INTERVISTA A MASSIMO CACCIARI

dal sito altrestorie.org

IL PENSIERO UNICO
LA POLITICA. TORNIAMO A DISCUTERNE?

 1762267236.jpg

1) Cominciamo con la domanda di Antonio Cartone che chiede: “Come si deve porre la sinistra di fronte al cosiddetto pensiero unico, quali alternative ci sono?”.
“Pensiero unico, forse, è un’espressione esagerata perché non siamo di fronte ad una così totale egemonia di un pensiero di tipo liberista, mi sembra che a questo si riferisca la domanda, assolutamente scatenato, selvaggio. Vi sono vari tipi di liberismo, più o meno liberale; gli apologeti del pensiero unico, o del Washington Consensus come si dice negli Stati Uniti in1762267236.jpg quanto dominio planetario delle semplici e pure cosiddette leggi di mercato e di libero scambio, sono in netto declino nel Paese leader, negli Stati Uniti d’America. Negli Stati Uniti molti intellettuali, molti sociologi ed economisti americani si interrogano invece su come reagire al pensiero unico per le catastrofi di carattere ambientale, sociale, culturale che questo minaccia di provocare, che potrebbe danneggiare lo stesso sviluppo economico. Quindi stiamo attenti perché non siamo di fronte ad un pensiero unico; vi sono vari modi di atteggiarsi nei confronti dei processi di globalizzazione. Io ritengo che non occorra fare i Don Chisciotte e pensare di poter in qualche modo arrestare o impedire questi processi, ma che occorra essere più seriamente, radicalmente globali dei globalisti. Ovvero: non deve esserci soltanto un processo di globalizzazione economica o tecnica, tecnologica, finanziaria. Deve esserci anche un processo di globalizzazione di domande, di esigenze, di bisogni, che debbono sapersi mettere in rete, come si usa dire, che debbono saper comunicare gli uni con gli altri. Sono bisogni che riguardano la qualità della vita, il nostro sistema, il nostro ambiente, i nostri cibi. Più radicalmente ancora una domanda di libertà: di libertà di comunicazione, di libertà di rapporti che la rete suscita. Questa attesa di libertà, dunque, che la globalizzazione porta con sé va assunta radicalmente sul serio, va fatta valere forzando quella camicia di forza tecnico-economica cui i processi di globalizzazione oggi sembrano ridursi”.

2) Lei ha fatto riferimento a dei nuovi contenuti della politica, almeno così li abbiamo chiamati anche noi. La domanda di Adriano Padrone introduce proprio questo tema. Adriano Padrone chiede: “L’animalismo alla Theodor Lessing, il femminismo, il giovanilismo, il salutismo (vedi I sonnambuli di Broch) non erano movimenti trasversali già all’inizio del Novecento? Perché un secolo dopo dovrebbero avere più fortuna?”.
“Anche qui si mettono insieme questioni molto diverse. Che movimento è il giovanilismo? C’erano movimenti giovanili un secolo fa, all’inizio di questo secolo o ancora negli anni Venti e Trenta; c’erano movimenti giovanili che partecipavano ai partiti socialdemocratici di sinistra, c’era un giovanilismo fascista, un giovanilismo nazista, che non è la stessa cosa di quello fascista: cosa vuol dire giovanilismo? Il femminismo era un movimento molto particolare che aveva un obiettivo specifico: in gran parte dei Paesi coincideva con le lotte per il suffragio universale. Quindi aveva obiettivi estremamente più ridotti di quelli dei movimenti femministi che si sono sviluppati in tutto il mondo a partire dagli anni Sessanta e Settanta. C’era un formidabile animalismo nazista. Le legislazioni più avanzate in materia di protezione e difesa degli animali, di gran lunga più avanzate, sono le legislazioni del Terzo Reich. Quindi sono tutti movimenti trasversali: ma essere trasversali non significa di per sé che sia un bene. Non è detto che un movimento trasversale, perché è trasversale, rappresenti un qualcosa che deve avere fortuna. Ripeto, non è augurabile che abbiano fortuna gli animalismi di tipo nazista o giovanilismi di tipo fascista. Quindi, su tutte queste questioni la politica attuale dovrebbe misurarsi più sul concreto. C’è un trasversalismo che significa raccordare diverse forze politiche sulla base di obiettivi e strategie comuni, e questo può andar bene. Ma c’è un trasversalismo che è semplicemente di carattere demagogico-populistico com’era il giovanilismo di destra e, in gran parte, anche quello di sinistra un secolo fa, o com’era il salutismo, o l’animalismo di cui qui si parla. L’esigenza che noi oggi in politica abbiamo è di uscire, io ritengo, da questi “-ismi” e di andare alla cosa. Andare a vedere che cosa si sostiene in materia di protezione degli animali, che cosa in materia di esigenze, domande del mondo giovanile e così via: questo è il discorso. Non esiste il femminismo. Esistono tanti femminismi, tanti animalismi, tanti giovanilismi”.

