Maurilio Riva,Formiche in Galleria

aef9dc925920e365f49261df76340e0b.jpg

Formiche in Galleria 
 
 

Ritorno dalle ferie. Quest’anno pochi giorni e in patria per via dei soldi che sono sempre di più e contano sempre di meno. Due settimane in Liguria, per fare economia sul viaggio: campeggio in tenda, a mezzogiorno un po` di frutta, la sera ci si arrangia. Fuori a mangiare un paio di volte la pizza.

Le penne al sugo di noci da Al-Khandil sono solo un ricordo. L’importante è riposare, prendere il sole, fare il bagno, leggere un po’. Anche sui giornali tocca risparmiare. 

Remo, mentre indossa la giacca, avverte dal corridoio: <<Ma’, sto uscendo …>>. Lei di rimando: <<Ma come, sei appena tornato … non è mica una pensione>>. <<… mi vedo con Guido e Roberto>>.

Il padre se ne sta in un silenzio pensoso. Picchietta la mano sul tavolo di cucina, fumando l’ennesima sigaretta. Lo sguardo vagola oltre la finestra nel vuoto. Oppure si fissa sul ripiano di formica azzurra.

La madre subdora e, quasi a prevenire, sbuffando incomincia l’elenco delle lamentele: <<Sempre fuori, torna quando gli pare. Non mi sembra un bel modo di fare …>>.

<<Torno presto, non te la prendere Ma’ … ciao, ciao Pa’…>>.  

Senza attendere risposte Remo inforca la porta e si ritrova sulle scale. Non immagina certo che lì dentro, fuori lui, ci sarebbe stato un consiglio di guerra con mugugni e promesse di rese di conti.

La soluzione non era la migliore. Dove poteva andare? Così sui due piedi. In fondo, la casa era grande. Troppo grande per due persone sole. Accasato in proprio anche l’ultimo dei figli ce n’era rimasto di spazio. Visto che ci avevano abitato, in altri tempi, ben sei persone più gli eventuali e immancabili ospiti. Eppoi non chiedeva mica di essere mantenuto. Solo un posto per dormire. Giusto il tempo di trovare un’altra sistemazione.  

Tornando in quartiere aveva ripreso i rapporti con gli unici amici che vi erano ancora rimasti.

Li trova davanti al loro antico bar, seduti sul basello, la faccia annoiata. Il bar è chiuso. Remo non può non pensare che le ferie a quelli lì non si accorciano mai.

<<Te ti devi sempre far aspettare …>> lo apostrofano.

<<Eh, il tempo di arrivare … che si combina, stasera?>>.

 

A rispondergli è Guido, il più giovane dei tre. Universitario fuori corso, biondo, occhi celesti, buon giocatore di calcio. Remo l’aveva soprannominato “il piede sinistro di Dio”, per via che era mancino e giocava solo e unicamente con il sinistro.

Chiamarlo così era un omaggio al funanbolico Corso, ala sinistra tornante della grande Inter.

<<C’è poco da scialare … non ho quasi più benza. Se no, potevamo fare un salto a Como … Milano è un mortorio …>>.

Attacca quindi Roberto con la sua litania, il suo chiodo fisso. Ne ha ben ragione. Non era trascorso neanche un anno da quando aveva trovato finalmente un lavoro, in una fabbrichetta di minuterie metalliche a Novate, e già lo avevano lasciato a casa per il calo di commesse.

<<In quanto a soldi che devo dire io che sono senza lavoro? per fortuna che c’è la pensione dei miei e viviamo in una casa popolare … a trent’anni ancora sulle loro spalle. Anche per le sigarette>>.

Guido a seguire: <<mio padre non scuce  un ghello fino a quando non dò l’esame di Analisi 2…>>.

Roberto strabuzza gli occhi interrogante ma Guido lo gela e taglia corto: << lascia perdere …>>.

<<Visto che siamo tutti all’asciutto, propongo allora l’uso del mezzo privato alternativo e salvambiente per eccellenza: l’autoscarpa.  Facciamo una bella passeggiata verso il centro, un po’ di moto non guasta. Di sicuro ci sarà più vita che in zona … magari rimediamo qualche spettacolo gratis organizzato dal Comune. Si va?>>, conclude Remo.

<<Si va!>>, assentono gli altri due, con la faccia poco convinta. 

Il blu del cielo ha un chiarore particolare. Incomincia a imbrunire e tutto sembra tranquillo. Qualche nuvola increspata da pennellate di rosa. Nel punto in cui si intuisce il tramonto, oltre il cuore di cemento armato della metropoli, il sole che scende fa sfracelli di fuoco con il nero della notte che sale. Refoli d’aria confortano di tanto in tanto il non breve tragitto.

<<É bello camminare, qualche volta, in questa città>>, pensa ad alta voce Remo.

