Duka, Vodoo Harmony

il manifesto del 19 Agosto 2008italia undergroundCentocelle VOODOO HARMONYDUKAQuando la vidi la prima volta, fu peggio di quando le cavallette, secondo il libro dell’esodo, invasero l’Egitto. Dopo aver mangiato, appesantito dall’amatriciana, dal pecorino e dalle fave biologiche, indigeribili come il brecciolino, arrancai a fatica fino al sound system. Scusatemi, dimenticavo di dirvi che per dolce, durante il pranzo del primo maggio, rituale che si ripeteva dal 1987 quando festeggiammo il primo anno di occupazione, io e la mia posse di stilosi fattoni, i Tor de’ Schiavi Zion Starship, ci eravamo spaccati una torta con crema all’erba prenestina. Arrivai allucinato dietro l’impianto, aprii la mia fly case e scelsi i dischi per la mia selezione. Stavo appoggiando il vinile sul piatto, in una cazzo di dance hall pomeridiana al Forte Prenestino durante la Festa del Non Lavoro, quando lei passò davanti alla consolle, in compagnia di due sue amiche. Alla vista di lei non riuscii a pronunciare, dentro di me, nemmeno il mio classico «che gnocca», restai abbagliato da così tanta bellezza, certo le altre due erano uno schianto ma lei era troppo per me. Mi apparve come una prova della magnificenza di Jah e lo lodai, cambiai al volo il disco che stavo per mandare e feci partire un nyabingy, con i tamburi di accompagnamento alla voce che canta salmi al signore, il tutto seguito dalla pronta accensione del mio chalice, carico della migliore superskunk del momento, quella che in città avevo solo io. Dopo un tiro, rispettando il rito, la condivisi in comunione passandola alla mia sinistra a sister Mary. La sorella, dopo aver tirato, con una mossa che mi lasciò di stucco per la prontezza, porse in avanti la pipa alla ragazza, che nel frattempo si era fermata con le sue amiche davanti al sound incuriosita da quella musica inusuale in una dance hall. Lei prese in mano il chalice, se lo portò alle labbra e aspirò forte, troppo forte.Raggiunse in un attimo il paradiso o forse l’inferno, visto come la sua faccia si sformò e come i suoi occhi manifestarono prima terrore poi beatitudine, si direbbe che era in orbita. Non bisognava avere chissà quale vocazione per entrare nelle grazie di Jah dopo avere tirato da quella pipa, che avevo caricato pesantemente, rinforzata dall’aggiunta di un grammo di olio di erba nigeriana. La passò alla sua compagna più vicina, si avvicinò alla consolle, e disse rivolta a Mary: «E’ una botta la tua erba». «Non è la mia ragazza, è del dread», rispose Mary indicando me. Gli occhi di lei, verdi come smeraldi, s’incrociarono per la prima volta con i miei. In quel momento avrei voluto fare la ruota come il pavone, invece restai a bocca aperta come una triglia. Sembravo un pesce appena pescato, nonostante sfoggiassi una dorata abbronzatura sotto la canotta retata, bianca, che avevo comprato qualche giorno prima a Kingston. Sì, miei cari, ero appena tornato da un anno di viaggio, passato tra New Orleans, Haiti e la Giamaica. Ero in splendida forma. Lei, notando che tra me e uno stoccafisso non passava, in quel momento, nessuna differenza mi disse: «Dove hai trovato dell’erba così buona? Dimmi da chi la posso comprare». Io, ormai andato, risposi: «E’ la mia, apri la mano». Lei l’aprì. Presi una manciata di maria dal sacco che tenevo sotto il banco della consolle, la misi nella sua mano e le richiusi il palmo. Il contatto fisico con lei, unito agli effetti della ganja che avevo in corpo, mi diede i brividi e iniziai a sudare freddo. La ragazza era troppo sveglia per non accorgersene e disse: «Che fai tremi? Comunque grazie per il regalo, io vado nell’altra yard, il reggae a me non piace, poi questi tamburi fanno cacare. Ciao rastaman». Girandosi mi fece l’occhiolino, io ormai ero completamente sotto botta, cotto di lei.Mentre stava andando via in compagnia delle sue amiche, feci partire sull’altro piatto Many rivers to cross di Jimmy Cliff. Ma non servì a un cazzo, la pischella non tornò indietro risultando immune al fascino di quella bellissima canzone. Passai le mie due ore di selezione musicale con l’ansia addosso. Era la prima volta che mi succedeva da quando suonavo, non vedevo l’ora di finire e andare nell’altra piazza dove c’era il sound techno, mettermi a ballare e aspettare che mi notasse, perché dopo un anno passato a danzare con i discendenti degli schiavi africani