gianandrea Franchi,Prendersi cura di sè

1887873444.jpgIL siintagma “prendersi cura di sé” è la sintesi della lettura di una concezione della Grecia antica (epimélesthai eautòu), resa nota soprattutto dalla ricerca e dalla meditazione dell’ultimo Foucault[1]. Prendersi cura di se stessi era per il Socrate platonico[2] il gesto originario della politica. La cura di sé sfociava infatti nella cura della pòlis attraverso alcuni passaggi essenziali: dalla cura dell’anima – il principio della soggettività, intesa come capacità di agire nel mondo – alla cura della giustizia. Conclude Alcibiade rivolto a Socrate: “[…] voglio incominciare da ora a curarmi (epimélesthai) della giustizia” (135 E).

Ma è noto che “partire da sé” è un postulato fondamentale del pensiero politico delle donne. Si tratta di una cura di sé e degli altri dallo spessore politico, sociale e storico a mio parere più pregnante della pur influente impostazione di Foucault[3].

In tale più ampio contesto, la cura di sé può assumere pienamente alla politica l’intero spessore della parola “cura”, con il suo rimando alla cura degli infanti e più in generale dei vulnerabili, inverando e concretizzando l’epimélesthai antico (e magari anche la Sorge di uno dei più importanti testi filosofici del Novecento) proprio come cura della giustizia, della relazione giusta, che sia quella primordiale del parens[4] con l’infante o della relazione di lavoro, sociale od altro ancora. “Cura di sé” può aiutarci a pensare il gesto fondante della costruzione, processuale, mai definitiva, di soggettività quale relazione intersoggettiva cui il soggetto stesso non preesiste. In questo senso, si può considerare la cura di sé alla base di ogni attività creativa, ovvero di produzione di nuove forme di relazione.

Ma che cosa vuol dire “sé”? Lo dice la parola stessa: il pronome personale riflessivo, che indica la soggettività – la capacità di enunciare «io» – come effetto del giungere a sé, più esattamente del ritornare su di sé in quanto riflesso da altro, da una superficie riflettente: in tal movimento di riflessione, il sé – la coscienza – si costituisce.

Ciò avviene per le prime volte nel corso dell’infanzia attraverso il gioco (secondo Winnicott[5], che se ne intendeva). Un bambino che non riesce a giocare sarà un adulto incapace di essere se stesso, ovvero incapace di curarsi di sé. Ciò vuol dire una vita prevalentemente affidata a quegli automatismi d’identificazione in cui ben presto e necessariamente, anche per opera della poderosa spinta della sopravvivenza, la soggettività si sclerotizza.

Il gioco infantile è un impossessamento attivo del mondo che è insieme trovato e prodotto: produzione di sé come essere nel mondo. Ma questo può avvenire se gli adulti che si curano del bambino preparano il circuito virtuoso della riflessione, ponendosi come amorosa superficie di riflessione degli inconsapevoli atti vitali dell’infante. Il gioco allora sarà un metter in forma se stessi e il mondo, se stessi nel mondo, il mondo come altro da sé e sé come altro dal mondo in un reciproco rimando, in quanto il dar forma (einbilden), implica il tracciare un confine che, separando, unisce: non c’è forma che non si stagli, separandovisi, su di uno sfondo. Ma senza sfondo, di contro a cui stagliarsi, non c’è forma. Il gioco, che avviene tra la forma e l’informe, padroneggia l’angoscia del dissolvimento (nello sfondo indifferenziato o nell’alterità minacciosa in quanto tale), insegnando che è il rischio inevitabile del dar(si) forma. Il gioco relazione con sé e con l’altro, nell’implicazione reciproca: sé come altro e altro come sé.

Se il gioco padroneggia o tenta di padroneggiare l’angoscia, nello stesso tempo dà piacere e gioia in quanto è un processo di autocostruzione, che è un altro nome del dar forma, della forma-azione. E’ il procedimento dell’accesso alle forme, all’insieme delle forme o mondo e di separazione dall’informe. E’ l’atto in cui le forme sorgono e vengono accolte[6]. E’ il processo di formazione di quell’attività costruttiva di soggettività nel passaggio “interno/esterno” così difficile da definire e così importante messa in luce soprattutto dalla psicoanalisi che chiamiamo immaginario.

Se l’angoscia riguarda essenzialmente il vuoto che si annida nell’irreversibilità temporale, il gioco è allora un modo di dar forma al tempo, connettendo l’immediatezza tendenzialmente distruttiva di passato-presente-futuro.

Credo che sia un’acquisizione importante, su cui ha insistito a modo suo la psicanalisi, quella espressa lapidariamente da Rimbaud: “io è un altro”, qui letta nel senso che l’io non preesiste al rapporto con gli altri, per cui una permanente tensione agisce tra “io” e “sé”, poli incoincidenti del soggetto, di cui è figurazione presso i Greci la concezione socratica del dàimon. Il sé non è intimità separata ma effetto di molteplici incontri, centro di relazioni, soglia di differenze, superficie di contatti e rimandi, che si costituisce in un continuo va e vieni tra chi inizialmente è solo o poco più di un individuo biologico, di un organismo di bisogni, e l’“altro”, gli altri. E’ questa autopercezione che instaura il soggetto sull’individuo vivente. La percezione di sé è l’effetto del riconoscimento degli altri, e del ritorno su di loro di tale riconoscimento, senza del quale non v’è soggettività.

“Prendersi cura di sé” e “prendersi cura degli altri” hanno allora un collegamento radicale che permette il passaggio dall’una all’altra senza coazione o autocoazione doverosa o sacrificale, nella misura in cui si comprende che l’autentica cura di sé implica la cura degli altri e viceversa – come chiunque, almeno implicitamente, in certi momenti può avvertire – perché il ‘sé’ non è che il punto di conversione in cui il flusso del rapporto con gli altri s’inverte da “esterno” (con gli altri) in “interno” (con sé). La cura degli altri, allora, non è più questione di “egoismo” e di “altruismo”, né il “sé” e l’ ”altro” si confondono in un tutto indistinto, ma, mantenendo ferma, anzi esaltando, la differenza tra “sé” e “altro”, la cura agisce come operatrice del passaggio, del via vai, in cui nascono, crescono e si estendono le relazioni.

Ciò che chiamiamo ‘attività artistica’, nella sua essenza ed entro i suoi limiti costitutivi, esprime perfettamente questo modo d’essere in cui il dare è ricevere e il ricevere è dare. L’arte, non fa dunque altro che esaltare e portare all’evidenza, a seconda delle evenienze di un certo medium corporeo (cioè sensibile), la dimensione universale del sé. L’artista, se è tale, si prende cura di sé nella misura in cui riesce a prendersi cura degli altri.

Quando la relazione tra soggetti nella loro singolarità si mostra universale concretamente, corporalmente, attraverso suoni, colori, parole e qualunque altro materiale trasformato in medium, il soggetto si fa riconoscere come un nuovo punto di vista sul mondo, una componente del mondo valida per tutti, che non si contrappone ma si pone, non toglie ma dà un di più di essere per tutti. Diviene allora un singolare universale, cioè unico, insostituibile, irriducibile. Il sé non agisce più come il centro di un interesse particolare opposto ad altri interessi particolari, non è più in funzione di qualcosa, strumento per qualcosa, ma è fine a se stesso nella precisa misura in cui è per altri.

Che la soggettività nel suo proprium (che chiamo singolarità) possa non essere contrapposto concorrenzialmente o separato per indifferenza dagli altri soggetti ma, al contrario, sia relazione e nient’altro che relazione è ben mostrato dall’«arte». Nell’attività artistica la relazione intersoggettiva appare fine a se stessa, non funzione di qualcos’altro: un’opera d’arte non è altro che la fissazione, con mezzi opportuni, di un incontro che vale in quanto tale.

Ma questa “fissazione” nell’opera è la croce dell’arte, per cui la relazione viene crocifissa, fissata in un’opera compiuta, conclusa, che rimanda ad un Autore, mentre l’interlocutore diventa spettatore, fruitore subalterno dell’opera del genio creatore[7]. La dinamica storico-sociale della benjaminiana perdita dell’aura ha ridotto l’arte ad attività produttrice di opere di proprietà di un autore, preparando rapidamente il passaggio all’opera d’arte come merce, distinta dalle altre solo in quanto prodotto artigianale più raro: tra la merce corrente – il detersivo o l’elettrodomestico – e la merce “opera d’arte”, c’è il campo delle merci di “qualità”, come la moda, gli oggetti di design, eccetera

Se cura di sé è cura degli altri, anche il potere è una modalità di cura degli altri, come ricordano ancora le ricerche di Foucault sul potere pastorale e sul cosiddetto biopotere. Tradizionalmente, infatti, il potere si radica nella patria potestas, nel potere del padre di famiglia su moglie e figli.

Questo aiuta a capire il grande fenomeno novecentesco dell’estetizzazione del potere e della politica. E’ interessante il fatto che l’estetizzazione della politica sia stato un fenomeno prevalentemente di destra – fascismo, nazismo – per la consapevolezza che la destra novecentesca ha avuto dell’importanza dell’immaginario[8] ai fini del controllo delle masse (Mussolini l’aveva imparato da Sorel e D’Annunzio). La sinistra, invece, ha sempre considerato la dimensione estetica ed immaginale in termini strumentali, “propagandistici”, per via della sua origine culturale razionalistica, come si coglie n fondo anche in un grande intellettuale ed artista quale Brecht.

Come detto all’inizio, la cura di sé, non separabile dalla cura degli altri, ha ricevuto un pieno significato politico, che vuol dire pienamente e non solo parzialmente relazionale, a partire dagli anni intorno al Sessantotto, dalla politica delle donne, in cui gli elementi “estetici”, emotivi, corporei, non sono né marginali o funzionali, né estetizzanti, ma pienamente espressivi, in base al presupposto che la politica debba essere anche intrinsecamente “espressiva”.

Scriveva negli anni Settanta Carla Lonzi, pensatrice femminista inaugurale, che “nella cultura maschile e nei suoi derivati al femminile nessuno capisce niente dell’espressione di sé in quanto tale”[9] e che non è facile per le donne “esprimere” se stesse “una volta vincolate a una concezione del mondo. Prendiamo le donne marxiste, per esempio, di cui l’ideologia e l’attualità politica hanno fatto strage.” E citava ad esempio il seguente passo di una lettera di Rosa Luxemburg a Leo Jogiches:

Caro!, […] Ieri sera, per uno strano concorso di circostanze, ho tirato fuori la scatola con le ultime lettere di mamma e di papà, di Andzia e di Jozio – le ho lette tutte, ho pianto dirottamente fino ad avere gli occhi gonfi, e sono andata a letto con un grande desiderio di non svegliarmi più. In particolare sono arrivata ad odiare tutta la “politica” per colpa della quale (scribacchiavo von Stufe zu Stufe) non rispondevo per intere settimane alle lettere di papà e di mamma, non avevo mai tempo per loro a causa di questi compiti miranti a sconvolgere il mondo, (e questo perdura) e sono arrivata ad odiare anche te come colui che mi ha sempre inchiodata a questa maledetta politica. Mi sono ricordata che sei stato tu a persuadermi di non far venire la signora Lübeck a Weggis, perché non mi disturbasse mentre stavo finendo “l’articolo di valore storico” per i Monatshefte – e lei mi portava la notizia della morte di mamma! Vedi con quale schiettezza ti scrivo tutto. Oggi ho fatto due passi al sole e mi sento un po’ meglio. Ieri ero quasi decisa ad abbandonare “di colpo” tutta questa “dannata politica” o piuttosto questa parodia cruenta della vita “politica” che conduciamo e a “mandare al diavolo tutto il mondo”. E’ una specie di stupido culto al di Baal e nient’altro, in cui si sacrifica l’esistenza umana sull’altare della propria deficienza intellettuale, della propria confusione mentale. Se credessi in Dio sarei sicura che Dio ci punirebbe severamente per questo tormento.
Berlino – Friedenau, 20 ottobre 1905[10]

Qui si legge con chiarezza il contrasto netto e doloroso fra una concezione marxista e patriarcale della politica (“stupido culto di Baal”) e una dimensione femminile che non riesce ancora a pensarsi politicamente. Oggi, questo frammento dell’epistolario di uno dei più importanti dirigenti (uso volutamente il maschile) del movimento comunista, citato in un testo politico femminista posteriore di settant’anni, indica ancora un percorso da fare. A me sembra ineludibile.

[1] Cfr. M. Foucault, L’herméneutique du sujet, Cours au Collège de France, 1981-1982, Gallimard Seuil, Paris 2001; Tecnologie del sé, Bollati Boringhieri, Torino 1992.

[2] Il punto di partenza della ricerca è l’ Alcibiade maggiore di Platone.

[3] Da Pierre Hadot qualificata di dandismo. Cfr. Pierre Hadot, La filosofia come modo di vivere, Einaudi, Torino 2008, p. 183.

[4] Parens si riferisce ad entrambi i genitori, ma deriva da pario che ovviamente non può che riferirsi alla madre.

[5] Cfr. D. W. Winnicott, Gioco e realtà, Armando, Roma 1974. Il gioco infantile è playing distinto da game, gioco con regole fisse. Altri sostenitori dell’importanza del gioco, oltre a J. Huizinga (Homo ludens, 1956), sono stati Eugen Fink, allievo di Heidegger (che si è pure occupato del tema a partire dal celebre frammento 52 di Eraclito), Il gioco come simbolo del mondo (Spiel als Weltsymbol), Lerici, Roma 1969; e il più noto Wittgenstein nella sua concezione dei giochi linguistici. Naturalmente nei tre autori il significato della parola cambia ma conserva l’elemento della creatività e dell’apertura al e del mondo. Scrive Fink: “Essendo aperti al mondo ed essendo in tale apertura dell’esistenza umana al mondo una conoscenza dell’infondatezza del tutto governante, possiamo, in fondo, giocare. Essendo ‘umano’, l’uomo è un giocatore”, op. cit. p. 301.

[6] Da ricordare che ogni ‘immagine’ è una ‘forma’, anche se la seconda può non essere legata alla visione, come ‘forma musicale’, forma come ‘legge’, ‘regola’.

[7] Prima del romanticismo ciò che è poi diventato “arte” era mezzo d’affermazione e/o di svago dei potenti e, prima ancora, affermazione e comunicazione religiosa e base dell’immaginario religioso dominante.

[8] Bataille, com’è noto, si è molto interessato alla presa fascista sull’immaginario di massa.

[9] Cfr. Carla Lonzi”Mito della proposta culturale” in la presenza dell’uomo nel femminismo, edizioni di Rivolta Femminile, Milano 1978, p. 146.

[10] Cfr. Carla Lonzi, Itinerario di riflessioni in AA. VV., E’ già politica, Scritti di Rivolta Femminile Roma 1977, pp. 37-38. Cfr. anche Rosa Luxemburg, Lettres à Léon Jogichès 1894-1914, Denoël, Paris 2001, pp. 503-504.

gianandrea Franchi,Prendersi cura di sèultima modifica: 2008-08-03T17:11:00+02:00da mangano1
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2 pensieri su “gianandrea Franchi,Prendersi cura di sè

  1. QUESTO SCRITTO E ANCHE QUELLI PRECEDENTI E’ DI GRANDE PORTATA TEORICA E METODOLOGICA, SPERO VIVAMENTE CHE CI SIANO COMMENTI E INTERPRETAZIONI, IO RICORDO IL PUNTO CHIAVE

    “Prendersi cura di sé” e “prendersi cura degli altri” hanno allora un collegamento radicale che permette il passaggio dall’una all’altra senza coazione o autocoazione doverosa o sacrificale, nella misura in cui si comprende che l’autentica cura di sé implica la cura degli altri e viceversa – come chiunque, almeno implicitamente, in certi momenti può avvertire

  2. “Prendersi cura di sè” e “prendersi cura degli altri”, certo, un binomio filosofico che ‘mette alla prova’ e seduce. Ritroviamo qui, mi pare – in questa coppia di assiomi -, la radice ‘ultima’ del colloquio di Simon con Klara: “Non dò gran valore alla mia vita, ma solo alla vita degli altri, e ciò nonostante amo la vita…(…), e così mi dono a te perchè non so un dono migliore…”. La vita è data a Simon, come a tutti noi, per essere spesa e data in ‘dono’, poichè solo donando si vive “in eterno”. Attraverso ‘il darsi’ dura, così, anche la memoria di noi (possibili) donatori.
    Dunque, il ‘prendersi cura’ consiste nel consumare e consumarsi donandosi. Utopia di un rapporto inesperibile? Certo, oggi, si avverte con dolorosa acutezza questa ‘inattualità’, ma certo questa possibile esperienza verrà ‘compresa’ solo da chi saprà “porgerle la mano” e
    “proverà a dirla”; Liederzyklus che oggi si aggira ancora tra (i pochi)
    “uomini postumi”.

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