Francesco Lamendola, Salvatore Natoli e l’etica del finito

68b2c930703a26fb3cec0d4136bd900e.jpgtica del finito come neopaganesimo nella proposta di Salvatore Natolidi Francesco Lamendola – 13/06/2008Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] Salvatore Natoli è nato a Patti, in provincia di Messina, nel 1942.È stato docente di Filosofia teoretica presso l’Università di Bari, poi di Logica all’Università di Venezia e di Filosofia della politica all’Università di Milano. Attualmente insegna Filosofia teoretica presso la Seconda Università di Milano.Natoli è il propugnatore di un neopaganesimo, nel senso che propone il ritorno ad un’etica ispirata al pensiero greco – e, in special modo, al senso del tragico – mirante alla fondazione di una felicità terrena, pur nella consapevolezza dei limiti dell’uomo e del suo carattere di ente inesorabilmente finito. Esplicita, al riguardo, è stata la sua ultima opera, La salvezza senza fede, che svolge una esplicita polemica contro la fede cristiana.Tra le sue pubblicazioni ricordiamo: I nuovi pagani (Il Saggiatore, Milano, 1995); La felicità di questa vita. Esperienze del mondo e stagioni dell’esistenza (Mondadori, Milano, 2022); Stare al mondo Feltrinelli, Milano, 2002); Libertà e destino nella tragedia greca (Morcelliana, Brescia, 2002); L’esperienza del dolore. Le forme del patire nella cultura occidentale (Feltrinelli, 2002);La felicità. Saggio di teoria degli affetti (Feltrinelli, 2003); Parole della filosofia o dell’arte di meditare (Feltrinelli, 2004); La verità in gioco, Scritti su Foucault (Feltrinelli, 2005); Dizionario dei vizi e delle virtù (Feltrinelli, 2005); Guida alla formazione del carattere (Morcelliana, 2006); La salvezza senza fede (Feltrinelli, 2006). Dicevamo che, ne La salvezza senza fede, Natoli ha proposito la fondazione di un’etica esplicitamente contrapposta a quella del cristianesimo e che egli definisce neopagana, nel senso di essere bastata esclusivamente su una visione immanente dell’esistenza umana.Queste idee, d’altra parte – sia pure in maniera leggermente più sfumata -, caratterizzano già gli esordi dell’attività di questo filosofo. Nel suo saggio I nuovi pagani, apparso nel 1995, e che qui intendiamo prendere specificamente in considerazione, egli prospetta la possibilità, per l’uomo contemporaneo, di abitare diversamente il pianeta; ossia di tornare ad un’etica del finito, intesa come capacità di comprendersi a partire dalla consapevolezza della sua naturale finitudine.In questa opera di tredici anni fa, Natoli presentava la sua proposta come da leggersi non necessariamente in senso anti-cristiano. Secondo lui, la filosofia del cristianesimo ha insistito sul concetto della finitudine umana non tanto per il fatto della mortalità, bensì per quello della creaturalità. La creazione, infatti, viene da Dio e si realizza ex nihilo: pertanto, senza Dio nulla esisterebbe. Né l’uomo, né gli altri enti.Ora, nella cultura della modernità si è fatta strada, con forza sempre maggiore, la convinzione della non esistenza di Dio, e ciò ha provocati nell’uomo una crisi dovuta a una forte perdita di senso. Da Nietzsche in poi, in modo particolare, e dal suo annuncio della “morte di Dio”, l’uomo moderno si è trovato ad oscillare come un pendolo fra i due poli estremi del nichilismo assoluto e della conseguente disperazione, gettato com’è in un mondo che gli appare ormai privo di senso, e – per reazione – della tentazione della hybris suprema: quella di farsi egli stesso Dio, di riempire il “vuoto” teologico, sostituendo il vecchio Dio, che è morto (o si è eclissato) con la propria ragione, con la potenza scientifica e tecnica che ha raggiunto a ritmo sbalorditivo.L’uomo dell’età della tecnica, secondo Natoli, è anzi, in un certo senso, contemporaneamente disperato e tracotante (le due cose non si escludono affatto): disperato perché, non credendo più in Dio, dispera della propria salvezza; tracotante perché, pur denigrando la terra, pretende di esercitare su di essa un dominio illimitato e incondizionato.A questa diagnosi della situazione dell’uomo contemporaneo, Natoli fa seguire la sua proposta: ritornare al modello dei Greci, basato su un abitare il mondo che accetta il finito come sufficiente a se stesso e degno di esistere. Ma lasciamo che egli stesso esponga il nocciolo del suo pensiero nella Introduzione al volume I nuovi pagani (ed. cit., pp. 7-18); nocciolo al quale, come si è detto, è rimasto sempre fedele, non essendo le sue opere successive che un ampliamento e un approfondimento di questo tema fondamentale. Il neopaganesimo può essere variamente definito e interpretato. In questi caso per neopaganesimo si deve, però, intendere quell’atteggiamento, o quel punto di vista che coincide con l’etica del finito o che comunque l’assume come propria. Per altro verso, l’etica di cui qui si parla non è da prendere nella sua accezione più immediata e corrente, vale a dire come ciò che ha a che fare con il dovere o. più determinatamente, con le norme. Certo non vi è etica senza norme, ma le norme si radicano in qualcosa di più originario e profondo, procedono da ciò che in senso lato usiamo chiamare «visioni del mondo». L’etica, così intesa, non significa nulla di diverso da quel che la parola stessa suggerisce: ethos vuol dire costume, abitudine, e in questo senso l’etica ha prioritariamente a che fare proprio con l’abitare, , con il modo con cui gli uomini usano dimorare sulla terra. L’etica dunque prima ancora di configurarsi nei termini del dovere si configura in quelli del senso: essa si determina come quell’orizzonte intrascendibile della comprensione, che solo rende possibili intenzioni e azioni. In breve, esiste un mondo solo a partire dall’apertura di senso che lo costituisce o in base a cui esso si costituisce. Ora è proprio in forza di quest’apertura che le azioni possono essere definite “buone” o “cattive”, a seconda che convergano o divergano da essa. Se così è, il criterio dell’azione è definito dall’interpretazione.La precomprensione è dunque lo spazio entro cui, di volta in volta, vengono