Tiziano Rinaldini, Come eravamo

da IL MANIFESTO 17 agosto 2008

TIZIANO RINALDINI
Come eravamo

C’è molta confusione a proposito degli anni Settanta tra conflitto sociale e violenza armata organizzata

Da alcuni mesi è in circolazione un volume che raccoglie sotto la direzione di Luca Baldissara svariati lavori di ricerca di giovani storici sulle vicende sociali, le vicende culturali, economiche e politiche nel territorio di Reggio Emilia alla fine degli anni ’60 e negli anni ’70. Contemporaneamente è stato pubblicato un opuscolo di riflessione su violenza e militanza politica che prende spunto da una relazione sul libro di Paolo Pergolizzi (Aliberti, 2006) interamente dedicato alle vicende dell’ «appartamento», editato due anni fa (in cui sono contenute informazioni e valutazioni a tutto campo, che si aggiungono alle numerose pubblicazioni, interviste, articoli giornalistici e produzioni televisive degli anni passati). Il volume e l’opuscolo (realizzati per conto del Centro Studi R60, della Cdlt di Reggio Emilia con un programma di ricerca durato oltre due anni) è stato ampiamente diffuso a livello del territorio e nazionale. Il sistema informativo locale e nazionale lo ha sinora praticamente ignorato. Quasi inesistente l’interesse anche a sinistra, sinora (a prescindere dal giudizio sul valore delle opere). Eppure la ricerca storica e l’opuscolo richiamato evitano un approccio localistico (già di per sé falsificante) e, favoriti dalle caratteristiche storiche del territorio, sviluppano il tema in relazione alle più generali vicende del nostro paese, e non solo.
In questo quadro viene collocato e approfondito lo stesso prodursi della violenza armata, senza reticenza e senza ridurlo a fenomeno episodico, irrilevante, di impossibile spiegazione, ma nel contempo guardandosi bene dal farne l’elemento centrale con il quale leggere quegli anni e quella fase relegando tutto il resto a supporto (nel paese e a Reggio).
E questo per la semplice ragione che quello non fu né l’elemento centrale, né caratterizzante; lo è diventato successivamente nel modo di guardare quel periodo che si è prevalentemente andato affermando.
Di tutto questo mi sovviene in questo agosto a fronte dell’amplissimo risalto mediatico che ha avuto l’uscita del film di Pannone e Fasanella (e Franceschini), a fronte delle caratteristiche con cui è stato pubblicizzato e delle polemiche sull’incomprensibile tentativo censorio di Bondi (a questi fatti ovviamente mi posso riferire, mentre sul documentario non esprimo alcuna valutazione, non avendolo ancora potuto vedere).
Nel riscontrare il silenzio a cui prima accennavo, c’è amarezza, ma non v’è alcuna intenzione di lamento e rivendicazione (può persino essere che il battage sul documentario produca una qualche curiosità di andare a leggersi i materiali realizzati).
Vi sono fatti di cui è bene non lamentarsi, evitando di nascondere così la verità del riscontro che invece può forse aiutarci a capire meglio la situazione in cui siamo: e cioè, anche a sinistra, la centralità della vicenda del partito armato è prevalentemente accettata e considerata più interessante che i tentativi di ricostruire ciò che fu davvero quella fase. Quando si dice la forza dell’ideologia dominante.
Mi riferisco alla confusione che viene così di fatto proposta tra conflitto sociale, vicende del movimento operaio (e in particolare del Pci), violenza armata organizzata. Questo nel migliore dei casi; nel peggiore il terreno così preparato viene spiegato in un percorso rettilineo in cui all’inizio c’è il conflitto sociale, poi la storia del movimento operaio e infine il «naturale» sbocco nella violenza armata organizzata.
A questo punto il cerchio si chiude virtuosamente congiungendo i due estremi, coloro che hanno promosso la lotta armata senza vera responsabilità perché tutto era già dato nelle premesse, e coloro (i vincitori) che possono così rafforzare la negazione del valore del conflitto sociale e la condanna di qualsiasi ipotesi politica che sia fondata su un obiettivo di trasformazione radicale. Il piatto è servito per l’ideologia pacificata della coesione sociale e della sostanziale immodificabilità dell’ordine sociale ed economico esistente, e in questo quadro la «libertà» della politica. Che cosa fu il ’68 e gli anni ’70, la storia stessa del movimento operaio, non c’entra niente: è questa la richiesta del mercato a cui i prodotti culturali devono commisurarsi, e la stessa memoria dei singoli deve adeguarsi e collaborare, pena l’accusa di reticenza ed omertà.
Non è mia intenzione strumentalizzare l’indubbio gravissimo danno nei confronti del conflitto sociale da parte del partito armato per attribuire a questo la sconfitta del movimento operaio (magari fosse così, sarebbe ben più semplice la ripresa), ma certo uno degli ultimi servizi di quella scelta ai vincitori è di aver contribuito a rendere possibile che oggi in genere se si chiede ad un giovane, anche di sinistra, che cosa caratterizzò principalmente quegli anni ti si risponderà: gli anni di piombo, la violenza armata.
Anche in questi giorni mi è capitato di leggere il termine «guerra civile» utilizzato con tranquilla e irresponsabile leggerezza per definire quella fase (tanto è un termine che ormai non lo si nega più a nessuno).
Sono spinto a scrivere queste brevi note non solo per ragioni storiografiche, e neanche solo per la rabbia mista ad amarezza nel vedere schiacciata e falsificata la storia di un intero territorio e l’esperienza politica, tra cui la mia, di gran parte di una generazione, ma anche, e soprattutto, per far fronte all’inquinamento delle basi su cui oggi discutere il presente e progettare il futuro, per chi continua a ritenere che sia necessaria una trasformazione radicale della realtà esistente.

Tiziano Rinaldini, Come eravamoultima modifica: 2008-08-17T18:14:39+02:00da mangano1
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