M.Rosa Cutrufelli, Identità, parola che riscalda

da LIBERAZIONE, 9 agosto 2008Maria Rosa CutrufelliDice una vecchia poesia di Wim Wenders: «Identità/ parola che riscalda/ al solo pronunciarla/ Ha un gusto di quiete/ di appagamento e pacatezza»( a proposito dei romanzi di B.Traven)Dice una vecchia poesia di Wim Wenders: «Identità/ parola che riscalda/ al solo pronunciarla/ Ha un gusto di quiete/ di appagamento e pacatezza».Vero: si tratta senza dubbio di una parola incandescente. Ma il suo calore oggi non appaga più e non dà affatto quiete. Al contrario suscita apprensione, contigua com’è a quell’altra parola foriera di assai concreti turbamenti: identificazione. L’identificazione è diventata purtroppo una pratica ossessiva – e ben poco innocente – del mondo contemporaneo. Una pratica (così ci dicono filosofi e pensatori) necessaria all’Ordine Mondiale per il controllo dei corpi e degli individui. Avere un’identità (e relativa carta che lo comprovi: sogno supremo di tutti i clandestini) è un “obbligo” moderno. E in questo senso l’identità, alla fine, non risulta essere altro che la risposta “obbligata” alla domanda “obbligatoria”: chi sei?, nient’altro che una casella da sbarrare fra le risposte pre-definite alla domanda imposta dall’ordine sociale: chi sei?Sui mali dell’identità per obbligo è stato scritto (e pubblicato nel 1926) un grandissimo, eccezionale romanzo, che tutti oggi dovrebbero leggere perché mostra con rara potenza come l’identità sia, nel nostro tempo, «un corridoio senza finestre e senza uscite». Il romanzo s’intitola La nave morta e l’autore è B. Traven – o almeno così si firma, perché l’uomo è misterioso assai. E, anzi, prima di parlare del libro vale la pena dare due notizie, per l’appunto, sull’autore. Che una volta scrisse: «La mia vita personale non deluderebbe i lettori…». Ma se, invece di soddisfare la curiosità del pubblico, si nascose sempre dietro false identità e pseudonimi (Ret Marut, Bruno Marhut, Hal Croves, Otto Feige, per dirne alcuni) non fu per vezzo letterario. Non si trattava di un gioco concordato con gli editori per stimolare l’interesse degli acquirenti, ma di una dura necessità. B. Traven (chiamiamolo col nome con cui firmò i suoi romanzi) era infatti un rivoluzionario tedesco (o polacco, immigrato in Germania) che partecipò alla gloriosa, breve stagione della Repubblica di Weimar. Finita tragicamente, come sappiamo. Traven (che allora si faceva chiamare Marut, per rinnegare forse una discendenza – illegittima – dal Kaiser Guglielmo II) viene arrestato, ma riesce a evadere e, dopo aver attraversato da clandestino l’intero continente europeo, s’imbarca per l’America. Da lì si sposterà in Messico, dove parteciperà a tutte le rivoluzioni del momento e dove vivrà insieme agli indios del Chiapas (uomini senza nome nella loro stessa terra). La clandestinità di Traven resta sempre e in ogni caso un dato immutabile: una condizione obbligata, all’inizio. Poi una difesa necessaria. Che, alla fine, si trasforma in stile di vita. Una cortina protettiva che non si solleva nemmeno quando il suo romanzo Il tesoro della Sierra Madre diventa un successo internazionale e viene portato sul grande schermo da John Huston (interprete, uno straordinario Humphrey Bogart). In conclusione, l’unica cosa che sappiamo con certezza di questo autore è la sua appartenenza al genere maschile. D’altronde il mondo che ci presenta nei suoi libri è un mondo di scorribande e avventure totalmente, completamente, direi quasi “inevitabilmente” maschili. Sono uomini – e uomini soli – i suoi clandestini, i suoi marinai, i suoi cercatori d’oro, i suoi vagabondi senza patria e senza identità. E’ un uomo solo il marinaio protagonista della Nave morta .E torniamo a questo romanzo, uno dei capolavori assoluti del Novecento per saldezza d’impianto narrativo e per ispirazione. Ci sono romanzi che, pur narrando il loro “oggi”, diventano profezie. Libri che trascendono il loro tempo e disegnano, con pietà e crudele, visionaria precisione, le inquietanti rotte che l’umanità si accinge a percorrere. La nave morta è uno di questi.La trama si può riassumere in pochi paragrafi: un marinaio americano scende ad Anversa «per farsi una scorpacciata d’aria di porto prima di tornarsene al paese benedetto dal proibizionismo». Si ferma ad amoreggiare con una prostituta che, quando lui tenta di ritornare a bordo, gli dice «con la sua dolce bocca ridente»: «Oh, tu bel marinaio della grande e bella terra d’America, sarai cavaliere, non è vero? Non lascerai una piccola signora sola e indifesa nella sua stanza a mezzanotte…». Cosa può fare a questo punto «un marinaio di buon sangue» che fin da bambino si è sentito ripetere la seguente storia: «Se una signora ti chiede qualcosa, fa’ subito quel che ti dice, dovesse costarti la vita. Ricordati che ogni donna è una buona madre o potrà esserlo un giorno». Che altro può fare, allora, quel marinaio? Resta. E la mattina dopo ecco che la nave è partita con tutti i suoi documenti, rimasti a bordo. Il marinaio-cavaliere non può certificare nemmeno la sua stessa “esistenza”, dato che l’America è un paese giovane, pieno di immigrati che spesso non registrano le nascite e può perfino capitare che le madri non sappiano dove vadano a finire i figli e viceversa. Come che sia, il nostro marinaio prova a presentarsi al console americano, che gli obietta, con logica ineccepibile: «Per quanto possa sembrarvi sciocco, io dubito della vostra nascita sino a quando non avrete un atto di nascita. Il fatto che stiate seduto davanti a me non è una prova della vostra nascita. Ufficialmente, voglio dire». Insomma, perdendo i suoi documenti il marinaio perde anche se stesso. Da quel momento verrà sbattuto di qua e di là, di paese in paese, perché in Europa «ognuno protegge la propria gente. L’internazionalismo è una parola che fa bella figura, stampata su una scatola di sapone…». Ma Germania, Francia, Spagna sono paesi civili ed è civile quel paese «dove si manda in prigione un uomo che si addormenta all’aperto senza indossare l’abito da sera». In altre parole: che ognuno se ne stia con la sua tribù. Questo è l’imperativo, ovunque. «Statevene con la vostra tribù: i capi hanno bisogno di voi. Se per un motivo o per l’altro non potete farne parte, siete un fuorilegge. Non potete stare nemmeno con i cani di quella tribù. Avete documenti di riconoscimento? no? Andate via e state fuori dai piedi: ne abbiamo abbastanza di gente come voi, capito?» E i poliziotti (francesi, spagnoli…) gli comunicano: avete tempo quindici giorni per andarvene. «Se, scaduti quei quindici giorni, mi avessero trovato ancora lì, la legge si sarebbe occupata di me e senza guanti gialli. Non mi dissero però che cosa stabilisse la legge. Forse, la deportazione a vita nell’Isola del Diavolo. Tutte le epoche hanno la loro inquisizione. La nostra ha il passaporto, che sostituisce le torture dei tempi medievali».Nel frattempo, in ogni modo, bisogna mangiare. E per mangiare bisogna trovare un lavoro. E l’unico lavoro che il nostro clandestino riesce a trovare è un ingaggio su navi anch’esse per molti versi “clandestine”, barcacce senza documenti impegnate in traffici illegali. (E la vita dentro quelle stive, sia detto per inciso, assomiglia molto alla vita che sono costretti a fare, ai giorni nostri, certi immigrati cinesi in certe fabbriche più o meno clandestine…) Ma dice una vecchia canzone marinara che «non c’è nave così disgraziata che non ce ne possa essere un’altra ancora più disgraziata». Difatti il nostro marinaio viene imbarcato a forza sopra una “nave morta”: una di quelle imbarcazioni che raccolgono uomini senza nome, uno di quegli scafi che tutti sanno destinati ad affondare perché l’armatore possa riscuotere una ricca polizza d’assicurazione.E inevitabilmente la “nave morta” affonda. Il marinaio si ritrova sopra una zattera in mezzo all’oceano insieme al suo compagno e amico polacco. Che, d’un tratto, impazzisce.«Si gettò in acqua. Niente sponda di fiume. Niente porto. Niente nave. Niente terra. Niente altro che il mare: e le onde che rotolavano da un orizzonte all’altro, baciando il cielo e splendendo come specchi di astri sommersi. Fece qualche bracciata senza una direzione precisa. Poi levò le braccia in alto e sparì nel profondo silenzio. Guardai il punto dove si era inabissato: lo fissai a lungo. Lo vedevo da una distanza infinita… E, cosa strana, non si gonfiò. Altrimenti sarebbe venuto a galla. Non riuscivo a capire. Si era imbarcato per un gran viaggio. Per un lunghissimo viaggio. Non riuscivo a capire. Come può aver firmato? Non ha libretto né altri documenti. Lo cacceranno via subito. E invece non tornò. Il Gran Capitano lo aveva imbarcato, lo aveva preso con sé senza documenti».Ah sì, grande, eccelso narratore questo Traven, o comunque si chiamasse. E’ un vero delitto che anche i suoi romanzi siano finiti nella “nave morta” dell’editoria italiana (e non solo). Sarebbe bello se riuscissimo a sottrarre almeno la sua opera a un destino di “clandestinità”.

M.Rosa Cutrufelli, Identità, parola che riscaldaultima modifica: 2008-08-09T12:41:58+02:00da mangano1
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