poste le azioni, è questa la ragione per cui l’etica, assunta nel suo significato più originario, prende in considerazione l’agire movendo dall’abitare: sono gli abiti, e perciò il soggiorno e la dimora, che custodiscono il senso , determinano la consuetudine, comandano di volta in volta l’azione.eEtica del finito significa dunque comprendersi a partire dalla propria finitudine. Il neopaganesimo, così considerato, è costitutivamente non cristiano senza perciò dover essere necessariamente anticristiano. Per altro fin dalle origini del cristianesimo vi è stata contaminazione tra le due culture o quanto meno tra elementi di esse. Contaminazione che ha significato indubbiamente alterazione, ma che ha anche prodotto osmosi. È noto, infatti, che una segreta vena pagana attraversa tutto il cristianesimo e comincia a emergere in modo sempre più evidente a partire dall’Umanesimo e dal Rinascimento.Il cristianesimo, al pari del paganesimo, tematizza la finitudine dell’uomo, ma la definisce e la fonda in un modo radicalmente diverso da esso. In questo caso intendo per paganesimo la visione greca del mondo e, soprattutto, quella propria di una certa grecità e non la cultura dei greci in tutta la sua interezza. L’immagine della grecità, o, se si vuole, il tipo greco che qui si intende valorizzare e i modi della sua valorizzazione in questa raccolta sono messi esplicitamente a tema e, nella specie, nei due scritti Neopaganesimo e Nietzsche e i greci: il problema del tragico.Il cristianesimo postula dunque un’etica del finito, ma, a differenza del paganesimo, l’uomo e in generale, gli enti, non sono caratterizzati da una “finitudine naturale”, bensì da una “finitudine creaturale”. Nel cristianesimo l’uomo è finito non tanto perché è mortale, ma perché è creato. Se questo è vero, l’uomo e, in generale, il mondo, esistono non tanto perché sono capaci di consistere da sé in sé, ma perché sono tenuti in essere da Dio. Senza Dio, tutto sarebbe nulla, o, più esattamente, nulla sarebbe. La finitudine creaturale istituisce e fonda la creatura in «altro da sé», tanto è vero che se Dio abbandonasse quel che ha creato ogni cosa diverrebbe preda del nulla. La creazione avviene, appunto, ex nihilo: dal nulla. Il non espresso di questa formula, la sua verità recondita, è che tutto ciò che esiste al di fuori di Dio è in sé e per sé nulla.Se ciò è vero, è proprio nella postulazione di un essere preservato da sempre e per sempre dal nulla che il nichilismo trova la sua radice e il suo principio. L’enfasi del nulla è conseguenza di un’indebita assolutizzazione del positivo, e come tale ne rappresenta il rovescio e insieme la nemesi. L’idea che vi sia un essere che respinge da sé originariamente e definitivamente il nulla rende inconcepibile la relatività delle cose. Ora, poiché le cose non sono comprese a partire dalla loro naturale relatività, poiché non sono lasciate riposare in essa, dilaga il nulla. (…)La potenza del nulla dilaga in vario modo, ma qui vale la pena indicare due sue singolari modalità: essa dilaga come denigrazione del mondo e insieme come piacere morboso e perverso della propria dissoluzione. In effetti, anche nel cupio dissolvi vi è del gusto, e ciò è noto soprattutto agli uomini della tarda modernità, D’altra parte è di questo piacere che, in generale, si alimenta la gnosi contemporanea. Se le cose non hanno consistenza in sé, ma vengono all’essere e in esso si mantengono solo perché Dio le tiene in essere, nel momento in cui viene meno la certezza di Dio ogni cosa perde il suo fondamento e il suo valore: precipita nel nulla. E più che mai ciò tocca all’uomo, dal momento che, a differenza di ogni altro ente, egli è stato chiamato a partecipare della vita divina. Come dire: l’intimità con Dio definisce il destino creaturale dell’uomo.Orbene tutto ciò è accaduto davvero. Nello svolgimento della modernità viene progressivamente meno la certezza di Dio. Ora, è proprio nel progressivo dileguare di questa certezza che il mondo prende sempre di più i colori del nulla. Cresce il deserto, la denigrazione della terra si incrementa in uno con la disperazione della propria salvezza. Dio, come essere pieno, vinceva ab origine e definitivamente il nulla, ma proprio per questo indirettamente lo enfatizzava:: non volendo ne preparava l’irruzione. Infatti, nel momento in cui Dio viene meno, diviene inevitabile l’apoteosi del nulla.Da quanto qui si è detto risultano evidenti le ragioni per cui la finitudine creaturale impedisce, già in linea di principio, che il finito possa essere concepito come sufficiente a se stesso. Il finito, infatti, non può mai esistere per sua forza fino a che lo si ritiene fondato in altro. In questo quadro quel che di peggio all’uomo, ormai privo di Dio, poteva capitare, era quello di volerne prendere il posto per sottrarsi da sé e in sua forza al potere del nulla. Anche questo è avvenuto. L’uomo ha preteso di farsi garante della propria salvezza, dimenticandosi della sua fragilità. Peggio: ha ritenuto di poter assaltare il cielo, di poter conquistare per sé una patria definitiva. (…)Sarebbe grave errore sostenere che il cristianesimo non tematizza la finitudine, anzi non vi è finitudine maggiore di quella creaturale. Ciò è così vero che senza Dio l’uomo non è che un nulla e solo nella consapevolezza del suoi nulla egli trova salvezza. Non a caso uno dei contrassegni fondamentali della vita cristiana è l’humilitas: l’umiltà. Humilitas da humus, che significa terra, polvere. Ricordarsi sempre che si è fatti di terra, che si è fatti per la corruzione, che sii è fatti di niente. L’uomo nulla può pretendere, tutto deve accettare, deve soprattutto confidare nel Signore. Questo è uno dei tratti essenziali della pedagogia cristiana: è l’imitatio Christi secondo le parole stesse di Gesù: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me che sono mite e umile (tapeinòs) di cuore, e troverete ristoro per le vostre anime» (Mt., 11, 29). Solo l’humilitas dischiude la via alla charitas, perché fin quando vi è vanagloria, fino a che non ci si è liberati da se stessi non è possibile