ero diventato bravissimo. Arrivai in pista e iniziai a spingermi sotto cassa, piroettando tra la folla di giovanissimi rimastini e di tardoni rimasti sotto da almeno un ventennio. Quando la vidi in compagnia di una mia grandissima amica e cliente, Jolanda la Tequilara, stavano chiacchierando fitto mentre ballavano. Iniziai cosi a volteggiare, i bassi mi colpivano al ventre, le mie mani schizzavano nell’aria e i miei piedi sembravano quelli di un ballerino di tip tap. A quel punto loro non poterono non notarmi. Jolanda mi chiamò, cosa che stavo aspettando, e con una giravolta mi parai davanti a loro. «Ciao Swan», disse Jolanda, «Ciao Tequilara», risposi io. «Che razza di soprannome è Swan? Non si addice a uno che manda musica omofobica», disse lei. «Certi discorsi li accetto per bocca di una militante, di certo non da quella di una reginetta da rave che non sa di cosa sta parlando», risposi io. Jolanda s’intromise prontamente: «Il ragazzo è permaloso ma non è stronzo, offrici da fumare così ti perdoniamo la cafonaggine, vero Sabina?». «Sì, lo scusiamo il nostro bel cigno, per la reginetta. Comunque sappi che una donna non ha bisogno d’essere una militante, per capire quello che viene fatto e detto contro di lei», disse Sabina. «Scusami Sabina», risposi, «ma non sopporto più queste banalizzazioni alla moda, questi insulti gratuiti alla cultura reggae, solo perché alcuni pezzi di merda tipo Sizzla dicono stronzate. Comunque andiamo sulle colline del Forte a farci un po’ di canne». «Chiamo le mie amiche», disse Sabina. Così rimasi solo con Jolanda. «Mi sono innamorato di lei, mi devi aiutare». «Me ne sono accorta, Swan, non dormo mica», mi rispose la Tequilara. «Mi servono dei suoi capelli adesso, subito. Ora che andiamo a fumare staccale un capello e poi dammelo». «Sei impazzito?! Che cazzo ci fai coi suoi capelli?», chiese Jolanda. «’A Tequilara, mi sono riportato da Haiti una Dagida, sta nel mio zaino», dissi io. «Che cazzo è una Dagida?», imprecò Jolanda. «Sono le bamboline Voodoo, mi è stata regalata da una potente Mambo», le risposi. «Tu sei pazzo! Vuoi usare la magia nera, gli spilloni da infilzare nella bambola!» esclamò Jolanda. «No, niente spilloni né magia nera, non servono per i riti d’amore», dissi io. «Ti aiuto solo perché ti considero mio fratello, ma stai in campana: con il Voodoo non si scherza!» mi intimò. Le tre ragazze ci raggiunsero, imboccammo la salita che dalla piazza d’armi portava su in collina. Mentre il nostro gruppo saliva, davanti a noi scendevano Luciano detto il Bello e Lorenzo er Piovra. I due piacioni restarono a bocca aperta nel vedermi in compagnia del quartetto, cercarono di agganciarsi a noi, ma né io né la Tequilara gli demmo spago; oggi la vita non doveva sorridere a questi figli di papà. Distribuii l’erba, una canna ciascuno, e iniziammo a rollare. «Sabina ci ha detto che ti chiami Swan», dissero ridendo le amiche. «Sì», risposi io. «Raccontaci perché ti chiamano così, scusa la curiosità ma non capita tutti i giorni d’incontrare uno, nemmeno un dj, con un soprannome così da coglione», disse Sabina. Non potevo tirarmi indietro, iniziai il mio racconto. «Da bambino ero un po’ autistico e asociale, passavo parte del tempo libero al parco, vicino casa, e invece di giocare con gli altri bambini, mi mettevo seduto ai bordi del laghetto a vedere i cigni. La cosa peggiorò intorno ai tredici anni quando, scoperti gli spinelli, iniziai ad andare al laghetto, sempre da solo, munito di cartine, sigarette accendino e filtrini. Più canne mi spaccavo più i cigni mi piacevano. Io mi sentivo un cigno. La botta, vera, la presi a quindici anni quando comprai il mio primo assorbente. Arrivai, mi misi seduto e m’incollai, sulla lingua, il francobollo carico di Lsd e aspettai gli effetti della droga, seduto in mezzo ai cigni. Non ricordo bene cosa feci, mi rammento solo che più vedevo i cigni più ridevo e sempre più forte mi veniva da ridere, finché i volatili stranirono e iniziarono a beccarmi. Mentre provavo a rialzarmi, un cigno mi colpì col becco sulla palla destra e lanciai un urlo lancinante, tutti i ragazzini che giocavano nel parco accorsero e si trovarono la seguente scena: io che scappavo, saltellando, tenendomi le palle, con gli uccelli che mi rincorrevano beccandomi sul culo. Da quel giorno per tutto quartiere ero diventato: Piero detto er cigno, in seguito Swan». Le