3)La domanda di Augusto Paolelli invece cerca di mettere a fuoco le ragioni della crisi della politica. Paolelli chiede: “La crisi della politica si esprime da un lato come crisi della partecipazione, dall’altro come crisi dell’élite dirigente. In quali termini esse risultano intrecciate?”.
“La crisi della politica oggi è una crisi di rappresentanza e questo intreccia le due dimensioni che pone la domanda. L’opinione pubblica è sempre più consapevole, perché di consapevolezza si tratta, che la dimensione tradizionale della politica è sempre meno influente rispetto alle grandi scelte che competono e che riguardano la vita di ognuno di noi. Questo è avvertito dall’opinione pubblica. Le grandi scelte in materia economica, finanziaria, ambientale, tecnica, scientifica, sono sempre più estranee a quello che è il rapporto di rappresentanza, democratico, ma anche non necessariamente democratico, vale a dire quel rapporto in base al quale io delego dei politici a rappresentarmi. Questa è la realtà della crisi della politica: non che il ceto politico attuale sia inadeguato perché formato da imbecilli; è inadeguato perché, agli occhi delle persone, dell’opinione pubblica, la politica è oggi inadeguata ad affrontare tali questioni. Si avverte allora questo scarto tra la dimensione politica e le sedi che si ritengono decisive sulle questioni che ci riguardano quotidianamente. Questo è il problema che oggi abbiamo di fronte. Come poter influire veramente, attraverso i meccanismi di rappresentanza democratica, intorno a queste grandi questioni che riguardano l’ambiente, che riguardano i rapporti tra Paesi metropolitani e Paesi poveri, che riguardano le grandi questioni dell’immigrazione. Tutte queste questioni sembrano ormai decidersi in sedi estranee a quelle tradizionali dell’agire politico. Questo crea la sensazione di un ceto politico inadeguato. In realtà sta diventando inadeguata la politica in quanto tale a rappresentare questi problemi”.
 

4)Le propongo di vedere l’argomento da un altro punto di vista che è quello che suggerisce Roberta Pisicchio, la quale chiede: “Il mondo della new economy, le crisi della rappresentanza classica dei partiti e dei sindacati, rende l’uomo più solo davanti alle istituzioni. Nel frattempo nella società emergono nuovi bisogni che stentano a diventare contenuti politici. Ma qual è il processo secondo il quale il bisogno fa il salto di qualità e si trasforma in contenuto? Se non è più la forza d’urto delle masse, i partiti che li rielaborano, quali altri meccanismi dobbiamo immaginare? E come di devono attrezzare i professionisti della politica?”
“Per immaginare, come qui è detto, una risposta a questa difficile domanda io credo che occorra partire da come possiamo organizzarci noi: non è una domanda per i professionisti della politica. I cittadini oggi hanno, se lo vogliono, gli strumenti di comunicazione, le capacità culturali di informazione per poter organizzare questa emersione di nuovi bisogni, questa tematica dei bisogni che da parecchio tempo è al centro dell’attenzione culturale, politica e filosofica. Possono partire dall’individuazione di questi nuovi bisogni, intanto, e vedere fino in fondo, sperimentare fino in fondo, le loro capacità di autorganizzazione. Non è più possibile rispondere a questa domanda semplicemente indicando all’opinione pubblica il luogo deputato della politica che dovrebbe soddisfare queste domande. Questo luogo, ammesso che ci sarà mai più, è un luogo che essi creeranno o determineranno in base non soltanto alla espressione delle loro esigenze, ma anche al loro sforzo di autorganizzarsi intorno a queste esigenze. In altre parole, l’idea che ci possano essere adesso le domande e poi i luoghi deputati – partiti o movimenti – che rispondono a queste domande, questo schema molto tradizionale è esattamente quello che oggi è entrato in crisi. D’altra parte fintantoché noi viviamo in società, politica ci sarà. Come possiamo rideterminare i luoghi nei quali alle nostre domande, alle nostre esigenze, si possa corrispondere? Non più pensando di trovarli pronti, questi luoghi. È una vecchia idea. Due generazioni fa, una generazione fa, forse, si poteva pensare che questi luoghi ci fossero. Oggi questi luoghi debbono far parte del progetto delle persone che vogliono, che esprimono queste domande, queste esigenze. Quindi la mia idea di politica è di una politica che parte da questi livelli di organizzazione, da questi livelli di autonoma espressione della società civile, che all’inizio possono essere su obiettivi molto concreti e determinati; ma da lì, poi, si possono allargare fino a ridefinire veri e propri nuovi luoghi dell’agire politico”.
5) Rai Educational: “Si è già verificato storicamente un processo simile?”.
“Certo. La nascita di nuove forme politiche nel moderno e nel contemporaneo spesso è stata questa. Vi sono dei momenti in cui alle domande, alle esigenze che parti della società esprimono, nessuna forza già organizzata sa corrispondere. Questa è una situazione classica di transizione. A questo punto, allora, o le forze organizzate hanno comunque sufficientemente potere per reprimere in qualche modo questa domanda e mantenere la loro supremazia sulle forme di autonoma espressione della società civile, laddove le forme per cui questa supremazia si può mantenere sono le più varie, da quelle apertamente repressive fino a quelle della istituzionalizzazione dei movimenti. Oppure queste domande cominciano con l’autorganizzarsi. Ci sarà un momento in cui vi sarà una dialettica, un confronto anche polemico tra queste forme embrionali di autorganizzazione e le vecchie forme di organizzazione politica; da questo confronto può darsi che sorgano nuove forme di costituzione politica. Questo è una dialettica assolutamente normale. Oggi siamo in una situazione di questo genere. Soltanto che la grande difficoltà è che oggi non possiamo più collocare questi problemi su scala nazionale per le ragioni che si diceva prima. Questi sono problemi che ormai si collocano quasi naturalmente su scala continentale, su grandi spazi, addirittura su scala planetaria. Questa è la difficoltà. Per cui la risposta è che devono essere organizzazioni tendenzialmente altrettanto globali, capaci di giocare su un piano globale, esattamente come i processi tecnici, economici, culturali”.

6)Mi sembra che, con questa risposta, abbia già esaurito la domanda che poneva Matteo Morgavi, il quale chiedeva: “Come è possibile prefigurare l’evoluzione della politica a partire dalla crisi della funzione dei partiti e dal proliferare delle coalizioni elettorali?”.
“Le coalizioni elettorali non proliferano da nessuna parte. Anche da noi le coalizioni elettorali sono state sostanzialmente due. Quindi la coalizione coalizza, mette insieme. C’è stata una fase di proliferare di partiti e partitini: quando la vecchia forma politica si disgrega, la disgregazione porta alla proliferazione; noi abbiamo attraversato questa fase. Oggi siamo già in una fase diversa anche nel nostro Paese: una fase di coalizione in cui, in forma più o meno occasionale, in forma più o meno dilettantesca, il prodotto della frammentazione della vecchia forma politica tende a ricoagularsi; questo è positivo. Ma siamo ancora in una fase in cui giochiamo con i vecchi soggetti. Non siamo ancora, cioè, nella fase in cui possiamo dire: qui ci sono i vecchi soggetti che cercano di riformarsi, di ristrutturarsi, di coalizzarsi, mentre dall’altra parte ci sono queste nuove forme di espressione domande ed esigenze della società civile in qualche modo già organizzate. Non siamo, secondo me, ancora in questa fase in cui possiamo individuare questa dialettica tra forme nuove di organizzazione politica e le vecchie in via di trasformazione. Questa sarebbe già una fase molto più avanzata e più positiva dell’attuale; saremmo già in una fase di vera e propria costituzione di nuove soggettività politiche. Oggi siamo in una fase in cui, molto alla lontana, vediamo dei movimenti, di contestazione più che altro, dei processi di globalizzazione; dall’altra parte un processo di coalizione di formazioni politiche tutto sommato tradizionali o derivanti semplicemente dall’esplosione di quelle tradizionali. Quindi una fase ancora in cui, certamente, la transizione non è compiuta e non sarà semplice compierla in breve tempo”.
7)Un elemento che rivela quello che ha detto ora è anche l’uso di un certo linguaggio della politica, soprattutto riferito ai nomi delle formazioni. La domanda che pone Laura Bianchi: “L’attuale linguaggio politico appare sempre più svincolato dai riferimenti concreti. I nomi dei partiti, delle coalizioni, sono tratti dal mondo della natura, contengono slogan, solo nomi di persona. L’unico termine ancora lecito sembra essere democrazia, declinato in tutti i modi possibili. È un fenomeno indicativo della crisi – chiede Laura Bianchi – o, nella più ottimistica delle ipotesi, è un fenomeno indicativo della trasformazione della politica?”
“Entrambe le cose. Da un lato questa mancanza di riferimenti concreti, che indichino cioè interessi specifici – io sono partito in quanto mi riferisco a quella parte specificatamente considerata – così come era nei simboli dei partiti tradizionali, viene necessariamente meno perché la stratificazione di classe di interessi, che era così relativamente chiara nel moderno contemporaneo, oggi è venuta meno. È collassata, smontata completamente e quindi è ben difficile indicare concretamente quali siano i referenti sociali da chiamare con nome e cognome. È più facile quindi cercare di abbracciare l’universo dell’opinione pubblica: da qui i nomi di natura, fiori, che non si riferiscono a nulla di specifico, ma a tutti genericamente. Questo però, ripeto, non va visto semplicemente con ironia o con sufficienza; è un sintomo della crisi e della trasformazione e della transizione che potrebbero concludersi sia positivamente che negativamente. Questo fatto, di per sé, potrebbe concludersi con la riduzione della politica a chiacchera demagogico-populistica: un generico appello rivolto a tutti senza alcun referente concreto. Ma potrebbe anche concludersi con la formazione di specifiche domande ed esigenze che cercano di organizzarsi e che entrano in conflitto, comunque in dialettica, con le forme politiche tradizionali, determinandone la trasformazione più o meno radicale. Non è assolutamente scritto da nessuna parte, insomma, che questo processo debba concludersi con un universale pasticcio demagogico-populistico. Lo sarà, io ritengo, se mancherà una pressione mirata, coordinata, concreta anche da parte di un’opinione pubblica organizzata. Se questa pressione non si determinerà, sarà molto probabile che la politica del futuro sarà una politica di appelli, sarà una politica di carattere demagogico, che lascerà totalmente in pace chi effettivamente può e fa, cioè le strutture tecnico-economico-finanziarie che agiscono al di fuori di ogni criterio di rappresentatività e di democrazia. Le aziende, qualunque esse siano, piccole o grandi, funzionano nella misura in cui non sono democratiche. Quindi è chiaro che quando l’idea che tutto funzionerebbe meglio se tutto fosse un’azienda passa a livello di opinione pubblica, nella mente della gente, siamo al collasso della democrazia”.

