Patrizia Gioia,l’ospite inquietante

9cee955440b4145509c162e2944166b2.jpgL’ospite inquietante di Galimberti e …la parola cristiana”gratitudine”..alla maniera di Patrizia GioiaRicordiamoci che “qualcuno” diceva di “avere cura dell’ospitalità”, perché quello che rischiamo anche oggi di fare, e senza nemmeno accorgercene, è di sbattere l’uscio in faccia a degli Angeli.Dio non è morto, tanto è vero, dico io, che non abbiamo trovato il suo cadavere; ma certo è, mi ha risposto argutamente Magris, che non si è nemmeno visto in giro il vivo!Vero tutto, e contemporaneamente ( abbasso il principio di non contraddizione!) tutto ciò conferma che il nichilismo non è la perdita, la fine, la morte di ogni valore, ma è “tutto quello che oggi abbiamo” ed è da qui che possiamo risorgere.Dio non è morto, sta solo aspettandoci. Tace per permetterci di ascoltare.E per permetterci del fare dell’ascolto, cuore e mano. Abbasso il principio di non contraddizione,il mio e il tuo orsacchiotto sono proprio diversi e…1+1 non fa 2! Forse il professor Galimberti, così come non usa la parola “speranza”, perché –detto da lui- parola cristiana, è per la mancanza di un’altra parola, cristiana o no che sia, che si chiama “gratitudine” che ha dato poco “pondus” ( e qui c’entra un certo Agostino) al citare al megliola fonte “donatagli”, guarda caso da una donna, acqua di Giulia Sissa, chè il saggio da cuilui ha attinto, lei l’aveva scritto nel 1999) Alla maniera di Patrizia GioiaDevo dire che, col senno di poi, è stata per me alquanto rivelatrice la serata di qualche giorno fa dove, seduta nella palestra della scuola elementare Leonardo da Vinci di Milano, ero andata ad ascoltare il professor Umberto Galimberti che parlava alle insegnanti ed alle madri di educazionee di crescita dei bambini.Certamente anche un modo di promuovere il suo ultimo libro “L’ospite inquietante”, libro orasotto le luci di una polemica non nuova e niente affatto estranea al nostro ormai sterile mondodella produttività, che quotidianamente richiede una bulimia del fare, anche cultura, che culturapiù non è. In natura, e noi siamo natura, ogni cosa ha il suo tempo. Visto che però oramai tutto è arte e tutto viene annacquato come il cattivo vino e come la nostra mortificata allungata vita, questo modo di “sgraffignare” l’altrui pensiero è stata mollemente definita come “l’arte del copia e incolla”, cosa che una volta si sarebbe invece chiamata egiudicata con il suo vero nome: una bella copiatura.E si copia perché si fa prima, invece di lasciar fiorire il fiore che dalla propria testa va al cuore. Del resto un libro, di pensiero per di più, dato che Galimberti è un filosofo, richiederà beneil tempo di una salsiccetta e quella, sappiamo bene tutti, che la si fa cominciando a curar bene il maiale.(Ma finchè continueremo a tenere separati i saperi nemmeno le salsiccette verranno più buone!) E’ per questo che, alla luce del poi, mi è parso se non altro alquanto curioso l’ interventodi Galimberti, che ha parlato dell’importanza della “quantità” del tempo da dedicare ai bambini ( e ai libri no?) , più che della “qualità”del tempo, alibi, quello della qualità, che noici siamo dati per sedare sensi di colpa(e questo lo dico io ) per il poco che abbiamo da dare,e non solo in tempo, e per il troppo che abbiamo da fare, un’anorressia ed una bulimia continuadi stimoli che sconcerta i bambini invitandoli o all’angoscia o all’indifferenza e all’impossibilitàdi registrare, perché non ce la fanno più, la differenza tra il bene e il male.Così che poi, solo un po’ più grandicelli, uccideranno la madre e il fratellino andando subito dopoa bere una birra. Non è tanto l’omicidio che sconcerta ( modo dire ), ma la birra subito dopo.E che cos’è questo se non un’apatia a tutto? Ma li vedete, dico io, i nostri pargoletti costretti ad essere quotidianamente tanti piccoli Fregoli,giù il grembiulino, su la tutina, giù la tutina, su il costumino, giù il costumino, su il pigiamino, in un’arrancare senza sosta per le strade e il traffico della città, sottoposti ad assordanti rumori + le cuffiette ficcate nell’orecchio + le molestie delle polveri sottili + il genitore o la tata con l’orecchio inseparabile dal telefonino, che ingurgitano, fermi alla fermata del tram, merendine e patatine e succhi di frutta, stremati dal peso di uno zaino che mio nonno si sarebbe rifiutato di mettersi sulle spalle anche se avesse dovuto stare una settimana in montagna. Dovremmo deciderci a fermarci. Tutti.Come a Savona, quando alle sei di sera, al suono della campana, tutta la città si ferma perun minuto, in