accedere all’amore di Dio e meno che mai è possibile amare gli altri. È l’umiltà che prepara la via alla carità. Questo è uno dei precetti più propri e antichi della carità cristiana. Lo si ritrova nelle pratiche di ascesi e in testi disparati della cristianità come per esempio nelle Collationes di Cassiano, laddove vengono riportate le parole dell’abate Cheremone: «Quando uno sia stabilito nell’umiltà dello spirito, potrà adempiere al precetto ella carità: “Amate i vostri nemici, fate bene a quelli che vi odiano, pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano”».Nel cristianesimo Dio è tutto e solo abbandonandosi a lui l’uomo si ritrova: è in Dio che l’uomo viene, in un certo senso, riscattato dalla finitudine, non ne sente più il peso. Il finito non può mai diventare l’infinito, ma in esso si risolve. In Dio l’uomo si trova custodito: Custodi nos, Domine, ut pupillam oculi. Sub umbrta alarum tuarum protege nos: Custodiscici Signore come la pupilla dell’occhio. Proteggici all’ombra delle tue ali. Nel cristianesimo dunque la finitezza dell’uomo si costituisce in rapporto all’infinità di Dio e per tal via l’uomo entra in circolo con l’infinito stesso e a esso è elevato.Non si può dire dunque che il cristianesimo ignori la finitudine. Al contrario, si deve dire che la conosce fin troppo. Ciò è così vero che nel momento in cui vien meno la certezza di Dio, l’uomo si sente sempre di più risucchiato nella voragine del nulla. Oppure, ed è il peggio, è spinto a prendere il posto di Dio, rendendosi dimentico della sua naturale gracilità. Come qui si vede, è l’ipostasi dell’assoluto che annichila il mondo. E l’annichilimento del mondo si sviluppa poi – e lo abbiamo già visto – secondo una metamorfosi perversa e dal doppio esito: da un lato la denigrazione della terra, dall’altro la pretesa del suo incondizionato possesso. O la disperazione, o il delirio di onnipotenza., che sono poi il rovescio e insieme il medesimo. Il cristiano ha buoni motivi per obbiettare che l’esito perverso dell’umano ha luogo solo in quanto l’uomo ha voltato le spalle al Signore, si è arbitrariamente separato da Dio rinnovando il peccato di Adamo. Ciò non toglie però che è proprio nella finitudine creaturale che è inscritta la cifra della sua possibile perversione.Il paganesimo per suo conto, e prima del cristianesimo., è un’etica della finitudine, ma in esso il finito, nel momento stesso in cui è assunto come finito, è anche concepito come sufficiente a se stesso. La misura della finitudine è solo la morte. Tutto ciò che nasce è destinato a perire, ma il fatto che tutto perisca non vuol dire che non sia degno di vivere. Ogni cosa ha il suo tempo, e perciò bisogna vivere «a tempo», non bisogna lasciarsi sfuggire la gioia che l’occasione offre. La finitudine che il paganesimo tematizza è naturale: con questo è da intendere che il finito, fino a che esiste, è sufficiente a se stesso solo per il fatto di esistere. Una tale sufficienza è però per lungi dall’onnipotenza. Ciò che esiste, esiste solo in base a se stesso, ma ciò non lo garantisce affatto dalla fine. Tutto quello che nasce è fatto per perire, ma ciò non vuol dire che non sia degno di esistere. Al contrario, l’uomo deve sapere conquistare il tempo, deve valorizzarsi in esso, per quel che è e così come è. Ciò che all’uomo tocca fare è di mantenersi fedele al presente. Per far questo è necessario che l’uomo divenga competente della sua forza, sia soprattutto all’altezza della propria morte. E non solo della morte che giunge alla fine – e che in fondo poco lo riguarda – ma della morte che gli si fa incontro a ogni momento della vita e che può essere contrastata solo se si è capaci di trovare la propria misura.Secondo l’ideale pagano la rinascita della propria vita dipende dalla capacità di assumere la propria morte e dal momento che l’uomo è costituito naturalmente nella finitudine il peggio per lui è pretendere l’infinito. Come è noto ben diverso è il significato della morte nel cristianesimo: in esso la morte rappresenta qualcosa di non naturale, essa è segno della colpa e come tale è suscettibile di riscatto. Il cristianesimo è promessa di redenzione, è certezza che il mondo sarà definitivamente liberato dal dolore e dalla morte. Il pagano sa che per vivere deve apprendere a soffrire. Questo lo sa bene e forse lo tematizza anche meglio il cristianesimo, ma ben diversa è la natura dell’apprendimento. Il cristiano prende Dio a fondamento e trae da lui la sua forza; il pagano, al contrario, ritiene che o l’uomo è capace di ritrovare in sé l’energia necessaria per esistere o perisce. L’uomo, per la sua possibile salvezza, non può affidarsi ad altro che alla sua forza. Ma la salvezza in questione è solo una salvezza possibile. Il pagano ridimensiona le sue pretese ed è per questo che ritiene plausibile di potersi affidare alle sue sole forze. La certezza di sé è conoscenza del proprio limite. Se così in fosse, essa trapasserebbe in altro: si muterebbe in vanagloria o demenza. D’altra parte era questa la ragione per cui i greci interpretavano la felicità come un inganno degli dei. È bene che gli uomini stiano sempre sull’avviso.Il pagano dunque non pretende redenzione, cerca solo una relativa salvezza, sotto condizione. Per raggiungere un tale scopo l’uomo deve guadagnare un’esatta cognizione di sé, deve sapere quel che può, dal momento che non può essere di più di quel che è in suo potere divenire. È vero, il pagano non ha speranza, qualora per speranza s’intende una speranza radiata nella promessa, alimentata dalla certezza che quanto è stato promesso accadrà perché Deus est fidelis: Dio è fedele. Il pagano non possiede questa speranza, ma nel contempo non sente affatto alcun bisogno di salvezza. Evidentemente non sente il bisogno di una salvezza assoluta. Caso mai – questo sì – sente il bisogno d’aiuto, ma di quell’aiuto che sarebbe bene gli uomini si scambiassero tra loro, fatti scaltri e maturi dalla consapevolezza della loro comune fragilità. È questa la pietà suprema che la specie può avere per se stessa, riconoscendosi in