ragazze ridevano a manetta, non era difficile con la mia storia e la mia erba, che ormai se la comandava su noi cinque. Nel mentre Jolanda riuscì nel colpaccio staccando un biondo capello a Sabina, senza farsene accorgere. Ero a cavallo, pronto per compiere il mio rito propiziatorio e invocare l’aiuto dei Loa. Riscendemmo e accannamo Sabina e le sue compagne, io e la Tequilara risalimmo sopra e andammo nella mia stanza, di cui avevo ripreso possesso da pochi giorni, da quando ero ritornato alla solita morchia di Centocelle. Entrammo nella mia camera e Jolanda disse: «Che cazzo è questo altare? E tutte queste candele?». Le risposi: «E’ un humfort». «Che cazzo è un humfort?», mi chiese. «E’ un tempio voodoo, dove invocare e nutrire i Loa». Lei esclamò: «Nutri i boa?! Da quando allevi i serpenti?» Sbottai a ridere e dissi: «I Loa non i boa! Sono gli spiriti che nutro, non i serpenti!». Tirai fuori la Dagida, le legai il biondo capello di Sabina e iniziai a coccolare la bambola, poi l’avvolsi in un panno rosso. Presi il foglio dove mi ero fatto scrivere, da una bellissima e potentissima Mambo, le parole da pronunciare per il rito. Dopo aver chiesto aiuto alle divinità Afra, Asojano, Afreqete e Hevioso, versai del ron a terra davanti all’altare per nutrirle, poi uscii e scavai una buca dove seppellii la Dagida. Scendemmo e raggiungemmo Sabina che stava ballando sotto cassa una traccia dei Klf, cosa insolita per un centro sociale. Era circondata dal Bello e dal Piovra che imperterriti le stavano girando intorno, nella classica tattica dello «squalo merda». Prima di andare a ballare da lei, mi diressi alla consolle dove stava facendo la sua selezione Miss Dirty Queen, la più famosa dj di serate lesbo, gay e trans della capitale, con cui ero diventato amico in vacanza a Londra dove passammo una nottata girando insieme sotto funghetti. Mi avvicinai, le alzai la cuffia e le sussurrai all’orecchio: «Mettimi una scontatissima traccia di Roni Size, gli spiriti della giungla lo vogliono». Lei rispose: «Sarà fatto, ma in cambio gli spiriti mi devono spazzare via quelle due merdacce d’uomini che stanno tormentando la ragazza bionda che balla qui sotto». «Lo faranno se esaudiranno il mio desiderio», dissi io. «Te lo auguro. Tieni, Swan, ti dono il cibo degli dèi e danne un po’ anche a lei». «Grazie, mia regina», risposi. Scesi dal palco e mi diressi verso Sabina. Spostai, con il mio corpo danzante, quel ricco borghese di Luciano il Bello, e le feci mordere il fungo. Dagli altoparlanti usciva la cassa spezzata di Roni, io e Sabina ballavamo ormai come due posseduti, a un certo punto dall’impianto non usciva più solo la drum ‘n’ bass, ma anche il suono dei tamburi mandati su un altro canale. Ormai i Loa avevano invaso la pista da ballo, a cavallo del suono. A un certo punto il frenetico girare degli spiriti intorno a noi creò una tromba d’aria che alzò da terra tutte le cacate di pitbull accumulatesi dalla mattina all’interno del Forte, e come un’onda marrone queste s’infransero sulle facce del Bello e del Piovra. Sabina mi prese per mano, e a quel punto corremmo su in camera mia e iniziammo a scopare. I nostri corpi s’incastrarono e le nostre menti si penetrarono a vicenda, un flusso di energia si staccò da noi per schizzare fuori dalla mia stanza e unirsi ai Loa nel creare prima un tornado che fece volare via tutto tranne il sound, poi nel dare vita a visioni condivise da tutti i presenti. I migliaia di partecipanti al party si trasformarono chi in zombi e chi in scimmie urlatrici. La battaglia tra le due categorie di frequentatori dei centri sociali divampò senza risparmiare nessuno. Dai sotterranei uscirono in superficie milioni di sorci, blatte, scorpioni e vermi che fuggirono dal Forte e invasero Centocelle. Alla fine tutto era distrutto, ma noi sopravvissuti eravamo sereni. Mentre centinaia di rimastini, come sciacalli, derubavano i cadaveri delle loro Nike. Io e Sabina uscimmo dal Forte e passammo il ponte, ci guardammo senza dirci nulla, ci sorridemmo e ognuno prese la sua strada. Lei salì le scalette per andare alla sua macchina, io tornai dentro visto che abitavo al centro sociale. Ci lasciammo, consapevoli che l’indomani avremmo dovuto rimboccarci le maniche e ricostruire.

Duka, Vodoo Harmonyultima modifica: 2008-08-20T17:30:18+02:00da mangano1
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