», che punta fanaticamente alla visibilità, all’essere in televisione, alla conquista di un cosiddetto «profilo alto». Ci sono madri che spingono i figli fino a situazioni paradossali: lei sa che ormai molte somministrano farmaci ai bambini, danno loro il Ritalin per reprimere l’agitazione, ossia un fatto più che normale a quell’età, oppure gli somministrano steroidi e altri tipi di calmanti che li portano a comportarsi come dei piccoli zombie. Nel mio ultimo romanzo c’è anche un tocco satirico, una estremizzazione che porta al paradosso, ma nella realtà le cose non stanno poi molto diversamente. Le case farmaceutiche pretendono di scoprire anche nei bambini piccoli nuove patologie che chiamano «disordini», per esempio la sindrome da deficit di attenzione, e creano farmaci appositi.

Uno dei suoi temi preferiti è la complessità dei rapporti famigliari, i loro risvolti tenebrosi. Con le guerre e con alcuni celebri assassini politici, la crisi della famiglia è stata una delle «tragedie» della seconda metà del XX secolo negli Stati Uniti che lei ha meglio rappresentato…
Nella cultura americana la famiglia è per eccellenza l’istituzione che ha subìto le conseguenze degli eventi storici che lei evocava, diventando l’arena in cui si consumano drammi, crimini, e crudeltà indicibili. Spero che si continui a scrivere sull’argomento. La famiglia americana sembra avere cambiato connotati: dei miei studenti a Princeton circa la metà vive con fratellastri, sorellastre e nuovi genitori, perché le famiglie originarie sono andate in pezzi.

Almeno tre dei suoi romanzi, «Niagara», «La madre che mi manca», e «La figlia dello straniero» sono ambientati nella provincia di New York. Cosa rende questo territorio così speciale da farne il terreno privilegiato delle sue rappresentazioni drammatiche della vita quotidiana?
Tutti gli scrittori, specialmente i narratori, interiorizzano la propria regione di provenienza: Joyce lo ha fatto con Dublino, il primo Hemingway con il Michigan, Faulkner con il Sud, perché il romanzo richiede un luogo fisico. Noi tutti siamo espressioni di un luogo. Penso che scrivere della geografia dalla quale si proviene, e tendere a rappresentare come universale lo spazio delle nostre origini sia un fatto quasi istintuale. Spesso per aiutarmi in questa impresa io ricorro a miti, leggende, fiabe.

Se lei dovesse raccontare il processo della sua scrittura, su quali elementi punterebbe?
Passo molto tempo a scegliere e poi a mettere a fuoco la voce del narratore: ossia a decidere chi parla in un romanzo, qual è la sua personalità e che tipo di linguaggio usa. Poi divido il lavoro in sezioni e mi impegno molto nella costruzione della struttura. Come un architetto, ho un disegno in mente e una idea delle fondamenta che devono sostenere il progetto intero. Il fine primario, che penso debba interessare di più i lettori, è il tentativo di rendere conto, attraverso i riverberi della parola scritta, del processo evolutivo dell’esperienza che il personaggio sta vivendo. Se qualcuno mi chiedesse, in corso d’opera: qual è la storia? non sono sicura che sarei capace di rispondere, perché ciò su cui più mi concentro è la restituzione dell’esperienza dei singoli personaggi. Poi sta al lettore ricomporre il senso del libro.

Le sue doti di narratrice e di tornitrice di frasi precise si manifestano, a mio parere, soprattutto in due due romanzi brevi, «Acqua nera» e «Bestie», che rivelano uno straordinario potere di condensare le emozioni. Lei che ne pensa?
Mi piacciono i romanzi brevi e ritengo che, sotto molti punti di vista, la loro architettura sia molto più complessa di quanto accade quando l’estensione del libro è maggiore. Se penso al mio ultimo romanzo, Sorella, mio unico amore, lo vedo come composto di numerose particelle: la sua storia viene vista da differenti angolazioni, mentre in un romanzo breve è più facile ci sia una sola prospettiva, che deve essere seguita come una barca lungo la corrente. Mi piacerebbe poter scrivere due romanzi brevi l’anno, ma in realtà è più difficile di quanto si pensi. Quella del romanzo breve è un’arte nobile.

In «Bestie», ambientato negli anni ’70 in un college americano, lei scrive «siamo bestie e questo ci consola». Un’affermazione inquietante, come del resto è inquietante tutto il racconto. Cosa vuole dirci esattamente con quella frase?
Il decennio successivo agli anni ’60, e ai loro esaltanti ideali, è stato per gli Stati Uniti un periodo di riflessione e di decadenza. In Bestie una giovane donna, in verità una ragazza, va al college e viene brutalizzata da un professore e da sua moglie. In loro ho rappresentato il lato peggiore dell’America. La ragazza, inizialmente vittima, alla fine capovolge la situazione appropriandosi del loro potere bestiale, ossia assorbendo in sé il ruolo dell’oppressore. Invece di fuggire dal pasticcio in cui è finita, la ragazza reagisce, diventando lei la predatrice, e si prende la sua rivalsa prevalendo sui suoi aguzzini, proprio grazie a quel potere bestiale che ha mimeticamente mutuato dal loro comportamento. Per lei la perdita dell’innocenza è una vittoria, non una sconfitta. L’idea mi è venuta dall’avere saputo di persone di mia conoscenza che si sono approfittate dei propri studenti, negli anni ’90, quando questo era un comportamento abbastanza comune, e quando non esistevano leggi in proposito. Oggi, tendenzialmente, non accadrebbe più.

A proposito di Sylvia Plath, lei ha detto che «l’artista crea e, al tempo stesso, è creato dalla sua arte». È un’affermazione che può essere valida anche per lei?
Direi che si viene forgiati dalla propria arte nel senso che si è influenzati dal riscontro del proprio editor, dei critici. In qualche modo si viene creati dal proprio pubblico. Il ruolo della critica in questo processo andrebbe esaminato più approfonditamente.

Su che cosa sta lavorando adesso?
Ora sto scrivendo di una donna di successo, presidente di una grande università e delle difficoltà che affronta. Negli Stati Uniti, nei decenni scorsi, non poche donne sono arrivare anche a università come Harvard, ma è così raro trovarne che facciano i «rettori»! La mia protagonista è una persona perbene che non vuole mescolarsi alla politica, diversamente da Obama che ora deve patteggiare i suoi ideali. La sua è una storia di alti e bassi, subisce una caduta, e poi si rialza.
Traduzione di Giulia Napoleone

Caterina Ricciardi,Il mondo DI JOYCE CAROL OATESultima modifica: 2010-07-10T18:43:57+02:00da mangano1
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Un pensiero su “Caterina Ricciardi,Il mondo DI JOYCE CAROL OATES

  1. Sono convinta più che mai che oggi si offre una grande opportunità alle donne:coniugare la loro sensibilità alla cultura .In America queste doti sono potenziate dal multiculturalismo e dalla più aperta visione della vita rispetto all’Italia che non sa mettere a fuoco le sue potenzialità.
    Corinina

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