Stefano Colangelo, Landolfi il giocatore d’azzardo

Da Il manifesto del 09 Agosto 2008STEFANO COLANGELOIl principe FELICERicorre oggi il centenario della nascita dello scrittore Tommaso Landolfi. Un «giocatore d’azzardo» come pochi altri capace di lanciare una sfida all’inerzia delle parole LANDOLFI, GENIO INUTILE MA ESTREMOTommaso Landolfi, cent’anni oggi, è stato un narratore di illusione e delusione. Le ombre romantiche, le figure di strega, i bestiari da fiaba, i resti di un immaginario tradizionalmente ipnotizzato e soffuso gli sono arrivati in forma di corpi inermi, di macerie scomposte. La sua mano, un po’ crudele e un po’ pietosa, li ha raccolti e li ha accostati alla superficie di metallo gelido di una tavola radiografica. Li ha vagliati, studiati con cura. Niente è nato per denuncia, niente per esercizio, si direbbe, di realismo. Scene espressionistePrima c’erano Hoffmann e Chamisso, poi le «disperate e sgomentevoli composizioni» dei racconti di Gogol. Così li definiva Landolfi in margine alla sua traduzione del 1941, riedita negli Scrittori tradotti da scrittori di Einaudi nel 1984. Di lì si è sviluppata un’interrogazione ossessiva dell’opera, dei rapporti di forza che la sostenevano dall’interno; e infine, dopo l’opera, l’esame è toccato all’autore stesso, preso nella ricerca della forma. A Landolfi le parole «pullulano sotto le mani», provocatrici e vittime, al tempo stesso, di una pulsione violenta. Ecco la voce del narratore, di fronte alla Maria Giuseppa che dà il nome ad un racconto del 1929: «mi sembrava di aver bisogno di farla muovere, di toglierla dal suo canale. Come si dice questo? Mi pareva di vederla incanalata, con tutte le sue energie». Maria Giuseppa è vittima di una scena espressionista, dotata però di un nome da burlesque, come anche poi Giovancarlo, nella Pietra lunare, o l’avvocato Coracaglina nel Mar delle Blatte: la personificazione, della stessa parola scritta, della necessità fisica del raccontare o l’attrattiva segreta, il dispositivo da sollecitare per rendere sopportabile il tempo lungo della disperazione. Scacciata infine, e persino violentata, quella Maria Giuseppa riempie il vuoto lasciato dal rimorso, con una certa inspiegabile ossessione di santità. Torna ancora, infatti, nelle Ombre del 1954, in quella «vera storia» che ben rappresenta – un esempio fra tanti, in Landolfi – la pratica leopardiana della palinodia e dell’autocommento. Scuotere la scrittura significa imprigionare la fuga delle parole, interrogarne la pigrizia, combattere con esse corpo a corpo, dominandone la superficie e il movimento: in un celebre divertissement incluso nel Paniere di chiocciole del 1968 le parole scappano da un tubetto di dentifricio; si ribellano, litigano tra loro, finché il narratore non riesce ad infilarle nel collo di una bottiglia, attribuendo a ciascuna di esse un nuovo significato. Ma le parole, escluso il padrone dal loro gioco, si fanno aspettare al varco, un po’ come succede alle rime -le «pinzochere», i ferri del mestiere -con l’«io» poetico di Montale. E la lotta ricomincia. Tra l’animale e l’umanoVolentieri la prosa di Landolfi, così tesa tra illusione e delusione, affida il giudizio a una figura straniera, a un’alterità impreveduta e incomprensibile. Nella Piccola apocalisse si tratta di una donna bionda, un’apparizione degna della Nasten’ka delle Notti bianche, ma senza più l’empatia del paesaggio pietroburghese a reggere il quadro, una creatura sconosciuta, che porta il narratore attraverso una teoria di apparati visionari, dei quali spiega con attenta diligenza, volta per volta, il senso allegorico. Il tono del dialogo è iniziatico, come nella Notte di Dino Campana o nella Sirena di Lampedusa: ma di un’iniziazione, qui, fatalmente non del tutto colta, non condivisa. La figura di passaggio, verso il sorgere dell’alba, si immerge nel fango e scompare: niente si è rivelato, niente è compiuto. La storia stessa è il risultato di un piano di lavoro non finito e di «infruttuosi tormenti». L’allegoria, come altrove in Landolfi, abbandona la narrazione trasognata, il gioco interno -l’illusione, appunto -sciogliendole nella cornice di un racconto nel racconto. Il narratore scopre le carte, costruendo intorno alla propria visione un meccanismo di straniamento. La visione stessa è allontanata, incorniciata, fissata attraverso la piccola finestra di un voyeur, il quale, dal canto suo, resta escluso e profondamente eccitato, insieme, da ciò che sta vedendo. Accade proprio così, nella Pietra lunare: l’oggetto della visione è una ragazza dagli inquietanti piedi di capra e dagli occhi di una «profonda malinconia, quasi connaturale come quella di certe bestie». Un’iniziata, anche lei: la sacerdotessa di un rituale selvatico. Gurù – così