Dario Olivero, L’enigma Shakespeare

da LA REPUBBLICA, 4 SETTEMBRE 2008

i DARIO OLIVERO L’ enigma Shakespeare e altre vite straordinarie
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Una nuova biografia del più grande e misterioso bardo di tutti i tempi
il romanzo del “pornografo” Egon Schiele ed Hemingway secondo Burgess

Gli studiosi di Shakespeare hanno contato e registrato ogni inezia delle sue opere. Sono riusciti a dirci che contengono 138.198 virgole, 26.794 due punti e 15.785 punti di domanda; che nei lavori teatrali si parla 401 volte di orecchie; che l’espressione dunghill, mucchio di letame, viene usata dieci volte, mentre dullard, babbeo, ricorre due volte; che i suoi personaggi menzionano l’amore 2.259 e l’odio 183, la parola dannato compare 105 volte, maledetto 226. In tutto il Bardo ci ha lasciato 884.647 parole per 31.959 battute e 118.406 versi. Niente male. Se non fosse che del più studiato poeta di tutti i tempi476246287.jpg non si conosce quasi nient’altro.
Pochissimo della giovinezza (una multa presa dal padre e accenni alla sua carriera di funzionario pubblico), nulla della donna che sposò e ancora meno di nulla di quando arrivò a Londra e nel giro di un decennio divenne il più grande di tutti. Così è andata a finire che gli studiosi più o meno onestamente hanno cercato di riempire quel buco troppo imbarazzante.
Uno dei più laici è Bill Bryson che nel suo Il mondo è un teatro. La vita e l’epoca di William Shakespeare (tr. it. S. Bortolussi, Guanda, 15 euro) almeno dichiara fin da subito che i fatti noti sono quelli che sono e che tutto il resto è già grasso che cola se ha almeno una parvenza di plausibilità. In compenso si naviga attraverso Elisabetta e Giacomo, cattolici e puritani, congiura della polveri (ordita da un lontano parente di William), conciatori, appestati, teatri sul Tamigi, teatranti invidiosi e scomparsi e giganti come Marlowe e Ben Jonson, l’incendio e la ricostruzione del Globe, i sonetti per il grande amore gay.

In appendice, anche se l’autore inorridisce all’idea, un onesto elenco della cosiddetta scuola antistratfordiana, cioè la teoria di quelli (tra loro Sigmund Freud, Mark Twain, Henry James e Orson Welles, mica gli ultimi arrivati) che pensano che il grande S. non sia mai esistito se non come nom de plume di Bacone, Marlowe, il conte di Oxford, la stessa Elisabetta e così via.

BELLE EPOQUE
Saranno anche inventate ma non sono così strampalate le parole che a un certo punto Lewis Croft fa dire a Gustav Klimt quando si rivolge al suo nuovo e geniale allievo: “Viviamo in un mondo che sta crollando, una generazione afflitta che l’arte non è ancora riuscita a rappresentare, che io non sono riuscito a rappresentare. Io sono l’ultimo membro di questa generazione. Ma finirà… e l’Impero finirà con lei. E altrettanto farò io. Il massimo che potrei sperare è di essere l’ultimo uomo di un’epoca e il primo di quella successiva. Ma non lo sono. Sta arrivando una nuova epoca e sarà la tua”.
L’allievo è Egon Schiele, il libro è una sua biografia romanzata dal titolo Il pornografo di Vienna (tr. it. P. Formenton, Tropea, 16,90 euro). Infanzia infelice, poco disposizione per i progetti pensati per lui dalla famiglia (le gloriose ferrovie austriache) e una tendenza a fare dell’arte l’esatto opposto di quello che cercheranno di insegnarli all’accademia che lo diplomò con il minimo dei voti: “Arte significa imbrigliare la bellezza, non affogarla nella degradazione”. Ma Schiele vedeva quello che vedeva, metteva in pratica la lezione di uno dei suoi maestri quando fu a bottega: “Assorbi la vita. Mangiala. Bevila. Fottila. Goditela. E poi dipingila”.
Un attimo prima che tutto venisse inghiottito dalla Grande guerra fece in tempo a fare il ritratto in nero e osceno di un mondo che finiva. Fece in tempo a subire umiliazioni e galera perché tutto si può fare tranne far vedere agli uomini quello che veramente sono di notte, quando non recitano la parte che si sono scelti per il giorno. E si resta soli. Con ballerine, prostitute, alcolizzati come compagni di viaggio.

FIESTA
Grandi maestri di giornalismo davanti ai primi goffi tentativi di cronisti alle prime armi con le loro frasi fatte (“indagare a 360 gradi”, “brancolare nel buio”, “catino di San Siro”, “constatare l’avvenuto decesso”) liquidavano pazientemente il tutto con una sola frase: “Dovete scrivere come Hemingway”. Perché Ernest Miller H. di difetti ne aveva tanti (anche se tutti rimandabili alla sola categoria del grande mentitore), ma sapeva scrivere come si scrive (si cerca di scrivere) da allora. Niente aggettivi, niente fronzoli, niente mente e cuore, solo muscoli, nervi e fisicità come dice alla grande Anthony Burgess nel libro L’importanza di chiamarsi Hemingway (tr. it. P. Aluffi, minimum fax, 13 euro). Essendo Burgess autore di “Arancia meccanica” e di altre prestigiose sceneggiature cinematografiche, questa breve biografia (con molte immagini) vola. Facile farla volare visto il materiale: un uomo innamorato di se stesso e della sua inclinazione al superomismo, viaggiatore, pugile, cacciatore, eroe di guerra, bevitore, avventuriero, uomo con i cojones. Ma quello che Burgess riesce a fare è scrivere di Hemingway nonostante Hemingway, togliere la patina agiografica che l’autore del “Vecchio e il mare” appiccicava su ogni suo gesto e riportarcelo con la sua malinconia, la sua paura di non essere abbastanza dio, i suoi rimpianti in vecchiaia quando ripensava agli anni parigini e alla sua devozione all’arte ormai tradita, alla grandezza di Joyce, alla rabbia verso Fitzgerald, al gesto del padre che anticipò, decenni prima, quello di un figlio degli dei ormai sfinito.

(4 settembre 2008)

Dario Olivero, L’enigma Shakespeareultima modifica: 2008-09-24T19:09:00+02:00da mangano1
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