8)Rai Educational: “Quanto peso, quanta attrattiva hanno i nomi della politica: azienda, Casa delle Libertà, i riferimenti alla natura, l’Ulivo, la Margherita? E come mai a sinistra si preferisce il mondo della natura e a destra l’azienda e le libertà?”.
“Questo è stato un colossale errore della sinistra perché il nome Casa delle Libertà avrebbe dovuto essere il nome che si dava alla coalizione di sinistra, dopo la catastrofe del precedente sistema politico. Delle libertà, non della libertà: perché la libertà, al singolare, è ancora una divinità molto giacobina, se il Cavaliere me lo permette. Ma invece “le libertà”, plurale, doveva essere il nome che la coalizione di sinistra avrebbe dovuto darsi, non c’è alcun dubbio. Qualcuno l’aveva proposto, ma si preferì continuare con i nomi che si riferivano alla tradizione concreta con i referenti specifici, precisi. Addirittura qualcuno pensava a temi come il partito del lavoro, il labour, quindi socialdemocrazia; si parla ancora in questi termini qui, come se vi fossero ancora quei riferimenti. Quei riferimenti, ripeto, non vi sono più. Questo, di per sé, non significa essere condannati a vita perpetuamente a ulivi, margherite, garofani, rose, querce e così via. Se sapremo capire il limite dell’attuale situazione, può essere un momento di passaggio verso nuove forme di radicamento sociale delle forze politiche. Ma perché questo avvenga, vi deve essere non solo la domanda e l’esigenza da parte dell’opinione pubblica e della società civile; vi devono essere anche movimenti in qualche modo organizzati che entrano in dialettica con le forme politiche tradizionali. Sono convinto di questo. Altrimenti l’autoriforma delle forme politiche tradizionali è molto, molto problematica. La storia lo insegna ad abundantiam. Nessun organismo politico si suicida, va bene, ma è anche difficilissimo che si riformi se la sua riforma, in qualche modo, non gli viene imposta”.