essa, divenendo per essa migliore. Non carità, ma semplicemente, assolutamente pietà. Homo sum: nihil humani a me alienum puto.Se il passaggio dal paganesimo al cristianesimo può essere letto come un transito dalla naturalità del finito alla finitudine creaturale, il paganesimo – che nella dissoluzione della cristianità sembra oggi riaffiorare – può essere interpretato come un progressivo ritrarsi della finitudine creaturale a vantaggio di una più profonda comprensione della naturalità del finito. Detto altrimenti: è possibile che appaia un mondo senza più peccato originale dal momento che per un uomo, ormai all’altezza della propria finitudine, la tentazione del serpente non può più risultare credibile e perciò neppure accattivante. Certo è pur sempre un pericolo per i meno avveduti.Noi mortali come Dio! Che delirio sarebbe mai questo se Dio non è che un sogno della ragione o se noi stessi siamo «dei». E lo siamo per il semplice fatto che il mondo, in quanto tale, è divino. Una secolarizzazione dell’incarnazione? Forse. È da valutare. In ogni caso se noi siamo dei, allora non è improprio affermare che l’orizzonte dell’umano rimane ancora il divino, ma di certo non più il divino dell’onto-telogia occidentale, bensì Dio come il numinoso, come il mistero del mondo, come l’assente. (…)Nella fine del cristianesimo il paganesimo riaffiora dunque come una possibilità. Per altro verso non è affatto detto che la fine della cristianità comporti la fine del cristianesimo. La cristianità, infatti, non è il cristianesimo, ma è il cristianesimo divenuto cultura, civiltà. Ma il cristianesimo divenuto mondo ha reso cristiano il mondo o, al contrario, si è estinto come fede?La civiltà moderna, nel meglio e nel peggio, è per molti versi un post-cristianesimo. Libertà, fraternità, uguaglianza termini tramite cui la civiltà europea si è emancipata dall’autorità, ma sono anche la versione secolare del cristianesimo. Più esattamente, questi termini sono stati da taluni interpretati come la verità nascosta e perciò come l’inveramento storico del cristianesimo, a fronte e di contro al cristianesimo come superstizione. E che dire poi della giustizia. Per queste vie il cristianesimo si è fatto indubbiamente mondo, ma non è detto che si sia sempre mantenuto come fede. Si è dato il caso che il regno è divenuto davvero di questo mondo. E allora perché essere ancora cristiani?Il cristianesimo in molti casi, e ben che vada, si è trasformato in norma morale, in regole di buona condotta, in etica nel senso corrente del termine. Etica non più salvezza. In questo quadro, il cristianesimo ha finito per allinearsi alle etiche mondane, in parte già sue, e quasi per rimettersi in pari. E a esse plaude.Per altro verso, il grande paradosso cristiano, la testimonianza viva che questo mondo deve finire si è mutata in una metafora profana delle pene e dei desideri degli uomini.La fede è divenuta psicologia. Più esattamente si è trasformata in una poetica dell’esistenza, in un’estetica. Il decorativismo ha rimpiazzato gli atti della fede, la meditazione si è mutata in apologia ampiamente parlata del silenzio. Tutto ciò è cristianità. Nella dissoluzione della cristianità può ancora riemergere la verità del cristianesimo? È ancora possibile credere che questo mondo deve finire? È ancora possibile annunciare questo messaggio? In fondo vorrei sapere quanti sono oggi i cristiani che sono davvero persuasi e pronunciano con fede le parole del credo: et expecto resurrectionem mortuorum et vitam venturi saeculi: attendo la resurrezione della carne e il ritorno definitivo del Signore. In breve, nella fine della cristianità, il destino del cristianesimo è quello di un suo inevitabile risolversi in morale e in estetica – e così sopravvivere a se stesso – o è ancora possibile che esso viva come fede nella vita eterna? Questo interrogativo è certamente inquietante per coloro che oggi si dicono cristiani e non è facile dare a esso un’adeguata risposta. In breve, si tratta di capire se per i cristiani la fede sia la via per un incontro compiuto con il divino o rappresenti una tra le tante possibili ermeneutiche del mondo. (…)Ora, proprio nella fine della cristianità, mentre il cristianesimo si riformula per gli uomini come problema, il paganesimo riaffiora di nuovo come un possibile modello: una vita lunga, non una vita eterna. In una parola, una vita buona. Un’etica del finito nell’età della tecnica..Certo ai greci non si torna. Caso mai li si sceglie. Il paganesimo – per quel tanto che è possibile – non designa un’appartenenza, indica solo un’opzione. Anzi è a questo titolo che esso è ancora possibile. Ma che cosa vuol dire che il paganesimo è ancora possibile come opzione? È vero, quel che il tempo consuma si perde irrimediabilmente, ma è altrettanto vero che quanto è accaduto, per il fatto stesso d’essere accaduto, dura indefettibilmente, almeno secondo la classica formula che factum infectum fieri nequit: ciò che è accaduto non è suscettibile in alcun modo di mutamento. Quel che è accaduto in qualche modo resta com’è, e bisogna stabilire come. L’accaduto non è solo qualcosa che cessa d’essere, ma è anche qualcosa che in certo senso guadagna per sé l’eternità. Detto altrimenti, tutto ciò che cessa d’esistere come vita, continua a vivere come idea, resta impregiudicato come modello.Si tratta in effetti di un’eternità del tutto singolare e tuttavia determinante, perché solo in base a questa singolare durata divengono comprensibili i nostoi della storia, gli strani ritorni che ricorrentemente in essa si attivano. Quel che è trascorso non torna, ma è suscettibile di ripresa, è adattabile al presente come al corpo un vestito. Il passato non può infatti tornare al modo in cui una volta – e una volta sola – è accaduto, ma può esserne ripresa l’idea, e quel che si è dissolto come civiltà può vigere di nuovo come criterio. Già il criterio, certo. Potremmo dire il canone. Se così è, sembra che nel già avvenuto vi sia sempre qualcosa di inevaso, ed è per questo che ogni volta si può aggiungere dell’altro, quasi a completare, nel corso del