Bruno Accarino, La sensibilità del moderno in G.Simmel

66eb343eb2454f3e0c1ac2443fcca73f.jpgBRUNO ACCARINOda il manifesto del 04 Giugno 2008La sensibilità perduta nel dedalo della modernitàInvestiti e smarriti dal rumore di fondo della metropoli, uomini e donne privilegiano il tatto e la vista per stabilire relazioni con i propri simili e districarsi nel dedalo cittadino. Un’anticipazione dalla relazione che l’autore terrà domani a Roma in un convegno sul filosofo tedesco Azioni a distanza Le facoltà umane indagate a partire dal disorientamento provocato dalla vita NELLA FOTO George Simmel Nell’excursus sui sensi della Sociologia, Georg Simmel riserva un ruolo particolare alla vista. Già questo dato preliminare non è innocuo, perché in genere Simmel è classificato come il filosofo del tatto. Lo è perché eredita le problematiche del contagio psichico, assai vive nella seconda metà dell’Ottocento francese, da Gabriel Tarde alla psicologia delle folle di Gustave Le Bon, e perché con esse rielabora quel che potremmo definire il versante epidemiologico della socialità. Ma il tatto non è solo contatto e contagio, è anche mancanza di regole e deficit di informazioni. Con il tatto ci si inventa sul momento la mossa giusta e si è consapevoli del fatto che la volta successiva potrebbe non essere adeguata. Non ci sono sicurezze razionali, ecco perché la riflessione di Simmel ruota attorno alla ipersensibilità (tecnicamente si parla di iperestesia): i processi di civilizzazione e di raffinamento ottundono i sensi veri e propri, ma acutizzano la sensibilità e in particolare le repulsioni. La linea di indagine mette a fuoco la suscettibilità: cioè il susceptus, il malato, l’individuo «urtato da innumerevoli impressioni» e incapace di padroneggiarle. Nell’ambito della vista, il guardarsi negli occhi è un’esperienza unica perché non si cristallizza in nessuna formazione oggettiva: si crea un’unità, tra le due persone o tra i quattro occhi, che è interamente risolta nell’accadere. Ma perché questo si verifichi c’è bisogno della via più breve, della linea retta tra gli occhi, mentre «la minima deviazione da questa, il più leggero guardare di fianco, distrugge del tutto l’elemento caratteristico di tale legame». Non rimane alcuna traccia, come accade invece anche nel meno impegnativo scambio di parole. L’intesa dello sguardo è a prova di intercettazione ed è passibile di essere negata o annullata. Con essa nasce l’intimità riflessiva, attenta a dare un segno esiguo e parsimonioso.La relazione che non c’èSecondo il filosofo tedesco Hans Blumenberg, neanche Simmel ha notato è che in questa forma di relazione non c’è spazio per lo sguardo di un terzo: è impossibile verificare, dalla posizione di un terzo non coinvolto, il sussistere di questa relazione. La vittoria e la sconfitta non hanno testimoni e non sono oggettivabili: ecco perché esperienze di questo genere non soggiacciono nemmeno all’indiscrezione. Nessuno può sapere che cosa è accaduto tra coloro che hanno vissuto l’esperienza del confronto occhi negli occhi, ed è un nodo concettuale va annotato, stante la straordinaria rilevanza della figura della terzietà nel pensiero di Simmel. Da un punto di vista antropologico lo scambio di sguardi, insiste Blumenberg, è un prodotto accessorio dell’ottica frontale. Esso dev’essere stato acquisito dai primati già nella vita sugli alberi, perché senza la vista stereoscopica non potrebbero esserci movimenti oscillatori nello spazio in cima agli alberi della foresta; ed al tempo stesso scompare o si ritrae la prestazione dell’olfatto, che ha bisogno del suolo e della traccia lasciata al suolo. Nel campo di transizione dall’animale all’uomo le due evoluzioni, quelle della vista e dell’olfatto, hanno reso possibile il dischiudersi dello spazio, ma al tempo stesso il restringimento del campo visivo determinato dalla prospettiva frontale ha generato la diffidenza, che è la radice del presunto istinto di aggressione. Scomparso il fiuto, è mancata la possibile compensazione data dall’ampliamento dell’angolo cieco.Da tutto ciò risultò la necessità di avvicinarsi fino ad essere in vista, se si voleva escludere il sospetto di essere un nemico e sfuggire all’azione principale di un essere pre-ominide: la prevenzione nei confronti di tutto ciò che è indeterminato. Diventa così di vitale importanza assegnare all’avvicinamento frontale il compito di un ultimo controllo. La diffidenza e la prevenzione (che non è aggressione) sono aspetti di un essere carente la cui debolezza nasce dai suoi punti forti, e la cui eccitabilità e perturbabilità scaturiscono dalla concentrazione della sua attenzione su un angolo visuale relativamente ristretto.Il trionfo dell’anonimatoPrende corpo così il meccanismo della formazione dei pregiudizi, che non sono identificabili con un’aberrazione storica poi liquidata dalla razionalizzazione moderna. L’uomo è un essere dei pregiudizi perché è un essere della prevenzione: giudica rapidamente perché deve agire in condizioni di utilizzazione della sua acquisizione di spazio, del suo raggio di azione per la vista e per il lancio di oggetti. Il pregiudizio decide a distanza chi sarà amico o nemico; l’incontro frontale degli sguardi decide poi nel tempo chi deve rimanere amico o nemico. Soprattutto, nella frontalità visiva non ci si può impossessare dell’anima altrui senza cedere qualcosa, «non si può prendere con l’occhio senza dare contemporaneamente». Blumenberg è colpito, peraltro, da ciò che Simmel osserva partendo dall’esperienza dei ciechi: colui che vede senza udire è molto più confuso di colui che ode senza vedere. Bisogna allora evocare l’esperienza della grande città, nella quale è schiacciante la preponderanza del vedere sull’udire gli altri. L’anonimato è il trionfo della vista: prima della diffusione dei mezzi di trasporto pubblici, gli uomini non erano nella condizione di potersi o di doversi guardare tra loro per minuti o per ore senza parlarsi. Intelletto nella cittàCiò che mette conto sottolineare è che Blumenberg ha impostato con strumenti simmeliani la sua interpretazione della città come caverna. Perché caverna? È vero: la città non ha più mura, non ha più porte chiuse, non ha dazi di ingresso e di uscita. Ma la grande città è una caverna acustica: penalizza tutto ciò che, come esperienza e come relazione, non può essere acquisito o prodotto nell’esclusività del vedere. Di qui quella diffidenza che va di pari passo con l’assordamento. L’alluvione che investe l’udito nella grande città non è informativa, è illusoria: il rumore chiude ciascuno di noi nella caverna.Se si assumono, con il Simmel della Filosofia del denaro, il denaro e il dominio dell’intelletto come due lati di una stessa distanza dalla realtà, non si può far altro che intendere la distanza come il non dover avere tutto presente, cioè come il poter disporre di ciò che è assente tanto quanto si dispone di ciò che è presente. Per questo processo la città è perfino meglio attrezzata della caverna, perché distribuisce le sue distanze dalla realtà in modo radialmente omogeneo. La caverna e la città svincolano la coscienza dalla presenza sensoriale di uno stimolo preciso, con una sola differenza: nella caverna si poteva ancora sognare ciò che in essa non era realtà, la città non lo consente più. La città non ha più un interno e un esterno, non ha più le ombre della caverna platonica: ecco perché non ha più bisogno della magia e anzi la depotenzia. Blumenberg coinvolge Simmel in un orizzonte di antropologia elementare. Il filosofo della Kultur per eccellenza, l’analista dei labirinti di una modernità artefatta e zeppa di meandri, viene invitato a fare un passo indietro, fino a incontrare quelle condizioni primordiali in cui la visibilità inaugura e sancisce la vulnerabilità dell’uomo, che già nell’acquisizione della posizione eretta sperimenta il rovescio della medaglia: si vede meglio dei quadrupedi, ma si diventa visibili senza rimedio. Si apre a questo punto un conflitto tra nudità e rivestimento che potrebbe trovare in Simmel, il sociologo della moda, del segreto, dell’ornamento, insomma di tutto ciò che deforma e nasconde, che snatura e occulta, materiali preziosi. Ma Blumenberg, benché raccolga spunti sulla maschera e ricorra anche a Musil e a Pirandello, li lascia da parte, perché intende verificare il teorema della vulnerabilità in un altro territorio: quello della consolazione. Un passo del Diario postumo di Simmel ci dice infatti che l’uomo è un essere in cerca non di aiuto ma di consolazione. Aiuto lo cerca anche la bestia, mentre la consolazione è l’esperienza che lascia sussistere il dolore: concerne non il male stesso, ma il suo riflesso nell’istanza più profonda dell’anima.L’impossibile delegaSembra che, osserva Blumenberg, il dolore possa essere influenzato da altri non solo realmente, ma anche con un atto specifico di diffusione fittizia, nella misura in cui essi partecipano a qualcosa a cui non possono partecipare realmente. Quando gli altri simulano di soffrire, si realizza una sorta di delega del dolore, della somma del dolore. E non è indifferente quanti essi siano e in quale misura appaiano credibili nel voler assumere o nell’aver assunto la loro quota. Chi soffre delega la funzione che, in quanto depositario del dolore, deve in un primo momento esercitare in assoluta solitudine. La consolazione si fonda sulla capacità generale dell’uomo di delegare, di non dover fare da solo, e di non dover portare e sopportare, tutto ciò che gli spetta e che gli capita. Non sono solo gli officia, ma anche le funzioni che possono essere delegate. Quanto all’altro versante del problema – l’uomo non può essere aiutato, ma solo consolato -, esso coglie il dato antropologico per cui la consolazione non è solo una rinuncia volontaria a cambiare la realtà. Il bisogno di consolazione e la consolabilità rinviano semmai al fatto che l’uomo non è solo un essere capace di felicità e di dolore, ma nella sua costituzione è predisposto ad una quantità di dolore che non si fonda solo sugli incidenti della natura. Anche gli animali sono capaci di dolore, ma il loro dolore si fonda sui fallimenti e sulle intrusioni che derivano all’organismo dal meccanismo della natura. Si fondano cioè su qualcosa che nella normalità del corso dei processi nell’organismo non necessariamente accade. Il dolore non è costitutivo dell’esistenza animale e del mondo organico nel suo insieme.Ma un essere come l’uomo, che può diventare inconsolabile e desolato per un processo così naturale come quello della morte di altri organismi, è dotato in guisa molto diversa del bisogno di consolazione, fino al valore-limite dell’inconsolabilità. L’uomo è un essere che, a partire dalla sua preistoria, non può fuggire a piacimento, neanche dal dolore. Sul piano antropogenetico, si riconosce questo tratto nell’impossibilità di fuggire, nella necessità di trovare come via di uscita dal vicolo cieco la actio per distans, quella per cui l’ominide si ferma e lancia una pietra. Il punto di svolta nell’antropogenesi è il momento in cui l’animale da fuga non può continuare a cercare la propria salvezza nella fuga: è qui che convergono visibilità e consolabilità.La consolazione, investita da Simmel della funzione di categoria, significa allora due cose: evitare un confronto con la realtà ed avere la possibilità di delegare la conseguenza che ne deriva. Nella compassione posso far soffrire altri per me in forma di rappresentanza: essa consente sia di evitare un confronto con la realtà, sia di smistare, di condividere con gli altri e di delegare le conseguenze dello schivamento della realtà. Così intesa, la consolazione è una forma, nel caso-limite, di perdita della realtà. Non si cambia niente quando si consola. La promessa confortante è una modalità di investimento della consolazione nel tempo. Il differimento della delusione è la speranza che conforta o la procrastinazione. Ma la possibilità di tenere a distanza la realtà, di essere o di non essere realista, di fare in modo che la realtà non sia il segnale irresistibile della reazione comportamentale bio-programmata – proprio questo è il vantaggio acquisito dall’uomo nei confronti di tutti gli altri sistemi organici. La capacità di consolare e di essere consolato ha a che fare, in forma positiva, con ciò che, in forma negativa, viene rimproverato all’uomo: stare a distanza dalla realtà. Realtà esplosivaD’altra parte, per sua natura il dolore non è comunicabile. Le espressioni della sensibilità di cui disponiamo sono di natura così soggettiva che nessuno può presumere di poter trasmettere ad un altro un’impressione della situazione di dolore nella quale si trova. Ma proprio questa impossibilità di oggettivazione significa che ognuno deve tollerare l’espressione della sensibilità altrui. Già il dolore rende vulnerabili nei confronti del possibile tentativo degli altri di diffidare della sua espressione: il bisogno di consolazione è una forma accresciuta di questa vulnerabilità. In realtà a dettare legge è la non-ovvietà dell’esserci dell’uomo, cioè l’assoluta contingenza del suo essere, tanto come specie quanto come individuo.Sviluppi a dir poco interessanti emergerebbero se si seguisse la traccia biblico-cristiana del consolatore . Resta il fatto che Blumenberg cattura Simmel su due punti-chiave: un’interpretazione non darwinistica dell’antropogenesi e l’assolutismo della realtà. Quanto al primo punto, affiora un Simmel non acquietato dall’evoluzionismo dominante della sua epoca. Quanto al secondo, è certo che per lui la realtà è una polveriera, o una cristalliera, da sfiorare e da maneggiare con cura. Come Walter Benjamin, non è mai stato realista, perciò continuiamo a leggerlo e ad amarlo.

Bruno Accarino, La sensibilità del moderno in G.Simmelultima modifica: 2008-06-05T17:24:40+02:00da mangano1
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