Laura Eduati. Aspetta solo che tocchi a te

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da LIBERAZIONE, 13 luglio 2008

Laura Eduati
Aspetta solo che tocchi a te
e Haarmann ti cercherà
con la sua mannaia tanto bella
A polpette ti farà

Questa deliziosa filastrocca tedesca spaventa soltanto i bambini

uesta deliziosa filastrocca tedesca spaventa soltanto i bambini. Eppure il protagonista, Haarmann, divenne l’incubo reale degli omosessuali di Hannover durante la seconda guerra mondiale. Insieme con il fidanzato Hans Grans organizzò un business redditizio: attirava giovani ragazzi nel loro appartamento e poi li prendeva a morsi sul collo strappando le carni fino a decapitarli. A questo punto Harmaan e Grans prendevano un coltello e smembravano il cadavere in piccoli pezzi che poi rivendevano al mercato nero spacciandoli per carne di manzo.
Niente in confronto a quello che combinava l’americano Edward Gein negli anni ’40 e ’50. Quando finalmente la polizia decise di fargli visita a casa, scoprì che l’uomo custodiva in salotto cimeli raccapriccianti: un cadavere scuoiato e decapitato, ciotole da minestra ricavate da teschi umani, una scatola da scarpe piena di genitali femminili, sedie in pelle umana e finiamola qui.
La scienza forense non aveva ancora coniato una parola che riassumesse i comportamenti di Gein. Ci riuscì soltanto negli anni ’70, con il termine serial killer . Ma è innegabile che Gein, da uomo quasi certamente psicopatico, è entrato nella leggenda al pari di Jack lo Squartatore. E se il suo nome continua a non dirvi nulla – meno male – allora riveliamo che la madre di Gein era davvero dispotica e gli vietava di frequentare le donne, cosicché quando morì il figlio sbarrò la sua abitazione e la conservò come un museo. Fu lo scrittore horror Robert Bloch a trarre ispirazione dalle sue gesta criminose per creare Norman Bates, lo psicopatico protagonista di un romanzo di poco valore come Psycho , poi divenuto un capolavoro del cinema grazie a Hitchcock. Non è finita: Ed Gein ha ispirato anche le pellicole cult Non aprite quella porta e Il silenzio degli innocenti , benché in questo ultimo il protagonista fosse un raffinato intellettuale cannibale.
A differenza di Gein e Haarmann, il serial killer è spesso un uomo (ma anche una donna) che conduce una vita apparentemente normale e irreprensibile. Una persona che i vicini di casa poi descriveranno attoniti ai giornalisti come «cordiale». Naturalmente non è così. E lo raccontano con estrema efficacia gli autori di un imperdibile dizionario sui crimini seriali, gli americani Harold Schechter e David Everitt nel volume Serial Killer. Storia, sangue, leggenda (Arcana ed., 22 euro, appendice sui serial killer italiani di Silvia D’Ortenzi), tomo scientifico e ironico per una rapida consultazione sui delitti più efferati della storia umana conditi dalle frasi celebri degli assassini, come quella di David Berkovitz: «Non volevo fargli del male, volevo solo ucciderli».
Non rasserena apprendere che negli ultimi decenni il numero dei serial killer sia aumentato a dismisura, e così il numero delle loro vittime, tanto che ormai il povero Jack lo Squartatore (cinque delitti) quasi sfigura al fianco del russo Andrei Chikatilo, accusato di una cinquantina di barbare uccisioni durante la Guerra Fredda (nella classifica dei serial killer più prolifici, Chikatilo occupa sicuramente i primi posti della hitlist, sebbene il Cremlino negasse che nell’Unione sovietica esistessero criminali di questa risma, convinti che fossero il prodotto di una societa capitalista). Il record finora imbattuto appartiene ad un rispettabile medico britannico, Harold Shipman, che accorreva al capezzale delle vecchiette per iniettare loro della diamorfina, uccidendole. Si calcola che tra il 1971 e il 1998 Shipman abbia provocato la morte di almeno 250 pazienti.