9) Lanciando il tema di questa intervista abbiamo registrato anche una fase di ritorno alla politica tradizionale, un ritorno al voto: i cittadini sono tornati a votare. La domanda di Alessandro Mari si focalizza un po’ su questo punto e anche su temi appena toccati. Mari chiede: “Che cosa significa ritorno alla politica tradizionale? A Roma i Ds sono al 17 per cento, la lista beautiful di Veltroni all’11 per cento – lista beautiful ovviamente significa lista civica – ovvero un giro di telefonate tra professionisti e signore salottiere raggiunge una percentuale simile a quella di un partito ancora con funzionari, federazioni, sezioni. Dove sarebbe la politica tradizionale con partiti tanto leggeri? E a quale politica si tornerebbe mai? Ai comitati elettorali di Giolitti? Ai partiti simil-bolscevichi dei comunisti occidentali vagheggiati da Bertinotti? Alle socialdemocrazie, ma senza più operai? Alle lobbies Usa?”.
“Qui mi pare che per politica tradizionale si intenda un ritorno al voto. C’è stato in quest’ultima campagna elettorale, ma dettato anche da cause abbastanza contingenti. Mi guarderei bene dal pensare che c’è stato un ritorno all’impegno politico semplicemente perché siamo ritornati a percentuali buone di partecipazione al voto. La partecipazione al voto è stata determinata da vari fattori: intanto dalla durezza della campagna elettorale, dalla polemica; poi gran parte dell’astensionismo di sinistra, di centro-sinistra, è stato recuperato per la paura, tra virgolette, della vittoria di Berlusconi, e perché bene o male il centro-sinistra si è presentato con un’offerta politica un po’ più agguerrita rispetto alle Europee e alle Regionali dell’anno scorso. L’Ulivo aveva un leader che ci credeva ed era in campo. Vi era questa nuova forza politica, la Margherita, che in certe regioni, in particolare al nord, ha spinto e ha motivato al voto un largo settore dell’elettorato, dell’opinione pubblica moderata di centro. Ma tutto ciò è assolutamente reversibile. I partiti sono in crisi dura. Ma dov’è il partito con funzionari, federazioni, sezioni? Il problema è che c’è ben poca differenza, da questo punto di vista, tra Ds e la lista Veltroni. Certo, i Ds hanno ereditato una struttura organizzativa; ma, diciamocelo francamente, è una struttura organizzativa in via di scioglimento se non stanno bene attenti e se non fanno un congresso dove si discute di nuovo di politica e si rimotivi la gente. Al nord le strutture dei Ds sono sciolte già al 99 %. Quindi non è più possibile tornare alla politica tradizionale. O avviene quello che ho detto e ripetuto, cioè una volontà di autoriforma da parte dei partiti, che però si intreccia con una capacità autonoma da parte di domande, esigenze della società civile di darsi strutture in qualche modo di movimento ma con una propria dimensione organizzativa, e le due cose si incontrano, si incrociano, dialettizzano, polemizzano. Oppure la politica, almeno come noi la intendiamo, collasserà. Questo è il grande vantaggio, oggi, di certe forze politiche rispetto ad altre. Perché per certe forze politiche il collasso di questa politica tradizionale è del tutto funzionale, va assolutamente bene perché per queste forze politiche l’obiettivo è l’aziendalizzazione non la politicizzazione. Altre forze politiche – non soltanto il centro-sinistra in Italia, ma le socialdemocrazie, ma il Labour, ma in parte anche i democratici americani – questo le penalizza elettoralmente, le fa perdere. Questo vale per Gore e Clinton esattamente come per l’Ulivo in Italia. E allora io mi auguro che si capisca che non si tratta né di difendere in termini conservativi quel poco che avanza dei partiti tradizionali, né, ovviamente, di tornare ai comitati elettorali di Giolitti che stavano in piedi semplicemente perché non votavano tutti, votava una minoranza, non votavano le donne. Né, tantomeno, sognare di poter fare oggi le socialdemocrazie. Blair in Inghilterra ha fatto piazza pulita delle vecchie strutture burocratiche, funzionariali, del Labour, altrimenti non avrebbe mai vinto. Blair non ha cominciato come personaggio televisivo, fotogenico a candidarsi per la Presidenza del Consiglio. Blair ha fatto vita di partito distruggendo, eliminando tutte le vecchie strutture burocratiche funzionariali del Labour che avevano condannato il Labour, alla fine degli anni Settanta, a una generazione di opposizione. Allora bisogna che anche da noi l’area socialdemocratica comprenda bene la lezione e, dall’altra parte, che vi sia una Margherita, cioè una forza di centro che suscita, sollecita, provoca questa espressione autonoma di domanda ed esigenza da parte della società civile. Chi più vive più vedrà”.

10)Rai Educational: “Vediamo la questione dal punto di vista dei movimenti. Il movimento di Seattle, la contestazione alla globalizzazione, prefigura un po’ questo rapporto cui ha accennato? Si interagisce con le strutture istituzionali?”.
“Io ho questa speranza. Per il momento il movimento di Seattle, il popolo di Seattle, si caratterizza per la sua negatività o positività al modello attuale di globalizzazione. E questo può andare benissimo. Soltanto che, chiaramente, non si costruisce semplicemente con l’opposizione. Non ha ancora, a mio avviso, una struttura, una fisionomia di movimento propositivo e di governo. Però esprime delle cose importantissime. Intanto esprime l’esigenza, ormai inderogabile, della globalità del movimento. O nuovi soggetti politici sono altrettanto globali della globalizzazione, oppure il loro interesse oppositivo, ancor più propositivo e di governo, è scarsissimo. Devono attuare forme organizzative nuove, permesse anche dalle tecnologie di cui disponiamo, fondate su possibilità di informazione e comunicazione assolutamente inedite. E con queste tecnologie, con questi mezzi, che senso ha inseguire forme organizzative di tipo partitico tradizionale? Il movimento di Seattle dichiara questo: che le forme tradizionali di comunicazione, di organizzazione sono assolutamente superate, non servono. E questa è un’altra lezione importantissima, in positivo. Certamente per questi movimenti, come per altri che si collocano sulla stessa dimensione e che abbiano consapevolezza della stessa scala su cui ormai la politica deve collocarsi, il grande problema sarà il passaggio alla fase propositiva, della definizione di una strategia comune. Non soltanto dire che questa globalizzazione è contraria agli interessi di questi popoli; ma dire come affrontare il problema energetico, come affrontare il problema alimentare, come affrontare il problema degli scambi internazionali e del commercio internazionale. Quando si porrà il problema di governare Paesi o continenti sulla base di alcune delle istanze ed esigenze che i movimenti di contestazione dell’attuale globalizzazione hanno manifestato, qui sarà il problema. Ecco dove potrà nascere positivamente l’intreccio con forze politiche di governo tradizionali, tra virgolette. Perché è chiaro che alcuni aspetti della protesta di Seattle comporterebbero, se radicalmente e coerentemente assunti, una trasformazione talmente profonda delle politiche interne nei Paesi metropolitani da rendere pressoché impossibile non solo l’affermazione delle forze di sinistra, o di centro-sinistra, ma nemmeno l’avvicinarsi al 5 % da parte di costoro. Quindi, il passaggio dalla giusta opposizione e protesta alla capacità di governo comporterà quella dialettica, anche polemica, tra movimento autonomo e forza politica che è il problema che ho evocato finora. Ma a questo punto, a questo passaggio, a questa porta stretta ci arriveranno per forza prima o poi. A meno che, ripeto, cosa anche possibile, movimenti tipo Seattle collassino e, dall’altra parte, si abbia una risposta puramente conservatrice, reazionaria da parte delle forze politiche. Questa è ancora una possibilità del tutto aperta”.