tempo, il modello. Invano. In effetti il tempo non realizza le idee, le deforma. Un’inevitabile eterogenesi dei fini, ma anche un movimento infinito di perfettibilità.Il passato trasmutato in idea è, dunque, uguale e insieme diverso, è irrecuperabile e tuttavia praticabile. In questo senso la riattualizzazione del già accaduto non è mai il ritorno dell’eguale: è la riappropriazione del diverso, la reinvenzione dell’origine. Nella ripresa il passato torna come assoluta novità. In questo senso ai greci non si torna, ma li si sceglie. E proprio perché li si sceglie si è incommensurabilmente diversi da loro. I pagani non sapevano di essere tali. Noi sappiano che cosa furono i pagani. Il paganesimo come termine di scelta equivale, dunque, a un progetto. Come ha ben visto Nietzsche i greci permangono come modello, ci sono soprattutto utili per attuare una distanza, per liberarci dal nostro recente passato, per divenire critici del presente, per non assumere come datità invalicabile l’ovvietà del contemporaneo.Ciò che è storicamente tramontato non è detto che fosse degno di morire, e quel che di volta in volta ha successo non è detto che sia il meglio che possa accadere. Al passato non si torna, ma la ripresa che se ne fa, si configura come una delle modalità più alte per problematizzare noi stessi.Il neopaganesimo non è dunque un paganesimo di ritorno – né potrebbe mai esserlo anche volendolo: al contrario, è la trasmutazione di una civiltà in idealtipo, è una sorta di reimpossessamento del passato per il futuro. Nelle derive del presente, il neopaganesimo può essere assunto come un riferimento, o magari come una proposta. È un modo per forzare le inerzie del tempo e, se si vuole, è una possibile pedagogia. Meglio ancora, e con più ambizione, è un progetto antropologico, un’idea diversa di umanità. I nuovi pagani, l’umanità che ci piacerebbe divenire, l’umanità che vorremmo essere per rendere migliore, più gradevole, più abitabile la terra. A essa, comunque e in ogni caso, fedeli… Non sarà sfuggito al lettore che, a dispetto del tono pacato e della serenità dell’argomentazione, priva di asprezze polemiche (almeno in apparenza), la proposta di Salvatore Natoli si compendia in un progetto antropologico addirittura smisurato: una rifondazione integrale dell’umano, del suo orizzonte esistenziale, del senso complessivo del suo esistere, del suo abitare la terra, di che cosa siano la terra stessa, l’universo e l’essere.Ma andiamo per ordine.Al fine di meglio comprendere la proposta neopagana di Natoli, seguiamone passo per passo il ragionamento, prendendo in considerazione i passaggi qualificanti e criticandoli singolarmente. Al termine di questa disanima, ci i riserviamo di esprimere una valutazione d’insieme. Punto primo. Il neopaganesimo è un’etica del finito, intendendo “etica” nel senso etimologico di costume, abitudine, dunque come l’umano abitare nel mondo. Al tempo stesso, come uno sguardo nuovo su se stessi e sulla terra. Etica del finito è, quindi, la capacità dell’uomo di rapportarsi a se stesso, assumendo la centralità del dato della propria finitudine naturale. Critica. Qui Natoli interpreta l’essenza del paganesimo come un’etica del finito, ossia come un abitare la terra accettando pienamente il dato naturale della finitudine. Vedremo che, più avanti, egli sostiene che il cristianesimo è divenuto, oggi, tutt’al più, un’etica, nel senso di insieme di norme comportamentali. Egli, pertanto, adopera due diversi criteri di valutazione e due diverse accezioni del termine “etica”. Pertanto gli si può obiettare che non ha approfondito adeguatamente il modo di abitare la terra proprio del cristianesimo, o meglio, ne ha messo in evidenza soprattutto la parte negativa: la nullità delle cose senza Dio o lontano da Dio. Ma basta leggere il Cantico di frate Sole di Francesco d’Assisi per rendersi conto che anche per il cristiano la finitudine delle cose è naturale (oltre che creaturale), il che non gli impedisce affatto di coglierne la bellezza e la dignità. Punto secondo. Anche il cristianesimo postula un’etica del finito, ma non di tipo naturale, bensì creaturale. L’uomo è finito non perché egli sia natura, ma perché è creatura. Dio lo ha tratto dal niente – insieme agli altri enti – e, dunque, se si allontana da Dio, l’uomo torna ad essere niente. Fuori di Dio, infatti, non c’è che il nulla. Critica. Oltre a quanto detto sopra, bisogna chiedersi se sia proprio vero che, nel cristianesimo, l’uomo, privo del “sostegno” ontologico di Dio, sia un nulla. Ricordati, uomo, che sei polvere: polvere sei e in polvere ritornerai, è una formula che esprime solo la parte negativa della condizione umana. La parte positiva, di cui Natoli non fa parola, è che la nullità dell’uomo non è propriamente ontologica, ma etica: nel cristianesimo, l’uomo è chiamato a scegliere se vuol realizzarsi pienamente in Dio, o se vuole perdersi senza di Lui. “Perdersi” e non “annientarsi”: l’uomo non si annienta neppure quando sceglie di voltare le spalle, volontariamente e in piena autonomia, al Creatore. Dante, nell’Inferno, non incontra dei fantasmi, ma delle anime (proprio come sarà nel Purgatorio e in Paradiso): anime ancor piene di passioni, e destinate a ricongiungersi eternamente ai propri corpi.La dottrina della risurrezione – tratto specifico del cristianesimo e pietra dello scandalo per ogni concezione razionalistica (cfr. il discorso di san Paolo all’Areopago di Atene), è la smentita più chiara del fatto che l’uomo, senza Dio, sia un niente. E, per essere ancora più chiaro, il cristianesimo vi ha aggiunto un ulteriore elemento di “scandalo”: la dottrina della risurrezione dei corpi. Altro che nullificazione del finito! Punto terzo: nel mondo moderno, la certezza che l’uomo ha di Dio è venuta meno; dunque, ogni cosa appare minacciata dal nulla. Se tutto esiste grazie all’atto creatore di Dio, qualora la presenza di Dio si allontani, il nulla dilaga e sommerge il mondo. E l’uomo, che traeva la propria ragion d’essere dalla sua intimità con Dio, è travolto dal nulla più di qualunque altro ente. Critica. Qui fa capolino l’impianto severiniano dell’intera argomentazione di Natoli. La tesi di Emanuele Severino, ripetuta fino alla sazietà, è che l’occidente è travolto dal nichilismo perché, dopo Parmenide, ha abbandonato la coscienza dell’eternità dell’Essere. Il platonismo, il cristianesimo, il capitalismo, il marxismo, la civiltà della tecnica, non sono che altrettante fasi di questa tendenza metafisica, ossia dell’oblio dell’essere. La metafisica nasce dalla erronea convinzione che gli enti appaiano e scompaiano: tutto il destino dell’occidente è stato dominati a questa funesta illusione, la cui conseguenza è l’angoscia del nulla che ci assedia da ogni parte e che finirà per sommergerci. Natoli, infatti, ha precisato che il paganesimo di cui parla non è che una piccola sezione di esso: anzi, una piccola sezione della grecità. Non quella di Platone e Aristotele, evidentemente; ma nemmeno – a nostro avviso – quella di Omero. Basta leggere qualche verso dell’Iliade per rendersi conto di quanta angoscia provocasse, nell’uomo, la consapevolezza della propria caducità (cfr. il dialogo fra Glauco e Diomede: le generazioni degli uomini sono come le foglie…). Altro che serena accettazione della propria condizione finita e mortale!Ma, tornando al cristianesimo: è proprio vero che le cose, considerate separatamente da Dio, sono nulla? Certo, il Dio del cristianesimo è il Creatore: egli le ha tratte dal nulla. Ma il fatto che le abbia tratte dal nulla, significa anche che esse, di per sé, sono nulla? Che, senza di Lui, tornano al nulla? Se così fosse, Dio avrebbe creato un mondo illusorio, e la prima vittima di tale illusione sarebbe stato Lui stesso. Una versione di questa concezione è nel brahmanesimo e, più precisamente, nel concetto di lila: ossia nell’esistenza (illusoria) dell’universo come parte di un gioco divino. Ma, per il cristianesimo, le cose stanno diversamente.Il famoso incipit del Vangelo di Giovanni: In principio era il Logos, e il Logos era presso Dio, e il Logos era Dio, significa, al contrario, che il Verbo, il Pensiero, ossia la potenzialità del mondo creaturale, era compresente in Dio ab origine. Per cui le cose sono state tratte dal nulla, ma la loro possibilità esisteva dall’inizio; anzi: che il piano divino comprendeva originariamente tanto la creazione quanto la redenzione del mondo Punto quarto. Abbandonato dalla certezza di Dio, l’uomo ha cercato la salvezza contro il nulla nel farsi Dio di se stesso. Ma, in questo modo, egli ha travalicato arbitrariamente la propria finitudine, ha adorato il finito come se fosse infinito, il perituro come se fosse eterno. Così facendo, ha smarrito la coscienza del proprio limite ed è precipitato nella follia: la follia di credere che la salvezza si possa ottenere con la forza materiale, con il dominio sulle cose. Critica. Questo punto segna un distacco dalle premesse nietzschiane della proposta di Natoli. Se da Nietzsche, infatti, vengono sia l’annuncio della morte di Dio, sia l’esortazione a ritornare fedeli alla terra, qui si critica esplicitamente la “dismisura”, la hybris che ha condotto l’uomo a volersi fare Dio egli stesso. A dire il vero, assai prima che nella dottrina del Superuomo – o, se si preferisce, nei suoi esiti dell’ultimo Nietzsche, quello della volontà di potenza -, il peccato d’orgoglio qui denunciato da Natoli risale proprio alla grecità originaria: ve ne sono testimonianze eloquenti già in numerosi luoghi dell’Iliade. Diomede che si scaglia contro gli dei e che trafigge, con la sua lancia, lo stesso Ares, è una eloquente testimonianza di ciò. È vero che, in Omero, l’aristia dei guerrieri, anche quando degenera in sacrilega sfida agli dei, non concepisce la possibilità di una auto-divinizzazione; la cultura greca, peraltro (e quella romana dell’età imperiale) concepisce la divinizzazione dell’umano, come nel caso degli eroi del mito.In ogni caso, sembra che a Natoli sia sfuggita l’intrinseca drammaticità della condizione dell’uomo greco: che tende, è vero, al senso razionale della misura, derivante dalla accettazione della finitudine; ma che è sempre esposto a lasciarsi travolgere dall’ebbrezza, irrazionale, della dismisura. Ne deriva un costante senso di angoscia, che solo in apparenza si può accostare al senso cristiano del peccato: perché da quest’ultimo l’uomo può redimersi mediante l’atto di confidenza in Dio; mentre dall’angoscia pagana non esiste possibilità di redenzione, proprio perché alla cultura greca è sconosciuto il concetto di redenzione.Perciò l’uomo greco è costantemente irretito in una spirale autodistruttiva: gli onori e la gloria gli sono necessari, per rendere accettabile e degna la sua esistenza finita; ma, per renderla pienamente tale, egli ne desidera sempre di più, e quindi si travaglia e si consuma in una cieca rincorsa agli onori e alla gloria – il che non può avvenire se non mettendo continuamente a rischio la sua vita stessa, nel correre deliberatamente incontro alla morte. Punto quinto. È vero che il cristianesimo tematizza la finitudine, ma lo fa a partire dall’onnipotenza di Dio. L’uomo, nella sua prospettiva, deve farsi “umile”, ossia deve farsi terra, cioè nulla. Solo nullificandosi, l’uomo si eleva a Dio ed entra a far parte dell’infinito. L’amore dei nemici, la morale del perdono rientrano in questo disegno di auto-nullificazione dell’uomo. Il cristianesimo – osserva Natoli – non è direttamente responsabile del nichilismo che è subentrato alla “morte di Dio”, ma lo è indirettamente, perché ha preparato le condizioni perché ciò avvenisse. Critica. Giocando un poco sulla etimologia di humilis da humus, Natoli afferma che il perfetto cristiano è colui che si fa nulla; e solo così egli riesce a praticare non solo la morale del perdono, ma anche quella dell’amore per i propri nemici. Ancora una volta, dobbiamo osservare che questa è una interpretazione a senso unico del concetto dell’umiltà cristiana. Farsi umili, farsi piccoli, non significa – puramente e semplicemente – farsi niente, bensì abbandonare il proprio ego per rimettersi a Dio. In un certo senso, per il concetto dell’umiltà cristiana si può fare una riflessione a quella analoga al concetto buddista del Nirvana: se esso corrisponde all’auto-annientamento nella prospettiva del finito, si può dire però che ha un significato completamente opposto, ossia quello della completa realizzazione, nella prospettiva dell’infinito. Ora, il cristiano possiede, per così dire, una doppia cittadinanza: è un abitante di questo mondo, e, come tale, finito e perituro; ma è anche, contemporaneamente e, in un certo senso, già fin da ora, un abitante nella dimora dell’Assoluto. Ricordiamo le parole di Gesù: il Regno dei Cieli è già incominciato, qui e ora.Dunque, non è esatto affermare che il cristianesimo ha creato le premesse per l’avvento del nichilismo contemporaneo; non più di quanto lo sarebbe sostenere che un padre, lasciando suo figlio libero di scegliere il proprio destino, è anche responsabile della sua eventuale rovina. Punto sesto. Il paganesimo tematizza la finitudine in modo completamente diverso dal cristianesimo, perché concepisce il finito come sufficiente a se stesso. L’uomo deve valorizzarsi nel tempo, deve mantenersi fedele al presente e gioirne, ove possibile; egli può affrontare la morte solo a condizione di trovare, nella vita (finita), la propria misura (finita). Non si sogna di pretendere l’infinito, perché sa che si tratterebbe di una pretesa assurda. Critica. Queste sono belle parole, ma quel che sappiamo del mondo greco (e anche di quello romano) tendono a smentirle. Valgano qui le osservazioni già fatte relativamente al punto quarto. La verità è che l’uomo greco cerca di adattarsi all’orizzonte finito del mondo e della propria stessa esistenza, ma non sa darsi pace di quella finitudine e la vive con indicibile tormento. Nell’Odissea, l’ombra di Achille dice a Odisseo che preferirebbe vivere come il più misero dei servi, piuttosto che regnare sulle ombre dei morti. Il sorgere delle religioni di salvezza della tarda antichità – una delle quali è stata il cristianesimo – risulterebbe un fenomeno storico incomprensibile, se non si ammettesse che la visione greca dell’uomo non riusciva a placare un’ansia fondamentale, che appartiene alla struttura originaria – e non culturale – della natura umana: quella di avere una speranza che vada oltre la finitudine del mondo.In questo senso, si potrebbe dire che il cristianesimo – come il mithraismo, il manicheismo, la religione del Sole Invitto, lo gnosticismo, il mandeismo e lo stesso neoplatonismo – è stato la risposta ad una domanda che la stessa cultura greca aveva posta, e che – pur cercandola a lungo e con estrema tensione spirituale – non era riuscita a trovare in se stessa. Non è stato certo un caso se la prima grande ondata di conversioni al cristianesimo è avvenuta proprio nell’ambito della cultura ellenica, in Asia Minore e nella Grecia stessa. Punto settimo. Il cristianesimo è promessa di redenzione, il paganesimo è accettazione del destino. Perciò il cristiano vive nella speranza che si compia la promessa: il mondo, per lui, è fatto per la vita e non per la morte; il dolore e la morte sono una conseguenza (temporanea) dell’allontanamento da Dio. Il pagano non attende alcuna redenzione, perché nessun Dio gli ha promesso la vita eterna; e, quanto alla salvezza, quella che egli persegue è una salvezza relativa. Tale salvezza relativa, ossia nell’ambito del finito, egli ritiene di poterla conquistare, ragionevolmente, con le sue sole forze. Critica. Su questo punto non vi è nulla da dire, perché ci sembra che Natoli abbia descritto obiettivamente la differenza fondamentale fra il concetto cristiano di redenzione e quello pagano di salvezza (quest’ultima sempre in senso relativo). Se il finito è autosufficiente, certo non ha bisogno di essere redento: e da che cosa, poi? Ma se il relativo è il segno di un allontanamento da Dio (Adamo), la redenzione è il momento necessario per reintegrare la creazione nel progetto divino. Aspettare la redenzione, significa vivere nella speranza; non attendersi alcuna redenzione, significa dover fare i conti con la caducità di ogni cosa e con la propria stessa finitudine. In questo senso, si può dire che l’uomo greco è disperato, perché non spera in nulla che lo possa redimere dal dolore e dalla morte. Punto ottavo. Per realizzare la propria salvezza relativa, ossia per vivere una vita piena e paga di se stessa, degna di essere vissuta benché peritura, il pagano non disdegna la solidarietà con gli altri uomini, nella comune consapevolezza della propria fragilità. Egli, dunque, non cerca la carità, ossia l’amore dell’altro in Dio e per Dio, come fondamento dell’esistere di entrambi; bensì la pietà, sentimento interamente umano, radicato nell’orizzonte del finito. Tutti gli esseri viventi meritano pietà, perché sono tutti destinati al nulla della morte. Critica. Qui vediamo comparire un elemento che si potrebbe definire leopardiano, nel senso dell’ultimo Leopardi, quello de La ginestra, più che autenticamente greco. La pietà è un sentimento raro nel mondo greco. Si suole citare, come esempio tipico, il colloquio fra Priamo ed Achille per la restituzione del cadavere di Ettore, e il pianto che accomuna i due personaggi: il padre dell’ucciso e l’uccisore. Ma, in effetti, non è tanto per il dolore di Priamo che Achille si commuove, quanto per il presentimento della propria stessa fine; e, più in generale, per il senso opprimente della morte che incombe da ogni parte. La pietà, almeno nel mondo occidentale, è una virtù cristiana, non greca; ed è figlia – questo è vero – della carità, la più alta delle tre virtù teologali. «La carità di Dio è stata diffusa nei nostri cuori dallo Spirito Santo, che ci fu dato», dice san Paolo in Romani, 5, 5; e aggiunge, in 1 Corinti, 13, 1-13, che «anche se parlassi degli uomini e degli angeli, se non ho la carità, sono come un bronzo risonante o come un cembalo squillante… Senza la carità, non sono nulla… E se sacrificassi il mio corpo ad essere bruciato, se non ho la carità, tutto ciò non mi serve a nulla».Dunque, la carità è un dono soprannaturale di Dio: cosa inconcepibile per l’uomo greco, che può contare solamente sulle proprie forze; e che, anzi, vede spesso nelle potenze soprannaturali (il fato, gli dei) le responsabili di un gioco beffardo ordito a suo danno (cfr, Filippo Maria Pontani, La morte degli eroi, Sansoni, Firenze, 1975, p. 2). La pietà, invece, è un sentimento umano; ma, per il cristiano, essa deriva dalla carità, che ispira l’uomo anche contro l’ethos della propria stirpe e della propria religione (cfr. la parabola del buon Samaritano); mentre, per un greco, una cosa del genere sarebbe pressoché impossibile. Punto nono. Nella fine del cristianesimo, il paganesimo riaffiora come una possibilità, anche se – ammette Natali – la fine della cristianità non significa necessariamente la fine del cristianesimo. Il cristianesimo, secolarizzandosi, è già penetrato nella cultura post-cristiana (ad es. con i principi generali proclamati dalla Rivoluzione francese); ma, in ogni caso, esso si è trasformato in un’etica (nel senso corrente e non nel senso etimologico), e non più come un messaggio di salvezza. I cristiani non credono più alla salvezza, perché hanno scordato la promessa. Critica. Abbiamo già osservato, a proposito del punto primo, che qui Natoli interpreta il cristianesimo attuale come un codice di norme morali, mentre aveva presentato il paganesimo (in maniera astorica) come un modo di abitare la terra e se stessi. Si potrebbe anche osservare che, se è giusto distinguere la cristianità dal cristianesimo, questa distinzione manca per il paganesimo, che si tende a presentare come un tutto omogeneo: cosa che, sicuramente, non era. Da questa mancata distinzione, discende che il raffronto fra paganesimo e cristianesimo è viziato da un errore metodologico, perché li si valuta alla luce di differenti categorie interpretative.Quanto al fatto che la maggior parte dei cristiani odierni hanno scordato la promessa, noi crediamo che ciò sia vero; ma Natoli, con ciò, non dice una cosa molto originale, se si pensa che Kierkegaard ne aveva fatto il motivo conduttore di tutto il suo pensiero e di tutta la sua opera, quasi due secoli prima: e da un punto di vista cristiano. Punto decimo: Noi, oggi, non possiamo più tornare al paganesimo, perché al passato non si torna: esso è trascorso per sempre. Possiamo tuttavia assumere la grecità – non tutta, ma quella caratterizzata dal senso del tragico – come tipo ideale, come un modello, caratterizzato da un nuovo modo di abitare la terra: accettando la finitudine e cercando in essa la misura della nostra vita. Critica. A dispetto della sua proposta di puntare ad un nuovo paganesimo, Natoli ripudia qui una delle idee cardine del pensiero greco (e anche nietzschiano): quella della concezione ciclica del tempo e, di conseguenza, dell’eterno ritorno dell’uguale. Aderisce piuttosto alla filosofia erclitea, s seconda la quale non ci si potrà mai bagnare due volte nella stessa acqua; e, a ben guardare, fa sua la concezione cristiana del tempo come estensione lineare della durata. Inoltre, si serve del concetto kierkegaardiano (cioè cristiano) della ripresa: si direbbe proprio che, per formulare le sue tesi neopagane, egli non trovi strumenti migliori di quelli elaborati dalla cultura cristiana. Viceversa, non siamo d’accordo sul fatto della assoluta immutabilità del passato; ma ne abbiamo già parlato altrove, e in più luoghi (ad es., nel saggio Il passato può essere cambiato o è radicalmente immodificabile?, consultabile sui siti di Edicolaweb e di Arianna Editrice), per cui non ci soffermeremo oltre su questo aspetto.Concordiamo, peraltro, con l’affermazione di Natoli che «ciò che è storicamente tramontato non è detto che fosse degno di morire, e quel che di volta in volta ha successo non è detto che sia il meglio che possa accadere». È verissimo: guai se la storia si riducesse ad esaltazione acritica del presente; guai se la filosofia si riducesse a magnificazione dell’esistente (cosa che, sia detto fra parentesi, la cultura moderna ha fatto spesso e volentieri).Tuttavia, la proposta conclusiva di Natoli, quella di fondare un progetto antropologico basato su un’idea diversa di umanità, «per rendere migliore, più gradevole, più abitabile la terra», ci sembra peccare di astrattezza e di intellettualismo. Un progetto antropologico di tale portata non si formula a tavolino, non nasce dalla teoria, e sia pure da una critica circostanziata all’esistente. I mutamenti antropologici si verificano quando i tempi sono maturi, sotto la duplice spinta delle circostanze storico-culturali e dell’impulso creativo di qualche individuo eccezionale. Non quando un filosofo ha pesato sulla sua bilancia il tempo presente, e lo ha trovato scarso. Non solo.Si notano delle vistose omissioni, nella proposta formulata da Natoli; dei silenzi che lasciano perplessi, come se gli ultimi duemila anni di storia fossero scorsi senza portare, oltre ad elementi di critica al cristianesimo, anche elementi di arricchimento della cultura cristiana e post-cristiana.Il silenzio sui compagni di strada dell’uomo, gli animali, ad esempio; il silenzio sulla natura come ente dotato di bellezza e di una propria dignità; l’insufficiente approfondimento circa i pericoli della hybris di un Logos strumentale e calcolante, chiuso in se stesso ed escludente ogni forma di trascendenza – ma anche ogni limite alla propria arroganza: sono tutte cose che fanno pensare.Senza una parola chiara su tali questioni, la “fedeltà alla terra” proclamata da Natoli rischia di ricadere proprio in quella glorificazione dell’esistente deprecata a parole. E contro la quale – a nostro avviso – il migliore antidoto rimane l’idea di una finitudine dell’uomo che non si fonda nella finitudine del mondo, bensì che trova la sua ragione e la sua meta ultima in quell’Essere da cui gli enti, per un atto di amore, hanno acquistato esistenza, dignità e autonomia.Tante altre notizie su www.ariannaeditrice.it

Francesco Lamendola, Salvatore Natoli e l’etica del finitoultima modifica: 2008-06-14T13:01:53+02:00da mangano1
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