Conforta invece il lettore italiano sapere che il 76% dei serial killer nasce negli Stati Uniti. E, sempre rimanendo nel campo delle statistiche, l’84% è bianco e il 90% è maschio. Le vittime sono spesso donne (65%): come dimostra uno speciale profilo psicologico delineato dall’Fbi, una autorità in materia viste le proporzioni del fenomeno in terra americana, il serial killer uccide principalmente per libidine. Gli piace massacrare perché ne riceve un intenso piacere sessuale. Come aspetto per nulla secondario, il serial killer ottiene spesso una fama imperitura dall’attenzione dei media e dai nomignoli che lo bolleranno in eterno: il Mostro di Firenze, lo Strangolatore delle calze, il killer degli annunci. A questo proposito, Schechter e Everitt mettono in guardia dai fermoposta: l’americana Belle Gunness inseriva annunci matrimoniali del tipo: «Ricca vedova di bella presenza, giovane, proprietaria di grande fattoria, gradirebbe relazione con galantuomo benestante dai gusti raffinati». Gli sventurati che risposero vennero beffati due volte: Gunness era grassa, vecchiotta e «brutta come un cane». Ma era discretamente ricca, grazie alle eredità dei quattordici mariti uccisi e fatti sparire.
Il dizionario non risparmia dettagli: i traumi infantili dei serial killer, le coppie assassine, luoghi amati da questi criminali come le vasche da bagno, i macabri trofei come quelli di Gein, le spaventose lettere spedite ai famigliari delle vittime o alla polizia, i moventi. E persino un macabro questionario realmente utilizzato dai criminologi per capire se l’assassino merita l’appellativo di serial killer. In genere, gli assassini seriali da piccoli facevano la pipì a letto, erano insaziabili piromani e torturatori di animali, e tutto questo in quanto avevano subito abusi sessuali e psicologici. Come Charles Manson, che da bambino venne venduto dalla madre per un boccale di birra e si sa poi come andò a finire, povera Sharon Tate.
Serial Killer esamina con cura l’impatto degli omicidi seriali nella cultura pop – narrativa, cinema, musica, fumetti – a dimostrazione che le imprese efferate degli orchi cattivi esercitano da sempre un fascino innegabile nell’immaginario collettivo, a cominciare dalle fiabe come Barbablù e Cappuccetto Rosso , con una funzione certo catartica e per un verso psicanalitica: la conoscenza del Male è una tappa fondamentale per la crescita dell’individuo. O almeno per chi non cade vittima di questi assassini. «Ogni volta che è stato inventato un nuovo mezzo di comunicazione di massa, esso è stato usato per soddisfare questa passione primordiale», scrivono gli autori. Fin dalle prime trasmissioni radio americane, il pubblico ascoltava rapito programmi come Lights Out , incentrato sulle gesta degli omicidi seriali. Poi venne il grande schermo, e con esso vampiri ed esseri umani raccapriccianti come M, il mostro di Dusseldorf di Fritz Lang.
Gli anni ’60 e ’70 traboccano di pellicole ributtanti e horror, puro splatter che spesso sconfina nell’umorismo nero. John Carpenter si cimenta con Halloween: la notte delle streghe (1978), dove le leggende metropolitane degli studenti del college trovano quasi una conferma sullo schermo nero; Dario Argento gira Profondo Rosso (1976) e Hitchcock torna a narrare le vicende di un killer psicopatico con Frenzy (1972).
A seguire un’orda di pellicole di serie B grondanti sangue e seghe elettriche, fino alla rinascita raffinata del genere con Seven (1995, dove il poliziotto Brad Pitt insegue uno psychokiller che punisce uccidendo in base ai sette comandamenti) e Il silenzio degli innocenti (1991), tratto dal romanzo di Ed Harris.
Il business dell’horror frutta un sacco di soldi, e come al solito gli Stati Uniti risultano in cima alla lista delle idee strampalate: un’azienda mise in commercio negli anni scorsi un album delle figurine con i delitti più agghiaccianti dei serial killer , provocando le ire dei moralisti secondo i quali la violenza dei teenagers viene alimentata proprio dal proliferare di delitti amplificati al cinema e nei romanzi.
In realtà sono proprio gli adolescenti la nicchia di mercato più ampia del gore , il genere horror sbudellato e terrificante: basti pensare al successo di Scream di Wes Craven (1996), ispirato alla vera storia del serial killer Danny Rolling, condannato a morte negli anni ’90 per la barbara uccisione di cinque studenti americani. Scream inaugurò una serie infinita di horror adolescenziali, a partire dalla parodia Scary Movie .
E che dire della musica? Gli stessi Beatles, così apparentemente bravi ragazzi, scrissero “Maxwell’s Silver Hammer” in onore di uno spietato assassino. Risposero i Rolling Stones, che storpiarono la leggendaria “Let it be” nella morbosa “Let it bleed” (lascialo sanguinare). Il cantante Marylin Manson va oltre e recupera nel proprio brand name il nome dell’hippie assassino. L’australiano Nick Cave, stranamente dimenticato dagli autori del volume, resuscita ballate che narrano di omicidi, come nell’album Murder Ballads che comprende “Henry Lee” in duetto con PJ Harvey, ispirata alla vita del serial killer americano Henry Lee Lucas, nato in Virginia nel 1936.
Un caso da manuale: il piccolo Lee era l’ultimo di nove fratelli, cresciuto in una baracca da un padre alcolizzato e una madre che campava facendo la prostituta in casa, davanti agli occhi dei figli. Il povero Lee è il capro espiatorio della famiglia: picchiato costantemente con un bastone, viene mandato a scuola vestito da femminuccia. Un giorno il fratello Andrew gli conficca un coltello in un occhio, ma la madre decide di portarlo all’ospedale soltanto diverse ore dopo. I dottori non possono fare altro che mettergli un occhio di vetro. Non è finita: il padre, monco delle gambe, scappa di casa e si lascia morire nel bosco. A quel punto il profilo psicologico di Henry Lee è terminato: il ragazzo abbandona la famiglia e comincia una delle più lunghe e prolifiche storie criminali di tutti i tempi, un pot-pourri di necrofilia (etero e omosex), cannibalismo, plagio di minorati mentali e matricidio.
Grande millantatore, Henry Lee Lucas confesserà 3mila omicidi, di cui la polizia americana ne accerterà soltanto 213. Condannato a morte nel Texas, è proprio l’allora governatore George W. Bush a commutargli la pena in ergastolo. Nel 2001 Lucas muore di infarto. Non sorprende che la sua vita sia finita musicata nella ballata omonima: come le carestie e le indondazioni, gli esseri umani hanno bisogno di ricordare in chiave poetica anche gli omicidi più spaventosi. Nel caso di Henry Lee, il sentimento popolare ha privilegiato una sorta di pietà, dato che la narrazione della sua infanzia muoverebbe a compassione anche una pietra: «Mettiti giù, mettiti giù, Henry Lee/ e resta tutta la notte con me/in questo dannato mondo non troverai mai una ragazza/uguale a me».
Eppure gli abusi infantili non spiegano del tutto l’esistenza dei serial killer. E’ innegabile, infatti, che non tutti i bambini abusati si trasformeranno in efferati assassini. L’Fbi è convinta che alla base di tutto vi sia un sadismo sessuale incontrollato, accompagnato dal desiderio di dominare completamente un’altra persona. C’è chi, come Unabomber, preferisce ispirare terrore nelle masse, ed è per questo che viene inserito nella lista dei serial killer più pericolosi del pianeta. Il russo Chikatilo confessò alla polizia: «Ciò che ho fatto non era per piacere sessuale. Anzi, mi dava serenità».
American Psycho dell’americano Bret Easton Ellis è una di quelle rare fiction sugli omicidi seriali contenente una sottile ma devastante critica alla società dei consumi degli anni ’80. Il protagonista, Patrick Bateman, è uno yuppie newyorchese ossessionato dalla forma fisica e dai prodotti di marca; non coltiva amicizie ma soltanto rapporti professionali che gli conferiscono uno status, non intreccia rapporti sentimentali, passa la giornata a fare soldi a Wall Street. La notte si trasforma in un sadico serial killer, le sue vittime sono spesso prostitute di strada e barboni. La polizia indaga e arriva quasi ad incastrarlo, lui confessa i propri crimini all’avvocato che lo prende per matto: se sei ricco e bello non puoi essere un maniaco omicida. Bateman sospetta, e noi con lui, che la crudeltà gratuita sia il frutto della mancanza di valori (sì, i soliti vecchi valori), siamo diventati consumatori, macchine, l’umanità è sparita.
Possiamo allora lasciare agli specialisti la ricerca delle motivazioni profonde e seguire, invece, il consiglio lanciato dai Talking Heads nell’indimenticabile “Psychokiller” (1978): se vi trovate di fronte ad un maniaco omicida non chiedetevi che cosa sia, ma girate i tacchi e datevela a gambe.
Psycho Killer
Qu’est-ce que c’est?
fa fa fa fa fa fa fa fa fa far better
Run run run run run run run away

Laura Eduati. Aspetta solo che tocchi a teultima modifica: 2008-07-13T19:58:54+02:00da mangano1
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