si chiama, la «lunare» sconosciuta -è innanzitutto un corpo, testimone di illusioni e di favole antiche. Un corpo che costituisce, come altrove in Landolfi, il luogo di passaggio tra realtà e surrealtà, tra l’umano e l’animale: «dove precisamente, cioè in quale punto del suo corpo, cessava la fanciulla d’esser donna per mutarsi in capra?». Da questa domanda nasce l’ossessione del dover guardare, sempre più da vicino, Gurù e i suoi movimenti: quel corpo che sente su di sé il tempo, la stagione, la lunazione; quel corpo sul quale le illusioni si sedimentano e in qualche modo, in segreto, sopravvivono come caratteri personali e indelebili. Un corpo, si potrebbe dire, respinto da un conflitto con la quotidianità collettiva: «ma tu perché non ci vai alla chiesa? Non so – rispose – mi pare che quello non sia il mio posto. Che quelli di là dentro, i santi e gli altri, non mi vogliano bene». I luoghi dell’esilioIl corpo, nei personaggi di Landolfi, è inciso dal dolore, tiene per sé ogni traccia dell’impulso ferino e irrazionale da cui si è formato. Il narratore ne segue le trasformazioni, gli snodi, le curve oscure, come in un itinerario digressivo: ciò che Savinio compie sul paesaggio e sulle sue memorie – una lettura di piccoli segnali, di svolte, di argomenti di significato -Landolfi lo affida al corpo. Così, quando Gurù si ritrova palesemente trasformata nella sua natura lunare, animale, come di sirena, è proprio attraverso il suo corpo che si rivela un complesso mondo notturno, popolato di luoghi e nomi impervi, di esiliati e di briganti. Le illusioni riprendono vita e il passato si riscrive. Il motivo di un corpo come luogo da esplorare e decifrare, come repertorio che serba in sé visioni e idee, è connessa ad un altro motivo dominante in Landolfi: quel «tema della pietà che serpeggia quasi o del tutto inavvertito – parole d’autore, in Rien va, 1963 -in ogni mio scritto e che è infatti uno dei miei fondamentali, benché mai affrontato francamente». E se è vero che l’opera di Landolfi costituisce di per sé un territorio ricco di tracce, da rivedere ad anni di distanza in nuove pagine esplorative, non stupisce che Rien va torni frequentemente a ciò che è già stato scritto: in questo caso all’Eterna provincia, compresa nella raccolta In società del 1962: «una storia d’uomo con gamba di legno, che perciò odia le donne e vuol vendicarsi di loro». Ancora la logica del racconto si appella al corpo, si registra in una deformazione o in una mancanza rintracciabile nella fisionomia. Nasce qui, dalla singolarità di un rapporto amoroso, un genere di pietà «che non serve a nulla»: un sentimento accessorio, un vaneggiamento, una debolezza, che può assicurare tuttavia due finalità: da un lato, non assoggettare il racconto ad una conclusione morale unitaria; dall’altro, fare a meno di ogni ipotesi di verisimiglianza espressiva. Il racconto landolfiano si presenta, infatti, come una «divagazione sensibile». Il narratore, cioè, rinuncia alla continuità chiusa del romanzo, e svolge il nodo di una cornice metanarrativa, o di un taccuino, di uno schizzo o di un diario. Landolfi dilata così la distanza da Moravia e da Pavese, muovendosi precocemente in direzione Calvino. In altri casi, invece, è al corpo che il tema della pietà ritorna, come nell’horror dal titolo Mani, compreso nel Dialogo dei massimi sistemi (1937), in cuicarne e sangue del cadavere di un topo suscitano e comprendono tutta la pietà più generale, quella per gli esseri viventi e per la cecità del loro dolore. La follia del giocatoreQui la pietà attraversa lo schifo, l’orrido, supera la trappola delle parole e si risveglia direttamente nell’offesa del corpo, tanto più del corpo morto. Si tratta qui di un Landolfi, si potrebbe dire, consapevolmente retroverso, nel quale il confine tra l’orrore e la risata è tanto tenue quanto lo è in Kafka. Il quale diventerà egli stesso un personaggio landolfiano, intento a massacrare a bastonate un padre dalla testa umana e dal corpo di ragno gigantesco (come nel Babbo di Kafka del 1942). In questo divagare, niente succede per caso. Tutto, semmai, per azzardo. Nel gioco, infatti, si trova il punto di contatto tra l’esperienza diretta e la letteratura. Accanito, lucido e determinato nel rischio, tanto da dissiparsi continuamente -ricordava Calvino – nel «gesto allucinato» del giocatore. Un gesto primo e ultimo, in cui si fronteggiano l’illusione e la delusione, la strategia di vittoria e il precipizio, il senso dell’avventura e la pietà che «non serve a nulla». Un gesto per cui si perde sempre, in realtà, e sempre si ricomincia.i

Stefano Colangelo, Landolfi il giocatore d’azzardoultima modifica: 2008-08-10T18:18:25+02:00da mangano1
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