ricordo dei caduti in guerra. E se ci ricordassimo anche di noi? Provare per credere. E’ un momento magico quello delle sei a Savona, purtroppo un minuto è davvero poco, ma ti permette di comprendere, se lo ascolti quel minuto di silenzio incredibile,che è proprio quello che dovremmo e che possiamo fare.Un bel fermo tutto, un “arimortis” per riprendere fiato e gioco, come da bambini, un bel clic sulla marea dei nostri pulsanti e consolle e telecomandi e ascoltare, ascoltare, ascoltare. E’ divertente e sconcertante, almeno per me, sapere che ai bambini dobbiamo insegnare il principio di non contraddizione, dato che loro vivono in un mondo di polifonia, passano dal risoal pianto, dall’entusiasmo al terrore e cercano costantemente cose che li rassicurano.( Perché noi che cosa facciamo?!)L’amato Linus e la sua copertina ci insegnano, noi e il nostro orsacchiotto ne abbiamo fatto esperienza, eppure dobbiamo imparare che una cosa uguale ad un’altra cosa è uguale, mentre per noi quell’orsacchiotto è proprio quell’orsacchiotto e nemmeno per due bomboloni + 10 biglie di Gaul, ne vorremmo un altro. Ma davvero noi siamo diventati grandi e abbiamo conquistato qualcosa, o abbiamo solo perdutoqualcosa, anzi molto, se non tutto, della polifonia della vita? Eccolo il senso nuovo da ritrovare in noi, che c’è! Perché a me pare che per, giovani e vecchi non fa differenza, oggi tutto sia uguale a tutto, cambi auto e ragazza e merendina ( e droga) con la stessa indifferenza con cui uccidi e bevi birra.L’unica differenza la fa la firma, la griffe, il nome.Dato che abbiamo perduto il nostro, di nome, dato che non sappiamo più chi siamo, ne prendiamo ogni volta a prestito uno e, dannatamente a caro prezzo. Ma la pancia sa, l’affettività dà senso, così come il desiderio desidera desiderare e non essere soddisfatto immediatamente, come facciamo anche col sesso. Ingurgitiamo tutto, perdendola magia, la cura delle cose, di noi e dell’altro e del mondo e del divino. Così sembra logico che Galimberti, alla fine del dialogo, dice di non poter dare speranza, del restoil suo libro parla del nichilismo, questo è l’ospite inquietante.Ed è di questo, di non avere e dare speranza, ( perché parola cristiana, ha risposto lui), che gli ho detto di non essere affatto d’accordo. (Ed è forse per la mancanza di un’altra parola, cristiana o no che sia, che si chiama “gratitudine”che ha dato poco “pondus”( e qui c’entra un certo Agostino) al citare al meglio la fonte donatagli, guarda caso da una donna, acqua di Giulia Sissa, chè il saggio da cui lui ha attinto, lei l’aveva scritto nel 1999). Dimenticanze, mancanze di tempo.Come possiamo accoglierlo allora “l’ospite inquietante”, se nemmeno lo vediamo, per la troppa fretta che abbiamo.Ricordiamoci che qualcuno diceva di “avere cura dell’ospitalità”, perché quello che rischiamo anche oggi di fare, e senza nemmeno accorgercene, è di sbattere l’uscio in faccia a degli Angeli. Dio non è morto, tanto è vero, dico io, che non abbiamo trovato il suo cadavere, ma certo è,mi ha risposto argutamente Magris, che non si è nemmeno visto in giro il vivo!Vero tutto, e contemporaneamente ( abbasso il principio di non contraddizione!) tutto ciò conferma che il nichilismo non è la perdita, la fine, la morte di ogni valore, ma è “tutto quello che oggi abbiamo” ed è da qui che possiamo risorgere. Dio non è morto, sta solo aspettandoci. Tace per permetterci di ascoltare.E per permetterci del fare dell’ascolto, cuore e mano. La speranza nasce dalla crisi più profonda, è dentro il deserto che s’alza la sabbia, col ventodello Spirito, dobbiamo solo stare fermi, come a Savona, e da quella che pare la passività dellapiù profonda crisi, accogliere la forza della Grazia divina che arriva, sempre, se noi sapremo attenderla e riconoscerla Siamo noi l’ospite inquietante, in noi stessi è da incontrare l’altro, è inutile mettere confini fuorie votarsi alle leghe, è solo l’ultimo canto delle sirene, chi arriva non ci assomiglia affatto,è Altro da noi.Ecco perché ritornare nella straordinaria polifonia della vita, ecco perché il mio orsacchiotto è proprio il mio e il tuo è proprio il tuo, e non sono affatto simili, il tuo è tanto differente dal mio e, proprio per questa differenza, bellissimo e insieme saranno ancora più belli e quello che nascerà sarà ancora più nuovo e gli dovremo dare nome, che significa dignità, accoglienza, ospitalità. Patrizia Gioia, 20 aprile 2008

Patrizia Gioia,l’ospite inquietanteultima modifica: 2008-04-21T11:31:39+02:00da mangano1
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