Gli altri due gli fanno il coro: <<Sai che roba …>>, <<Ha parlato Quasimodo …>>. 

Viale Argonne, Piazzale Susa, Corso Plebisciti, Piazzale Dateo, Corso Indipendenza, S. Francesco (Remo quella piazza l’ha sempre chiamata in quel modo per via della statua del poverello di Assisi), Viale Concordia, Piazza Tricolore, Corso Monforte, Piazza S. Babila, C.so Vittorio Emanuele.

Un lungo viale ininterrotto. Vedendolo dall’alto apparirebbe quello che è: un ampio fiume verde di alberi maestosi e fronzuti, proprio fino all’imbocco di Corso Monforte.

Ogni frazione di quel percorso è un ricordo per Remo, potrebbe scriverci sopra una storia, intriso com’è di episodi della sua esistenza.

Dalla Chiesa Rossa in fondo a viale Argonne dove ha fatto la cresima, alle case minime del dopoguerra – baracche di legno verde collocate proprio sul terrapieno al centro dell’immenso viale – rimaste in piedi almeno fin verso la metà degli anni cinquanta, dai giardinetti di Piazzale Susa dove, con i suoi due amici, giocava battaglie interminabili a pallone – tutti contro tutti – con il vuoto sotto il sedile delle panchine a far da porta, all’edicola dove si era avvicinato ai libri e ai giornali e dove trascorreva dei pomeriggi a far compagnia al vecchio giornalaio anarchico. Dal cortile del carbonaio che da anni non c’è più. Al suo posto sono cresciuti due altissimi condomini, uno dei quali proprio sul groppone della Standa che si è tenuta tutto il pianterreno e l’interrato, al bar Tabacchi dove, quando di televisioni private – un lusso non consentito – ce n’erano pochine, lui e tutta la sua famiglia andavano lì a vedersi lo sciòu del sabato sera. I grandi si consentivano un aperitivo e lui allungava le mani su olive e patatine.

In Piazzale Dateo c’era il distributore di benzina della Esso dove aveva lavorato per anni suo padre. Remo fin da piccolo aveva dato una mano riempiendo di carburante i i serbatoi delle auto e delle motociclette, con adulta soddisfazione.

Allo sbocco di via Poma, la latteria dove erano entrati in funzione i primi flipper e i giuc-bòcs. 

Quanti sogni ad occhi aperti dietro la pallina che rimbalzava contro gli ostacoli che rispondevano con il loro sberluccichio musicale, a cui ogni volta faceva seguito lo scattare del totalizzatore punti.

Remo si limitava a guardare. Primo perché i soldi erano pochini anche allora. Secondo perché sotto sotto se la faceva addosso dalla fifa: temeva di fare brutta figura mandando il flipper in tilt o realizzando pochi punti.

Come sarebbe stato semplice se solo ci fosse stato qualcuno a intuire i suoi timori e l’avesse condotto con mano sicura a provare quello che dopotutto era solo un gioco. Come sarebbe stato tutto più facile nella vita a seguire. Sarebbe bastata solo una mano, una guida rassicurante. 

Quanti sogni con cento lire a canzone. Schiacciavi i tasti della selezione: G 126. Il nastro su cui erano infilati i vecchi 45 giri si metteva in azione. Guardavi rapito il braccio meccanico che andava a catturare il disco disposto di taglio su una rastrelliera insieme ad altri, lo appoggiava sul piatto che si metteva in movimento mentre, in coordinazione, si era avvicinata e poi posata la puntina manovrata da un altro servo meccanico.

Remo avrebbe voluto – da grande – diventare un cantante o un attore di cinema, l’altra sua grande passione. Sogni. Sempre sogni. Sogni in vinile. Sogni in celluloide. 

In Corso Indipendenza invece c’erano delle siepi. Al loro posto ci hanno messo delle grate di metallo verniciate di verde: le prime servivano a separare le rotaie del 24, inteso come tram, dai giardini. Le seconde, persa l’originaria funzione dato che al posto delle vecchie rotaie c’è un terrapieno, delimitano adesso uno spazio riservato a parcheggio per auto: una lunga fila di macchine da Piazzale Dateo a Piazza Risorgimento, andata e ritorno.

A quel tempo dentro le siepi, c’erano – a una certa distanza gli uni dagli altri – dei paletti di legno conficcati nel terreno, il cui compito era quella di sostenere, tenendolo ben tirato, del filo spinato.

Remo non era mai stato uno sportivo, un pappamolla piuttosto.

Quella volta chissà come volle saltare quella siepe. Meglio, provò a saltarla facendo i conti senza l’oste-filo spinato. Restò impigliato con la gamba d’appoggio nello spiccare il salto.

Il ricordo, se mai avesse potuto dimenticare quella sua ennesima vicissitudine, gli era rimasto impresso permanentemente nella parte interna della coscia destra, subito prima del ginocchio: le cicatrici sembravano il risultato di una zampata di tigre i cui artigli affilati come rasoi erano, per sua fortuna, le punte acuminate del metallo un po’ arrugginito.

La prima cosa a cui pensò furono i pantaloni del suo unico completo nero spigato. Il vestito della festa. Allo squarcio a elle che si era prodotto sul tessuto. Alle ri-percussioni familiari. Non al dolore e alla figuraccia, i cui sintomi – bruciore delle ferite, avvampo di viso e orecchie surriscaldate, tipiche di vergogna – vennero subito dopo. <<Cazzo, quanti ricordi … una vita intera>> pensa tra sé e sé Remo. 

Era il più adulto dei tre e non aveva combinato gran che di buono, in compenso di cazzate ne aveva collezionate un discreto numero. Si era sposato molto presto e aveva una figlia, una bambina ormai abbastanza grandicella. Ma non aveva funzionato. Si era separato da qualche mese. Ecco perché se ne era ritornato a stare provvisoriamente dai suoi.

Chi se lo immaginava che qualche giorno dopo sua madre lo avrebbe messo fuori dalla porta come fosse un estraneo. Pur non sapendolo ancora non vedeva grandi ragioni per avere il cuore contento. Stava con gli altri per non restare solo. Se no ci sono delle volte che ti pare di impazzire, come una mosca che cerca una via d’uscita e continua a sbattere contro i vetri di una finestra. 

Intanto la passeggiata proseguiva. Roberto aveva tentato di dirottare la marcia proponendo una sosta al chiosco di bibite che c’è proprio dirimpetto alla statua di S. Francesco in Piazza Risorgimento.

<<Dai, facciamoci una granita …>>. Ma la sua proposta viene cassata con un po’ di rimbrotti, rinviando l’eventuale carburazione all’arrivo in Duomo.

Imboccando Corso Monforte a Remo capita di pensare che gli alberi, il verde sono ormai solo alle loro spalle. Più ti avvicini al centro città e meno verde trovi.

Se si esclude Piazza della Vetra e qualche fazzoletto qui e là di verde pubblico ce n’è proprio poco. Gli spazi costano, gli interessi incalzano. 

In realtà il verde ci sarebbe. C’è ma non si vede. É un verde privato. Non ad usum dei cittadini. Lo trovi per aria. Sì, sui tetti dei palazzi signorili. Negli attici della Milano nobile. Giardini pensili.

Oppure dentro i cortili. Chiusi a chiave, riservati, nascosti ai più. Piccoli boschi con tanto di fontane, statue, vialetti e panchine. Serre serrate tra spessi muri di cinta e alte pareti.

Se ti va bene, sono tutte cose che puoi vedere in qualche costoso libro di fotografie patinate. Oddio, in entrambi i casi un verde come il caffè in lattina: un po’ sotto vuoto spinto. 

A Remo torna in mente un film di qualche anno prima, una favola fantascientifica con una splendida colonna sonora di Joan Baez. Un’astronave spaziale con a bordo uno strano carico: l’ultimo giardino sopravvissuto della terra. Inviato nello spazio dentro una calotta di vetro perché nelle città non c’era più posto.

Accudito e conservato fino a quando arriva l’ordine di distruggerlo perché i costi di gestione sono diventati incompatibili. Si ingaggia naturalmente una lotta fra chi vuole eseguire gli ordini e chi li ritiene assurdi. Il primo film di avvenirismo ecologico. Remo ricorda che c’erano in quel film degli interpreti formidabili: una coppia di simpatici robottini tuttofare. Straziante gli era sembrato il dolore meccatronico di uno dei due quando perde l’altro, il suo compagno, in un incidente.

<<Andrà a finire così?>>, Remo rimugina fra sé e sé. 

Poco oltre, a metà circa di Corso Monforte iniziava la vecchia cerchia medioevale, l’antica cerchia dei navigli. I navigli. Se ci pensi, quasi nessuno lo sa. Solo sessantanni prima scorreva l’acqua proprio al posto della corsia per taxi ed autobus, protetta dal serpentone di cemento.

Il centro di Milano era circondato da canali e da laghetti, avvinto in un abbraccio dalle acque che dal Ticino e dall’Adda arrivavano fin nel cuore della città attraverso questi canali.

Remo l’aveva visto sulle mappe disegnate in un libro. Gli sfuggono ancora le ragioni di un simile scempio. A Parigi, a Londra, ad Amsterdam – per citare alcune delle metropoli europee – non si sarebbero mai sognati di fare una cosa del genere.

Cosa ti puoi aspettare se a Milano – all’inizio del secolo – ci fu addirittura fra i consiglieri comunali chi voleva abbattere il Castello Sforzesco per far posto a nuove edificazioni speculative. Trincerandosi dietro la motivazione populistica e demagogica che <<tanto agli occhi dei milanesi quello era sempre apparso un simbolo del potere oppressivo>>. 

Dove stavano transitando c’era stata anche una porta. Ma qualche secolo prima, però. Uguale alle, purtroppo, uniche tre rimaste ancora in piedi. Anche queste sono cose che sanno in pochi.

Senza la memoria del passato non c’è futuro. Era una frase che Remo aveva letto da qualche parte. Suonava bene. Forse il senso era anche giusto. Se pensava al caso suo, ora, gli sembrava di averne un sacco di questa memoria. Non gli riusciva però di intravedere per sé un qualche futuro. 

Oramai sono arrivati in S. Babila. Mentre attraversano la piazza in modo perpendicolare si accorgono di un certo movimento, di fronte a loro, là dove il Motta fa angolo.

Sotto i portici di Corso Vittorio Emanuele c’è infatti uno strano brulichio di persone e di cose: numerosi cartoni per terra in lunghe fila, la gente sdraiata sopra. Un certo numero di canadesi montate, qualche fornello acceso: un accampamento in grande stile.

Il primo a commentare qualcosa è Guido: <<Guarda quanti vu’ cumprà. Cos’è l'”Estate in Galleria”?>>.

Si sovrappone già risentita la voce di Roberto: <<Non se ne può proprio più. Adesso anche in Piazza del Duomo vengono a bivaccare?>>.

Remo urtato li corregge: <<Ma che cazzo di occhi avete? Non vedete il colore della pelle: sono bianchi!>>.

Roberto non molla l’osso e sullo stesso tono bilioso: <<Allora saranno i soliti polacchi, russi, bulgari, croati, albanesi del cazzo. Colpa di tutti ‘sti barboni se andiamo di male in peggio …>>.

Remo con pazienza didascalica cerca di chiarire loro le idee: <<No, sono operai di Milano, di fabbriche come la tua che chiudono o che licenziano, solo che loro i genitori con la pensione non ce li hanno più. La stessa cosa – ho letto – accade anche a Brescia, a Torino, a Genova. Sono gli homeless, negli Stati Uniti li chiamano così: un fenomeno che sta interessando tutto l’occidente >>.

<< ??? >>.

<< I senza casa e senza lavoro. Colpa di Mastricht, del trattato …>>.

Roberto lo interrompe: << … del trattato di che?>>.

Remo prosegue: << Ma sì, l’Europa. L’Europa unita e senza frontiere, l’Europa del libero mercato: dicono che il tempo delle cicale é finito. Dicono che se vogliamo far parte dell’Europa, anche da noi deve ricominciare l’era delle formiche …>>.

Lo sguardo di Roberto è torvo, la voce imbestialita: <<Formiche??? Ah, sono formiche? Non c’è problema, ci penso io: prendo l’accendino e le brucio tutte …>>.

Maurilio Riva,Formiche in Galleriaultima modifica: 2008-02-16T13:30:00+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo

2 pensieri su “Maurilio Riva,Formiche in Galleria

  1. il racconto ha un senso, visto che è stato scritto nel 1994, se si tiene conto di una notizia che la scorsa settimana ha tenuto banco e cioè che sono 5000 (cinquemila) i senza tetto a Milano. Lo dice uno studio dell’Assoedilizia, non so quanto interessato. Si tratta di singoli ma anche di nuclei familiari che dormono sulle panchine, sotto i portici, sdraiati negli androni, in scatole di cartone o in auto. Fra l’altro, stanotte è morto per assideramento un egiziano di 40 anni. La sua dimora era una panchina collocata davanti all’Ospedale Fatebenefratelli. Quando i medici del nosocomio, chiamati da alcuni cittadini, sono usciti per prestare soccorso hanno potuto solo constatare che non c’era più nulla da fare.
    Maurilio Riva

  2. il racconto ha un senso, visto che è stato scritto nel 1994, se si tiene conto di una notizia che la scorsa settimana ha tenuto banco e cioè che sono 5000 (cinquemila) i senza tetto a Milano. Lo dice uno studio dell’Assoedilizia, non so quanto interessato. Si tratta di singoli ma anche di nuclei familiari che dormono sulle panchine, sotto i portici, sdraiati negli androni, in scatole di cartone o in auto. Fra l’altro, stanotte è morto per assideramento un egiziano di 40 anni. La sua dimora era una panchina collocata davanti all’Ospedale Fatebenefratelli. Quando i medici del nosocomio, chiamati da alcuni cittadini, sono usciti per prestare soccorso hanno potuto solo constatare che non c’era più nulla da fare. Maurilio Riva

I commenti sono chiusi.