11) Restiamo sempre nell’ambito della società civile vedendo un altro tipo di movimento, forse non proprio un movimento, quello espresso dal bisogno di qualità della vita, di cibo sano per esempio. La domanda che un po’ provocatoriamente rivolge Gianni Berenghi: “Nonostante l’eco mediatica dei movimenti come quello di Seattle tra l’interesse al mangiar sano e l’interesse all’abbassamento delle tasse quale sarà più forte e coagulante? Il partito della bistecca contro il movimento antifiscale?”
“In modo altrettanto netto e onesto dovrei rispondere a questa domanda dicendo che al momento non vi è alcun dubbio che oggi vincerebbe l’interesse all’abbassamento delle tasse. Non vi è il più remoto dubbio che se si potesse porre mai l’alternativa in questo modo, per fortuna l’alternativa non è assolutamente necessario porla in questo modo, perché vi è del tutto la possibilità che si abbiano delle politiche per l’alimentazione e nello stesso tempo politiche per la riduzione della pressione fiscale. Le due cose non sono assolutamente incompatibili, né di fatto né teoricamente. Però, per stare al gioco e alla provocazione, se si ponesse questa alternativa, non vi è alcun dubbio che l’opinione pubblica oggi è nei fatti non in un sondaggio – in un sondaggio sicuramente risponderebbero perbene – ma nei fatti, nei comportamenti fattuali, uno che faccia politica, che abbia fatto politica e che abbia fatto la politica proprio in cucina facendo l’amministratore di una città sa benissimo, non può avere alcun dubbio in proposito, di quale sarebbe la risposta. Ma la politica esiste non soltanto per registrare le tendenze, ma anche per educarle. Non nel senso paternalistico del termine, ma per far presente ai propri concittadini quali sono le conseguenze di determinati comportamenti, di determinati atteggiamenti. Quindi la politica deve rendersi conto in modo sobrio e disincantato delle tendenze. Vedere le conseguenze di queste tendenze se lasciate libere, se scatenate e, su questa base, aprire una discussione franca, a livello complessivo di opinione pubblica. Cercare, quindi, di orientarla senza nessun paternalismo, senza nessuna pretesa di avere la verità in tasca, discutendo. Tu la pensi così, pensi che la priorità essenziale sia la riduzione della tasse, costi quel che costi altrove? Vediamo. Allora, pensi che sia comunque la priorità rispetto a questo, rispetto a quest’altro, discuti, analizzi, sciogli nodi. La politica fa questa fatica, è questa discussione permanente, non c’è niente da fare, se si vuol giungere a decisioni razionali. Se si vuole giungere a decisioni semplicemente sulla base di ciò che è l’andamento naturale dell’opinione pubblica o semplicemente sulla base di bombardamenti mass-mediatici, demagogici, populistici, è un altro paio di maniche. Secondo me in questo caso non si tratta di politica. Si tratta di vendere merci: si tratta di inseguire in termini notarili l’opinione pubblica, ma non è politica”.

12)Rai Educational: “Quindi la vera politica, o la bella politica come l’ha chiamata Veltroni, ha bisogno anche di molta creatività, di offrire un punto di vista eccentrico, diverso sul reale?”.
“La politica, ripeto, non può essere soltanto l’opinione corrente. La politica, la vera politica, ha sempre avuto anche un elemento di paradossalità. Doxa, il termine greco, vuol dire opinione corrente: è sempre stato qualcosa che è accanto certo all’opinione corrente, conosce l’opinione corrente ma è anche in qualche modo oltre. Questa è la difficoltà della politica. La politica, quand’è così, può essere una tecnica, un’arte, dichiara un suo valore, una sua funzione, altrimenti è perfettamente inutile. È perfettamente inutile perché ci sono altre discipline che, appunto, o sanno benissimo produrre bisogni ed esigenze e altrettanto bene sanno soddisfare immediatamente i bisogni e le esigenze che in gran parte hanno prodotto. Fine. Ed è un circolo perfetto, totalmente vizioso o virtuoso: ma sono altre discipline, sono discipline di mercato, di produzione. Allora, o riteniamo che la politica sia inutile e che per regolare i nostri rapporti e la nostra vita queste discipline siano più che sufficienti, lo diciamo e sbaracchiamo il campo dell’agire politico, e questo di fatto è una cosa che sta procedendo, non è un esercizio mentale. Oppure riteniamo che questo andazzo provoca contraddizioni e conflitti alla lunga difficilmente governabili, e a livello planetario e all’interno di diversi Paesi: allora cerchiamo di fare bene la politica. La politica è bella? Sono belle altre cose, è bello il Santo Spirito, è bello San Miniato, è bella la chiesa di San Marco, non è bella la politica. La politica è una faticaccia, come ogni mestiere. Però può produrre dei buoni effetti secondo me. Ma per farlo deve ripensarsi, ripensare le sue forme organizzative, ripensare il suo rapporto con la società civile, le cose che abbiamo fin qui detto”.

13)Lei prima ha detto che di fronte alla globalizzazione anche i movimenti si devono globalizzare, ma forse anche le istituzioni, anche i rapporti tra Stati devono avere una dimensione sempre più circolare, è un po’ il senso della domanda di Raffaele Tucci il quale chiede: “La posizione assunta dagli Stati Uniti nei confronti del protocollo di Kyoto sull’emissione dei gas responsabili dell’effetto serra rappresenta in negativo il caso limite del principio di sovranità nazionale. Quale può essere il rapporto tra le richieste dei singoli Paesi e gli interessi realmente globali e connessi al futuro del pianeta? Si può pensare a un modo secondo il quale la comunità internazionale possa esercitare un potere esecutivo in grado di far rispettare delle dichiarazioni che altrimenti rischiano di essere soltanto dei buoni propositi?”
“Questa è una questione centrale a cui è pressoché impossibile dare risposte serie in pochi minuti perché ne va del rapporto tra Stato nazionale, cioè tra la dimensione tradizionale della politica che è quella statuale, e il processo di globalizzazione medesimo. Oggi noi viviamo un’epoca di grave crisi degli Stati nazionali. I processi economici, finanziari, tecnologici, culturali, ormai hanno scavalcato alla grande questi confini. Si parla di deterritorializzazione del Leviatano: la sovranità non ha più radicamento territoriale e in gran parte il sovrano ormai non appare più con un nome, con un volto, una figura. Chi è che comanda oggi nel mondo contemporaneo? Dove stanno i luoghi del comando? Vanno tutti ricostruiti. Una volta era semplice indicare la capitale, la stanza dei bottoni. Dove stanno le stanze dei bottoni oggi? Soprattutto queste stanze dei bottoni sono ormai del tutto sottratte a procedure di carattere politico. Chi comanda in quelle stanze dei bottoni, ammesso anche che riusciamo ad individuare dove stanno le stanze dei bottoni, è un sistema planetario, assolutamente deterritorializzato e quindi sottratto ad ogni forma di sovranità nazionale. Gli agenti sono decisi sulla base di tutto fuorché di procedure di carattere politico. D’altra parte i problemi che abbiamo evocato sono problemi che vanno decisi, che sono decisi a livello globale. Certamente per un lungo periodo saremo ancora in presenza di Stati nazionali. Il processo di riduzione della loro sovranità sarà molto lento e, secondo me, non è un male che sia lento, perché dovremmo anche affrontare il problema del nostro adattamento a queste epocali trasformazioni. Il nostro adattamento anche mentale, psicologico. Noi stiamo vivendo, da una generazione a questa parte, in una situazione di terremoto permanente. Quindi che gli Stati nazionali, in qualche modo, resistano, anche antropologicamente e psicologicamente, al carattere esplosivo del processo di globalizzazione, economico, mercantile e finanziario, non è tutto negativo. Però è una resistenza. Dobbiamo essere consapevoli che è una resistenza: il vecchio Stato nazionale è finito. Manda ancora luce, come le stelle, morte da chissà quanto tempo, illuminano ancora, ci servono ancora di notte, ma loro probabilmente non esistono più. Quindi bisogna rendersi conto che dobbiamo immaginare, cominciare a immaginare ordini, norme, del tutto metastatuali, metanazionali. Alcuni organismi esistono, ma sono organismi sottratti ad ogni legittimazione democratica. È possibile la loro democratizzazione? Il problema non riguarda soltanto le Nazioni Unite, ma riguarda tutti gli Organismi internazionali, quelli commerciali e così via. Riguarda la Comunità Europea, che potrebbe essere il grande esempio di un organismo sovrastatale, sovranazionale dotato di effettiva sovranità e anche di una certa legittimazione democratica. Ma ha una strada lunga ancora da percorrere: al momento è un coacervo un po’ anarchico di diverse tendenze. Alla fine di questo processo cosa ci sarà? Lo Stato mondiale? Questa è un’idea che circola da due secoli a questa parte nella testa di noi europei, l’idea dello Stato mondiale. Al momento, se mai ci si arriverà, ci si arriverà probabilmente attraverso una forma di egemonia imperiale, ancora dettata sostanzialmente da Stati nazionali, ma di dimensioni imperiali. Quello che è certo è che occorre ricostruire un diritto internazionale. Il vecchio diritto internazionale, che era sostanzialmente il prodotto di patti, di accordi, tra Stati nazionali in quanto tali, non può più funzionare oggi. Questi Stati nazionali sono in crisi, quindi il diritto internazionale non può più essere il prodotto dell’autonomia, della sovranità intoccabile dei diversi Stati. Bisogna trovare una sede nella quale i diversi Stati consapevolmente arretrino nelle loro pretese di sovranità, gestendo e governando comunque la transizione che prima ricordavo e definiscano nuove norme, nuove regole internazionali. Questo è soprattutto decisivo in campo finanziario, industriale ed economico. Perché altrimenti la cosiddetta new economy, la globalizzazione, sarà il Far West. E al momento non è stato fatto, ritengo, neppure il primo passo in questa direzione. Abbiamo ancora uno spettro di diritto internazionale che era il prodotto dei vecchi Stati e che quindi non ledeva in alcun modo la loro sovranità. Oggi abbiamo un grande problema di un diritto internazionale che incida effettivamente sulla sovranità di diversi stati. In particolare in materia economica, in materia di scambi commerciali, in materia finanziaria. Su questo con difficoltà già si procede. C’è anche il grande esempio delle produzioni ecocompatibili. Ma io credo che in quella direzione faticosamente si procederà. Dove sarà la grande difficoltà, la grande resistenza? In materia di scambi commerciali, tecnologici, di rapporti industriali, finanziari, controllo finanziario. Lì sarà la grande querelle”.

14) Rai Educational: “La ‘resistenza degli Stati nazionali’ è una figura in qualche modo retorica, la vedo un po’ come un argine all’esplosione dei particolarismi, dei localismi, che potrebbero essere, che sono già oggi, una reazione piuttosto forte al processo di globalizzazione. E un’ultima cosa. Nel mondo dell’arte, anch’esso investito evidentemente da questa dinamica globale locale, si parla di “glocalismo”, una crasi che viene dall’inglese. È una metafora che si può applicare anche alla politica?”.
“Gli Stati nazionali, nella loro forse benemerita opera di resistenza, impediscono che l’esplosione dei processi di globalizzazione produca come contraccolpo paure, disagi, inquietudini che a loro volta generano arroccamenti locali, meccanismi identitari ferocemente egoistici. Tutta la fenomenologia ricchissima che abbiamo, a questo proposito negli ultimi dieci, quindici anni, è l’evidente effetto di un processo di globalizzazione non regolato, non governato che quindi spaventa, terrorizza, inquieta, fa paura: manca la terra sotto i piedi. Soprattutto le persone più deboli culturalmente, economicamente, avvertono un fenomeno di sradicamento. Naturalmente gli Stati nazionali devono essere attentissimi a questo fenomeno, perché questo fenomeno può provocare un contraccolpo che, alla lunga, se non è governato, può mettere in discussione lo stesso processo di globalizzazione. E certamente mette in discussione la possibilità di svolgerlo in una chiave democratico-progressiva, come quella che forse ho sognato parlandone prima. Gli Stati nazionali svolgono esattamente la funzione di rendere il globale quanto più possibile locale e il locale globale. Potrebbero svolgere questa funzione di mediazione creando un contesto appunto “glocale”, secondo questo tremendo termine che è stato inventato, diffuso, ma che rende l’idea. Devono, da un lato, essere consapevoli che il livello politico statuale è in irreversibile crisi, e quindi resistere sì ma per dismettere in modo razionale vette sempre crescenti di sovranità senza creare quei contraccolpi. E nello stesso tempo mediare costantemente, riconoscere le istanze locali e mediarle a questa idea di globale. È un’operazione estremamente difficile. Bisogna esserne molto consapevoli, è facile forse a definirla, a immaginarla ma a farla è di enorme difficoltà. Per cui corriamo veramente il rischio che poi il bob procede impazzito, sbattendo da destra a sinistra: una volta esaltando il locale quando il locale urge, quando il locale viene spazzato via dal processo di globalizzazione schiacciarsi sul globale e procedere così; sbattendo a destra e a sinistra, come un bob impazzito. Questo è il rischio che le politiche, in particolare europee, stanno correndo”.

INTERVISTA A MASSIMO CACCIARIultima modifica: 2008-07-23T15:38:00+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo