Giulio Stocchi, Poesia e Parkinson, ovvero i polli di Renzo

64a982c1c00d3d9f1c00f9f90fa4b259.jpgGiulio Stocchi, I polli di Renzo ( una risposta a Ennio Abate)Questa poi… No davvero, non posso crederci. “Che gli abbia dato di volta il cervello?”, mi chiedo leggendo e rileggendo la, si fa per dire, poesia che Ennio Abate ha avuto la cortesia di dedicarmi e di mandarmi:Il poeta in tempo di guerra non trema abbastanza a Giulio StocchiÈ qui il poeta, coi suoi libri.Ha una rosa in un bicchiere.Io questa mattina mi sono feritoa un gambo di rosa, pungendomi il dito.Aveva chiuso la radio dopo che da noi le grida in piazza e gli spari erano di botto cessati.Ora la riapre. Lontano lontano si fanno la guerraIl sangue degli altri si sparge per terra. I morti sono arabi e americani.In tempo di guerra il poeta si ritrova solo.Immagina un’aquila trafitta e finita a sassate.Ne descrive la morte. Avviene in riva al mare.Immagina incendi, soldati o consimili.Ammazzano e violentano con metodo.Lasciano sempre una vittima viva: una donna di solito, che piange e racconta.Il poeta come lei si dispera, ma ha la poesia.Alla donna hanno ucciso qualcuno a lei caro.Non ha più la poesia.Il poeta ha ricordi d’amore.Vede nel buio la città assopita.Pensa alla città lontana che brucia.Scrive un’invettiva. Nel tempo di guerrail poeta si pone il compito di «proteggere un fiore/una nuvola un sospiro».Lontano lontanoi guerrieri spazzano dal pavimento il sangue dei corpi appena torturati.Restano i cieli, le cicale, le strade di campagne, i fiori, gli amorifrequentati dalla buona poesia.Lontano lontano esplodono gli uomini-bomba senza raggiungere l’altezza della poesia.Nessuno più – qui – osa combattere i guerrieri.Nessuno pretende più qualcosa dai poeti.Dopo Auschwitz, quanto Ruanda, Irak, Afghanistan, eccetera.Ma dopo Auschwitz quanta poesia!Poesia e guerra – la strana coppia! -avanzano assieme.La guerra continua il suo massacro permanente.La poesia continua il fiacco suo vecchio strillo.S’ode a destra uno squillo di tromba, È la guerra.A sinistra risponde uno squillo.È la poesia civile di un paese che legalmente, democraticamentetramortisce donne, lavavetri e rumenie affonda nel suo sputoi barconi appena arrivati.Oh, cara la mia poesia inerme bestiola in anestesiasul tavolo operatoriodi questa immonda puttanesca televisiva democrazia…17 ott 2004/ 8 novembre 2007 (per serata alla Permanente) Questa, voglio essere gentile, composizione di Abate non solo è stata declamata nientepopòdimeno che al Palazzo della Permanente di Milano (come si evince da grassetto, non mio, ma di Abate), ma è stata addirittura pubblicata in una antologia dal calcistico titolo di Poesia contro guerra, per i tipi di Punto Rosso, la casa editrice di Rifondazione. Un partito al quale auguro di tutto cuore maggior successo nella riedificazione del comunismo di quanto ne abbia avuto nel campo della poesia, che con i, si fa sempre per dire, versi di Abate, più che rifondato ha affondato.Di primo acchito mi pare inoltre stravagante il fatto che, schierando i propri uomini in campo nella partita epocale di Poesia contro Guerra, la Poesia indirizzi il primo calcio non contro la propria storica avversaria, la Guerra, ma lo assesti fra i denti di chi, come il sottoscritto, ha dedicato una vita a contrastare dribbling, rigori e contropiedi di quella famigerata campionessa in maglia nera, falce e teschio. Ma tant’è: dato che è buona regola assumere le ragioni di chi ti critica, vediamo un po’ di raccapezzarci in tutto questo guazzabuglio.Il succo della critica sta tutto nel titolo così che Ennio Abate avrebbe potuto risparmiarsi la per lui immane fatica – sigarette, bocca impastata, notti insonni, pensate!, dal 17 ottobre all’8 novembre- di scrivere tutto il resto e risparmiare a noi lettori il fastidio intellettuale di scorrere quelle righe che vanno a capo.Dunque, dice il mio amico Ennio, “Il poeta (che poi sarei io) in tempo di guerra (sarà l’epoca calamitosa in cui viviamo o il titolo del mio libro omonimo? Mah…) non trema abbastanza.” Mi viene fatto subito di osservare che, non dico in una partita di campionato, ma neppure in quelle partitelle alla buona che si giocano, o si giocavano, nei prati di periferia con le giacche e i cappotti a segnare la porta, tremare non è salutare né conveniente per le sorti del gioco.Comunque Ennio, che è un uomo d’onore, dice che il poeta non trema abbastanza. E passiamogliela per buona. Già… Ma cosa vorrà mai dire “tremare” nel linguaggio sgangherato del Nostro? Proviamo a indovinare. Esclusa l’ipotesi dello spiffero, del colpo d’aria, della febbre terzana o del Parkinson, tremare vorrà dire partecipare, indignarsi, soffrire, commuoversi, provare compassione…Allora vediamo, e qui entriamo nel vivo di quella involontaria farsa cui il genio abatesco ha dato vita:C’è un tizio, un poeta, che se ne sta lì coi suoi libri. Quindi oltre che poeta, la presenza dei volumi ci dice che il tizio deve essere un intellettuale. –“Appena sento quella parola metto mano alla pistola”, diceva quel tale. Non abbiate paura: tra poco, come vedremo, Abate non esiterà a sfoderare la sua micidiale Fortini calibro 45 special-. Oltre che intellettuale, il nostro poeta deve essere un uomo raffinato, forse un poco effeminato – è questo che faceva prudere le mani a quel fegataccio del succitato Goering?-: tiene una rosa in un bicchiere.Ma, voi lo sapete, quegli smidollati degli intellettuali, per non parlare poi dei poeti, hanno sempre la testa fra le nuvole, non sono temprati dal duro cimento dell’Azione. Insomma: sono un poco sbadati. E il nostro eroe una mattina – chissà perché non il pomeriggio o la sera, dato che come tutti gli slombati pari suoi deve dormire fino a tardi – si punge il dito al gambo della rosa.Però, un momento: questi corsivi mi allarmano… Ma certo… Sono i versi delle Canzonette del Golfo di Fortini… Arma Letale Numero Uno: le prime pallottole dum-dum del Francotiratore, come si firmava Fortini in una famosa rubrica dei Quaderni Piacentini e con le quali Abate apre un vero e proprio fuoco di sbarramento contro il nostro povero poeta che in fondo se ne stava lì tranquillo coi suoi libri e la sua rosa. Però bisogna capirlo il nostro Ennio: è un ragazzo che certo farà strada, ma siccome non è molto saldo sulle gambe per affrontare il cammmino, ha bisogno di rinfrancarsi con la rimasticatura, a sproposito, come vedremo fra poco, dei versi del suo amato Franco.Ma andiamo avanti, perché le scoperte non finiscono mai: il nostro poeta, udite! udite!, è un poeta moderno: possiede infatti una radio. Che teneva sempre accesa, forse per distrarsi, per farsi coraggio, per non tremare troppo – ma non era di “tremitocarenza perniciosa” l’infausta diagnosi del Dottor Abate?- per tutte quelle urla e quegli spari che risuonavano in piazza. Tant’è vero che cessato il bailamme intorno, e a sua volta rinfrancato, il nostro poeta spegne la radio e si ritrova nel più assoluto silenzio. Che palle! Che noia! Uffa! Cosa faccio? Va bene i libri, va bene la rosa… Ahi! Accidenti a questa maledetta che m’ha punto col suo gambo… E quindi al poeta tediato e sfinito, ma soprattutto rientrato in pieno possesso dell’uso del dito che si è nel frattempo accuratamente medicato, non resta che premere con l’indice un tasto e riaccendere la radio.E così dalla voce calda e ben impostata di uno speaker viene a sapere che Lontano lontano – non è Tenco, ma sempre Fortini della serie Una pallottola spuntata- arabi e americani se le danno di santa ragione.“Poesia zero, Guerra otto”, proclama sempre lo stesso speaker nel Notiziario sportivo.E allora il nostro poeta che oltre ad essere moderno deve anche avere un cuore grande così, decide di intervenire nella partita per risollevare le sorti della povera Poesia.E cosa fa? Mobilita la sua immaginazione, arruola i suoi ricordi d’amore, chiama alle armi persino le rose che con le loro spine possono sempre essere utili, mescola tutti questi ingredienti insieme, ne fa un beverone, lo tracanna, elude i controlli dell’antidoping, scende sul terreno di gioco, nel ruolo di mezz’ala, sinistra, naturalmente, date le sue convinzioni. E’ un fulmine di guerra nella sua inarrestabile corsa verso la porta avversaria. Sugli spalti la folla è in piedi. Tiene il pallone incollato al piede. Scarta un giocatore in maglia nera dietro l’altro. Lo stadio è tutto un boato. ALE’-O, ALE’-O… Altro che tremare: il poeta è scosso da una crisi epilettica in piena regola. Scrive persino un’invettiva e “GOAL!!!” esplode la folla in delirio.Ma che succede? Dai margini del campo una figurina, calzoni corti e calzettoni bianchi, prende a correre. Ha qualcosa fra le labbra. Si avvicina, ingigantisce, incombe e “FALLO!!!” fischia inflessibile l’arbitro Abate. Ma come? Ma perché? “Il poeta non ha tremato abbastanza”, decreta inesorabile. Il suo tremito non ha provocato quel terremoto salvifico, quella apocalittica palingenesi che il catecumeno Abate si aspettava: e infatti lontano lontano, come se niente fosse, i guerrieri continuano a spazzare il sangue nelle celle, lontano lontano i kamikaze si fanno esplodere senza giungere all’altezza della poesia che del resto neanche la donna cui “hanno ucciso qualcuno a lei caro” riesce a trovare malgrado le lunghe code all’Ufficio Oggetti Smarriti. E dunque: “Espulsione immediata”, è l’insindacabile decisione dell’Incorruttibile.E al povero poeta moderno e di buon cuore non resta che uscire mogio mogio e scornato dallo stadio e tornare alla sua occupazione preferita: “proteggere un fiore/una nuvola un sospiro”, stando ben attento a non pungersi e a non buscarsi, con tutta quell’aria aperta, un’infreddatura. Noto di sfuggita che questi versi, scritti dal nostro sventurato poeta, sono orbati, per manifesta indegnità di fronte al nemico, del corsivo con cui vengono decorate le altre citazioni. E naturalmente a quel testone di Abate non passa neanche per la mente che se non solo i poeti ma tutti si dedicassero a quella ecologica occupazione, la Guerra da campionessa del mondo verrebbe certo retrocessa in serie C.E invece, dopo la memorabile vittoria di Auschwitz, la Guerra passa di trionfo in trionfo in ogni stadio: “Ruanda, Irak, Afghanistan eccetera”. Ma perché “eccetera”? Perché non aggiungere, che so?, Cecenia, Nepal, Kossovo, Darfur, Sierra Leone, Libano, per fare qualche nome a caso, alla triste giaculatoria? Ma si sa: tamquam dormitat Homerus, ma soprattutto il nostro vate aveva fretta, voleva tagliar corto, per raggiungere il suo climax, per farci assistere al suo coup de théatre.E qui, bisogna riconoscerlo, Abate, spogliatosi dei panni dell’arbitro, deposto il berretto frigio e cintosi del lauro del, si fa ancora una volta per dire, poeta, ha un colpo di genio. Attinge le vette del sublime. Sembra di essere tornati ai tempi del cinema Alcione, dello zio Trojsi e dell’avanspettacolo coi fratelli De Rege che facevano sbellicare dalle risa gli spettatori con le gags della loro farsa immortale intitolata Vieni avanti cretino…E infatti da quello sfondo di rovine, Auschwitz e tutto il resto, ecco presentarsi in proscenio una, testuale, strana coppia. Jack Lemmon? Walter Matthau? Ma no: è la Poesia a braccetto di quella testa calda sgavazzona della Guerra. Ma come? Non erano impegnate in una partita da Coppa Uefa? Ma la logica, come del resto la poesia, non è il forte di Abate.La poesia in verità è un poco conciatina – sfido, dico io, se ci sono poeti come Abate…-: giace su un tavolo operatorio. Ma poco fa non era tutta pacche, frizzi e lazzi con la Guerra? Altro salto logico, vedi sopra. Ma forse sono troppo cattivo. Si tratta indubbiamente di una rimasticatura, pardon!, di una citazione di Abate che so coltissimo e di buone letture: non parla forse Mallarmé della “Operazione o Poesia” nel suo Coup de dés? E naturalmente quella operazione, e qui Abate ci mette del suo, non può svolgersi altro che su un tavolo operatorio: ça va sans dire… Comunque ci avviamo alla conclusione, alla grancassa finale, tra squilli di tromba – ma dato che tutto l’oggetto del contendere è la tremarella del poeta, perché citare la Battaglia di Maclodio e non piuttosto Ei fu siccome immobile? L’effetto comico sarebbe stato assicurato: sarà per la prossima volta..- dunque, dicevo, squilli di tronba, barconi affondati dallo sputo – una escrezione, questa, di cui Abate è ottimo intenditore e provetto praticante -, donne, lavavetri, rumeni che sono come gli archi, i fiati e i legni che ci accompagnano al gran botto conclusivo, e questa volta il corsivo lo metto io: questa immonda puttanesca democrazia televisiva.Della quale il nostro poeta moderno e di buon cuore non sospetta neppure l’esistenza perché possiede, è vero, una radio, ma non ha mai sentito parlare di quella nuova, mirabolante invenzione che è la tevisione.Cosa si può dire di serio di fronte a tutto questo? A una tale sciatteria? A tanta inconguenza? E soprattutto come fare entrare nella testa di Abate che i versi delle Canzonette del Golfo, di cui si fa scudo, sono una delle più stridule e strazianti dichiarazioni di impotenza e di sfiducia nella poesia che siano mai state scritte? E allora i casi sono due: o si prende per buona la lettera di questi versi e allora si rinuncia a scrivere poesie che abbiano per argomento la guerra, a costo di rinunciare ad essere pubblicati nelle prestigiose antologie che hanno ospitato Abate; anzi, a ben vedere, si dovrebbe rinunciare a scrivere poesie tout court, dato che dopo Auschwitz… e bla… e bla… e bla… Adorno docet…Oppure di quei versi si coglie il senso profondo e allora si impara da Fortini, che è sempre un grandissimo maestro, e che, questa volta, ci insegna per antifrasi. E ci dice: non fate così. Non statevene chiusi in casa a gingilllarvi coi fiori. Uscite. Andate fra la gente. Perché si tratta di rendere VICINO VICINO ciò che è LONTANO LONTANO: nel nostro caso, gli orrori della guerra, tanto per citare il titolo della celebre raccolta di Goya che ancora ci commuove e ci fa riflettere.Questa è la funzione della poesia, non quella di bacchetta magica che toglie i peccati dal mondo, ma quella di ricordare, di rievocare, di rendere presente qui ed ora, προ ομματον, “sotto gli occhi”, come diceva Aristotele, ciò che il poeta immagina e di cui canta, con maggiore o minor vivezza, a seconda del talento e della maestria di ciascuno.Questo gli Antichi lo sapevano e lo sa anche la mia piccola Anja che, a quattordici anni, mi scriveva: “Le sue poesie hanno rievocato piccole lacrime”. Ma evidentemente Abate, come Pippo, non lo sa.Ma adesso vorrei lasciare per un attimo da parte Abate e, dato che ho i capelli ormai bianchi, rivolgermi ai miei colleghi più giovani con un consiglio: va bene leggervi i versi l’un l’altro, va bene il Palazzo della Permanente, vanno bene persino le antologie… Ma abbattete i muri che vi circondano e vi tengono prigionieri, come per lungo tempo hanno circondato e tenuto prigioniero me. Uscite, soprattutto da voi stessi. Troverete sempre un orecchio disposto ad ascoltarvi, anche nelle situazioni e nei luoghi più impensati.Voglio raccontarvi qualcosa che mi è capitato alcuni mesi fa. Io ho un amico carissimo che si chiama Augusto Bianchi il quale, nato povero, è diventato ricchissimo grazie alla sua professione di avvocato che affianca a quella di scrittore e drammaturgo. Augusto tutti i santi giovedì dell’anno raccoglie nella sua splendida casa di Corso Venezia settanta, ottanta persone alle quali offre non solo la cena, ma anche esibizioni di artisti come Moni Ovadia o Dario Fo, o discussioni tenute da esperti come Renato Mannheimer o Giorgio Galli. Un vero e proprio salotto come, ai bei tempi, quello di Madame de Stael o quello di Giulia Beccaria, la mamma del Manzoni.E’, questo del salotto, il modo, a mio parere, con cui Augusto cerca di sanare una ferita che l’ha accompagnato tutta la vita. La ferita di un abbandono, l’abbandono da parte di suo padre che, quando Augusto aveva quindici giorni, è partito per la guerra con gli alpini, prima in Albania, poi in Russia, e non è più tornato, ucciso sul fronte del Don.Ebbene, Augusto ha ritrovato il diario della guerra in Albania scritto dal padre. Lo ha letto. Si è commosso. E ha deciso di trasformarlo in romanzo, AlbaNaja, un libro che consiglio a tutti di leggere perché è davvero molto bello, in quanto, oltre alle vicende di cui tratta, racconta il modo con cui un figlio, ormai alle soglie della vecchiaia, ritrova il padre. E, nel ritrovare il padre, ritrova se stesso.In occasione dellla presentazione del suo romanzo, Augusto mi ha pregato di scrivere qualcosa. E io ho fatto quello che sono solito fare in queste occasioni e che i lettori che hanno avuto la bontà di seguirmi fin qui ormai ben conoscono: ho preso alcuni passi per me significativi del libro di Augusto, li ho cuciti insieme in una sorta di lunga poesia e li ho intercalati coi versi del secondo libro dell’Eneide, quello in cui Enea, come Augusto, cerca e porta in salvo il padre, fra le urla, le fiamme e i lamenti della guerra. E ho intitolato tutto questo che, vi assicuro, non concede nulla alla retorica guerresca, La pietà della guerra.E, con supremo sprezzo del pericolo, sono andato a recitare quanto avevo scritto, nel luogo dove si teneva la presentazione di AlbaNaja: la Scuola Militare Teuliè, di fronte a un pubblico composto, oltre che dagli amici di Augusto, da Generali, Colonnelli, Tenenti, truppa varia e salmerie…Ma il mio coraggio è stato premiato da una medaglia al valore sul campo: un generale, chiamandomi per la prima volta in vita mia “Maestro” mi ha detto, con le lacrime agli occhi, che le mie parole lo avevano commosso.Un niente… Ma forse un piccolo seme che, purtroppo, non serve a cancellare la guerra, ma magari a far riflettere chi la guerra la fa… Quindi vedete: di orecchie se ne trovano sempre.E, dato che sono in vena di confidenze, vi confesserò un’altra mia pericolosa frequentazione, oltre a quella dei generali. Nel 2003, nell’imminenza di quel 18 marzo in cui i bombardieri americani hanno cominciato a sbriciolare l’Irak e le nostre speranze, ho spedito il mio, tanto da Abate vituperato, libretto, In tempo di guerra, a papa Woytila. L’ho fatto così senza starci tanto a pensare, perché mi sembrava giusto, dato che Giovanni Paolo aveva preso una posizione molto ferma contro la guerra che si annunciava. Con mia somma sorpresa qualche giorno dopo ho trovato nella casella della posta una busta con le chiavi di San Pietro, cosa che, debbo dire, ha contribuito a risollevare le mie periclitanti azioni nel palazzo dove abito quando, grazie alla mia amica Rita, la portinaia, la notizia si è diffusa fra i condomini.Il papa, oltre ad avere parole di apprezzamento per il mio lavoro, mi ha mandato una sua foto e soprattutto – e qui sta il punto – mi ha impartito la sua personale benedizione estensibile a famigliari e amici.E allora io ne approfitto per imporre idealmente le mani sul capo di Abate sperando che la Luce del Signore lo illumini dato che il lume della ragione, per lui troppo fioco, non riesce a farlo.E infine per quanto riguarda Abate. L’ho già detto: è un ragazzo che farà strada. Se ci si mette di impegno passerà persino dal Palazzo della Permanente a quello della Messa in Piega. Infatti la poesia non fa per lui. Ma l’arte dell’acconciatore forse sì. Sempre che non gli tremi troppo la mano.In verità quanto precede ci permette una considerazione seria, anzi molto seria. Una considerazione sulla guerra. Perché questo scritto è un documento che mostra come due uomini miti, come siamo io e Abate, che in fondo vogliono le stesse cose, la pace, la libertà e l’eguaglianza fra gli uomini, abbiano finito, come gli arabi e gli americani, per darsele di santa ragione – un esercizio in cui mi sono distinto particolarmente io. Abbiamo finito per farci la guerra. La guerra striscia e si insinua nella testa degli uomini quando, come i soldati al fronte, si riveste l’antagonista di un’uniforme: nel caso mio e di Abate, l’uniforme del cattivo poeta che Ennio mi ha costretto ad indossare e che io gli ho cucito addosso con tanto di interessi di mostrine ed alamari, rispondendo ai suoi colpi di fioretto menando sciabolate a più non posso. E quando, come al fronte, si ha davanti un’uniforme, il nostro campo visivo si restringe a quello di un mirino e l’altro diventa un bersaglio che bisogna colpire ed annientare.Ma, a ben pensare, questo dell’uniforme, non è l’abito mentale con cui – ci insegnano e ci ripetono – dovremmo guardare al mondo? Per cui tutti rumeni indossano l’uniforme dello stupratore, tutti gli zingari quella del ladro, tutti gli arabi l’uniforme del terrorista e tutti gli americani quella del pistolero o del giustiziere della notte…Non si distinguono più i tratti di chi ci sta davanti. E io stesso mi sono dimenticato del volto di Ennio – e me lo rivedo, a casa mia, con quella sua aria vagamente timida, il cappotto troppo largo e quei pacchi di libri e di riviste di cui va orgoglioso, tirati fuori da una borsa consunta – e ho visto di lui solo quanto l’uniforme che gli ho attribuito mi permetteva di vedere, il cattivo poeta.E invece Abate, quando si dimentica di essere Fortini nella sua versione peggiore, quella “col ditino puntato”, come diceva Asor Rosa, e torna ad essere Ennio, è un poeta più che notevole, specie quando scrive nel dialetto sonoro e docisssimo della sua Salerno natìa.Facendo come abbiamo fatto, e l’ho fatto soprattutto io, Abate ed io ci siamo comportati esattamente come i polli di Renzo i quali, condotti al macello cui siamo tutti destinati, invece di ribellarsi contro i burattinai che li tengono a ballonzonare appesi al loro filo di sangue e di terrore, si beccano allegramente l’un l’altro.E questo si dovrebbe, nei limiti del possibile, evitare.

Giulio Stocchi, Poesia e Parkinson, ovvero i polli di Renzoultima modifica: 2008-03-31T15:59:11+02:00da mangano1
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