Bruno Accarino, La zoologia della politica

414762bf8a30ee0ac6de280ffbac6a06.gifai tempi dell’antica Grecia, la zoologia politica ha trovato di recente nuove declinazioni. Da Bauman a Siegert, un sentiero di lettura attraverso le opere che individuano nelle società degli animali i riflessi del nostro collasso Il Leviatano è ormai uscito di scena, sostituito da un nugolo di calabroni, così come la nave ha dovuto cedere il passo, nella belligeranza marittima, agli invisibili sottomariniBRUNO ACCARINOda IL MANIFESTOQuando si parla, in termini di metafora politica, degli «insetti sociali», un riferimento obbligato è quello alle api e alle formiche nel diciassettesimo capitolo del Leviatano di Hobbes. Il quale, tuttavia, non si allinea a chi – e si tratta nientemeno che di Aristotele – le classifica come esseri viventi politici. Per Hobbes i costrutti a cui dà origine la loro attività comune non sono politici: per arrivare a questo livello occorre una protesi non naturale, e sarà fornita dal Leviatano. È proprio la carenza di ragione che rende più pacifiche e più disponibili al bene comune le comunità degli insetti. Gli Stati costruiti dall’uomo sono, al confronto, deficitari, ma il deficit felice di razionalità è degli insetti, non degli uomini.Poteri carismaticiMa il punto è altrove. Anche a voler fare astrazione dalla Favola delle api di Mandeville, che conferisce definitiva classicità all’esempio politico-sociale delle api, il quadro metaforico è soggetto a sensibili trasformazioni. Già a fine Ottocento la metafora dello Stato delle api viene storicizzata e in buona sostanza abbandonata: essa si fonda su una descrizione antropomorfica della natura che non regge all’esame dei fatti biologici. Nel momento in cui entra in gioco come categoria centrale l’organismo, l’ape regina perde la sua aura di solennità governativa, o almeno reggente, e si trasforma in madre. Di educazione, di virtù e di altre amenità antropomorfiche non si fa più parola: la politica comincia a non chiedere più agli animali di esibire paradigmi che essa stessa non sa produrre.Trasferiamoci ora a bordo del Pequod, la nave del capitano Ahab in Moby Dick. Lasciamo da parte le similitudini possibili, care a Carl Schmitt, tra la balena di Melville e il mostro biblico che dà il titolo all’opera di Hobbes. Può interessare invece che Ahab – che ha certamente da gestire il problema della sovranità in mare – non presenta a prima vista icone regali arcaiche, bibliche, cristiane o moderne, ma i tratti di ciò che dopo di lui si chiamerà potere carismatico. La scenografia sarà pur quella di un teatro della sovranità, ma il fatto è che il potere carismatico è una mostruosità politica, di segno chiaramente anti-istituzionale: se ne servì a piene mani, contro tutte le tradizioni, proprio Gesù, («è scritto ma io vi dico …»). Un trono vacanteMolto probabilmente, chi (Max Weber) ha in qualche modo codificato quella tipologia di potere, non poté farlo senza passare attraverso l’epilessia costituzionale degli sciamani e senza percepire i territori limitrofi a quelli dell’allora nascente patografia psichatrica, che trova abbondante materiale di analisi nel carattere monomaniaco della personalità di Ahab. Del quale interessa, però, soprattutto la metamorfosi, che quasi annulla la distanza tra lui e la balena bianca, introducendo lineamenti di mostruosità perturbante in armonia con i caratteri eroici, comunque abnormi, del potere carismatico: nel caso dell’Achille omerico, per esempio, evocano uno stato di possessione. Se di sovranità dell’invasato capitano sull’equipaggio si può parlare, è una sovranità in divenire, con una insopprimibile carica demoniaca che apre le porte a una bestialità indeterminata e lascia da parte la specificità di questo o quel mostro. Il bestiario o il patrimonio metaforico che da sempre ha accompagnato la politica viene congedato: tutto ruota attorno al fatto che qualcosa di non umano occupa la posizione vacante del sovrano e genera, anzitutto nella ciurma, il panico, la concettualizzazione delle cui occorrenze consentì non a caso di analizzare in modo inedito i sussulti del capitale finanziario e gli sbalzi imprevedibili della borsa, pesantemente materializzatisi nella crisi del 1929. La politica viene ormai lambita, anzi colonizzata dalla malattia di nervi, dal modo scriteriato in cui prendono corpo i rapporti sociali, dal moltiplicarsi di quelle anomalie psichiche che a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo trovano una notevole sistematizzazione scientifica e quasi preparano il terreno alle indagini non tanto di un Freud, quanto di un Elias Canetti. La letteratura reazionaria non aveva mai esitato a parlare di follia, di delirio dei rivoluzionari, ma si trattava di iperboli funzionali all’architettura retorica del discorso. Ora lo spazio tra l’esagerazione retorica e la realtà si è molto ridotto: la politica non è necessariamente appannaggio dei sani di mente, anzi. Di tanto in tanto, oggi si invoca una perizia psichiatrica per qualche esponente del ceto politico italiano vicino a un profilo carismatico, ma questa aneddotica vagamente esorcistica non rende conto dello scontornarsi della sfera pubblica.Vediamo un terzo scenario. Secondo Zygmunt Bauman, il gruppo con il suo capo e con la sua gerarchia viene oggi sostituito dallo sciame, in particolare da quello inquieto dei consumatori. Raggruppamento mobile e provvisorio, pronto a sorgere e a scomparire in funzione di obiettivi momentanei e mutevoli, lo sciame ha bisogno solo di una traiettoria, peraltro temporanea, non certo di una forma. Al di là di Bauman, si può osservare che la somma delle parti e l’insieme di uno sciame (che non può mai essere un intero, ma sempre solo un insieme eterogeneo) si comportano secondo il registro di relazioni dinamiche. Se mai vi è una forma ibrida, è quella degli sciami, che in quanto collettivi eterogenei indicano il margine di altri corpi collettivi omogenei, sono anzi definiti in se stessi da fenomeni tipici del margine: da intendersi, quest’ultimo, come una soglia, piegata verso l’interno, che distingue la densità dal vuoto. Dal costante mutamento degli individui dello sciame consegue che ogni elemento può diventare impercettibilmente margine e corre il rischio di essere designato come quello che cade fuori del collettivo. La partita si gioca sempre sul filo dell’inclusione e dell’esclusione, anche se con modalità diverse da quelle del lupo mannaro di Robert Louis Stevenson, che di notte stava con loro, le bestie, e di giorno con noi, gli esseri viventi perbene. Certo, il mondo animale offre sempre spunti cosiddetti teratologici, invita al censimento dei mostri, degli orrori, delle stravaganze della natura: andato in soffitta l’animal rationale, a chi verrebbe però in mente di perimetrare una qualche normalità?Eppure lo sciame non è una festa della spontaneità: il collettivo dello sciame è un fuori rispetto all’organizzazione stratificata dello Stato, ma non all’organizzazione in generale. In termini foucaultiani, non appartiene né a una tecnologia disciplinare, con la sua zavorra di separazioni gerarchizzanti e prescrittive, né a una tecnologia della sicurezza: può diventare semmai il punto di riferimento di un sistema economico neoliberale che ha cessato di demonizzare il suo essere esterno alla statualità e ne fa il punto di leva di una riformattazione del sapere politico «governamentale». Lo sciame secerne e neutralizza contingenza in modo autogeno: sbanda e si ricompone, si sfrangia e si riassesta.Il Leviatano è uscito di scena, al suo posto è subentrato lo sciame di calabroni, allo stesso modo in cui la nave ha cessato di essere luogo delle decisioni sovrane in mare e ha ceduto il passo, nella belligeranza marittima, agli invisibili sottomarini. Se a bordo del Pequod prende corpo una crisi di identità del cacciatore, che diventa a sua volta oggetto di caccia, nello sciame si consuma il depotenziamento della modernità politica. La frenesia anti-sovranistica ne fa un living network e scatena fantasie di un nuovo agire politico, all’insegna di una zoo-euforia per la quale non solo non è necessario conservare, ma è auspicabile perdere la lucidità ed entrare nel vasto ed elettrizzante mondo della iper-realtà. L’affinità con i principi neoliberali dell’ottimizzazione economica è scritta nelle cose stesse, perché le zootecnologie dei collettivi sciamanti installano un’autoamministrazione della vita pensata a partire non dal bios, cioè dall’area civilizzata e politicizzata, ma dalla zoé, cioè dalla vita animale. L’euforia nasce dal fatto che lo sciame sembra in grado di aggirare le ormai note aporie della massa e della società di massa, puntando su un’economia fatta di protocolli software e di strutture hardware che gestiscono la connettività con altri potenziali individui dello sciame. Dal disordine locale della moltitudine informe emergono infatti ordinamenti globali, che non condividono il bisogno della massa di affidarsi a un capo. La dicotomia tra locale e globale si risolve in forme e movimenti di auto-organizzazione: mentre la massa rivoluzionaria trova una carta d’identità nella decapitazione del re, il principio funzionale del collettivo che sciama è l’acefalia. Il margine non è un confine, essendo troppo mobile: gli individui dello sciame agiscono secondo regole fondate su un’informazione locale lacunosa e limitata al loro ambiente, e su segnali relativi alle posizioni e alle direzioni di movimento dei «vicini prossimi». Manca uno sguardo sinottico sull’intero collettivo dello sciame, e dunque anche la possibilità di monitorare (se non con simulazioni computerizzate) la direzione e la velocità degli individui: i quali, perciò, si comportano in modo approssimativo, tuttavia senza commettere errori.La sfida dell’iperrazionaleDalla connettività alla collettività, e dal mondo animale a quello umano, il passo non è indolore, e vien fatto di pronosticare una resistenza delle forme «sovranistiche». Ma intanto: chi parla più degli insetti alacri e cooperativi? Chi invidia più l’etica del lavoro delle formiche? Basta e avanza sciamare, ci si socializza a frotte o a stormi. La zoologia politica non ha bisogno di squilli di tromba per ripresentarsi a noi: dalle favole di Esopo a oggi, non ci ha mai lasciato, si fa più presto a contare gli animali non coinvolti nella tradizione della «metaforologia» politica che quelli a vario titolo convocati. Cavalli investiti di strategie iconografiche perché montati da principi, cani, pesci, lupi, le pecore di Nietzsche: chi più ne ha più ne metta. Ma oggi non c’è da additare per differentiam la superiorità del mondo umano rispetto a quello animale: si accetta la sfida dell’irrazionalità, o dell’iper-razionalità, anche e soprattutto quando ci si dà strumenti informatici. Sciame in tedesco si dice Schwarm, e Schwärmerei è una parola che capita di imparare anche al liceo, se non altro perché è quella con la quale Kant bollava il fanatismo degli anti-illuministi. Chi sospetta, magari semplicemente perché imbranato di fronte alla tastiera, che dietro le scintillanti procedure dell’informatica ci sia un che di orfico, di religiosamente astruso, non ha tutti i torti: fiuta gli aspetti deliranti della connettività. Oltre i rumori di fondoNon sarebbe difficile elencare i motivi di questo ritorno di fiamma della zoologia politica. La ferinità, certamente: il mercato non fa prigionieri, e questo dato, che una volta avrebbe mobilitato schieramenti politici, oggi si naturalizza come sovratemporale dono (o maledizione, fa lo stesso) di Dio, sollecitando tutt’al più etiche compassionevoli, ma suscitando un senso quasi estetico di godimento a fronte di una potenza schiacciasassi il cui programma biologico è la cancellazione di milioni di esseri umani. La tensione auto-organizzativa dello sciame si scarica in un anti-statualismo pronto a bastonare ogni forma di welfare. E naturalmente tutta l’infondatezza di questi agglomerati che si librano al di sopra delle volgari vicende umane potrebbe essere solo ideologia: va commisurata al perdurare di rapporti materiali magicamente invisibili o scomparsi. Ma la ferinità da sola non basterebbe. La vita animale è priva di scena e di rappresentazione: è noise, rumore, ed entra in ciò che si intende come order from noise, con il suo corredo di turbolenze accompagnate o seguite da effetti ordinativi. Nelle interferenze e nei rumori casuali dei canali di informazione sarà forse possibile leggere il collasso della rappresentanza più di quanto sarà possibile farlo tallonando la «casta» (per quello che serve, poi). Nel disgregarsi e nel riaggregarsi di collettività senza alcun curriculum politico si potrà trovare un barlume di risposta ai fenomeni che ci spiazzano e che in Italia sono arrivati perfino in ritardo: la trasversalità del conservatorismo, la superfluità della dirittura morale individuale, l’anacronistica grevità della coerenza biografica, l’irriconoscibilità di una geografia politica che non sa più dove collocare la destra e la sinistra.

Bruno Accarino, La zoologia della politicaultima modifica: 2008-03-28T23:18:32+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo