Luciana Castellina, Felice Besostri, 40 ANNI DOPO PRAGA

da il manifesto del 20 Agosto 200 LA NOSTRA «PRIMAVERA» di LUCIANA CASTELLINAdalla mailing list del circolo Rosselli Cecoslovacchia, quarant’anni dopo di Felice BesostriLA NOSTRA «PRIMAVERA»LUCIANA CASTELLINAIl quarantennale del ’68 inteso come movimento e quello dell’intervento delle truppe del Patto di Varsavia a Praga coincidono; e nelle celebrazioni si confondono, tanto da dare l’idea che ci fosse un nesso stretto fra i due eventi. Ci fu, in effetti, ma non fu affatto esplicito. Ad esser investita in pieno dalla vicenda cecoslovacca fu, in realtà, solo quella parte del movimento che poi si collegò con il gruppo che allora era ancora nel Pci e che poi dal partito fu radiato, proprio per via di Praga e per le sue eccessive simpatie per la protesta studentesca. Quello che dette vita al manifesto: rivista prima, organizzazione politica e quotidiano poi. Questo.Fu così perché la tragedia di quell’agosto di 40 anni fa fu soprattutto dei comunisti: erano loro quelli che avevano sperato in una autoriforma del sistema socialista, che avevano con trepidazione seguito passo passo le mosse di Dubcek e poi ascoltato turbati le minacce con cui Mosca le aveva accolte, seguito col fiato sospeso il fragile compromesso di Cerna, sottoscritto a bordo di un treno fermo nella stazione della piccola località alla frontiera orientale della Cecoslovacchia, sui binari seduto un drappello di operai a segnalare che se Brezhnev avesse voluto tradurre prigioniero in Urss il segretario del loro partito lo avrebbero impedito bloccando il convoglio con i loro corpi. Loro che furono sconvolti quando giunse la notizia, quella mattina del 21 agosto, che i carri armati con la stella rossa erano entrati a Praga nello sgomento dei cittadini ancora increduli, fra loro molti di coloro che 23 anni prima li avevano applauditi come liberatori.Per gli altri, i non comunisti, la vicenda fu diversa: per la destra Dubcek era poco più di una variante comunque da condannare, al pari del comunismo che si ostinava a proclamare. Sui muri di Praga, l’indomani dell’invasione, non era forse uscita la scritta ironica ma significativa, che invocava non il presidente degli Stati Uniti, ma il capo della rivoluzione bolscevica: «Lenin svegliati, Brezhnev è impazzito!»?Per gli altri, i nuovi compagni che da un po’ di mesi avevano dato vita alla protesta giovanile, la vicenda praghese era lontana: sul comunismo sovietico non avevano mai puntato, essendo nati quando era già degenerato. Non avevano perciò mai sofferto delusioni e neppure mai sperato che di lì potesse venire un’indicazione valida. Di Dubcek, anzi, e in particolare del suo ministro dell’economia, Ota Sik, diffidavano: troppo di destra. Tutt’al più qualche simpatia generazionale per capelloni e chitarristi che con la «primavera» avevano cominciato a circolare anche per le vie di Praga. Di questa indifferenza fanno prova, oltre la nostra memoria, le pubblicazioni di allora, e non solo del movimento italiano: se si eccettua un accenno in un’intervista di Rudi Dutschke, al problema non fu offerta alcuna attenzione (se ci fu, fu postuma).Quando arrivarono oltre cortina le tesi del 14mo Congresso che il Pc cecoslovacco, già clandestino, aveva tenuto all’interno della grande fabbrica siderurgica Ckd, protetto dai picchetti operai contro la possibile irruzione degli occupanti sovietici e dei loro alleati locali – l’ala del partito fedele a Mosca – le ignorarono tutti. Fu solo il manifesto a pubblicarle in uno dei suoi primi numeri; e non poteva che essere così: al grosso dei primi sessantottini non interessavano e il Pci non poteva interessarsene perché col Pcus, pur critico, non aveva ancora rotto (e anzi a rompere ci mise altri dieci anni e più).Così come ignorati dagli uni e dagli altri restarono i compagni di Dubceck, molti dei quali finirono esuli. Zdenek Mlynar, Jiri Pelikan, Anthonin Liehm, per citare solo alcuni, in Italia ebbero un solo rifugio: la redazione del manifesto, piazza del Grillo prima, poi via Tomacelli. Anche per questo nella memoria ufficiale quanto accadde in quell’agosto di 40 anni fa è stato alla fine rubricato come l’aggressione comunista a una rivolta promossa dai liberali, quasi che ad ispirarla fosse stato uno dei nostri occidentali governi e non invece, come fu, un tentativo di comunisti, e anzi della legittima leadership del Pcc,per salvare il progetto comunista.Un tentativo troppo tardivo, quando l’Urss era ormai quella irrecuperabile di Breznev. Ma che forse sarebbe stato ancora possibile se una diversa scelta fosse stata fatta dai partiti comunisti occidentali che, non solo in Italia, erano ancora relativamente forti e avrebbero potuto così offrire un punto di riferimento alle nuove energie che dal ’68 emergevano. E che stavano avanzando, spesso più come intuizione che con piena consapevolezza, una critica radicale al capitalismo, di cui il movimento avvertiva con anticipo la crisi, per la sua incapacità di garantire soddisfazione ai nuovi bisogni qualitativi emergenti e di dare risposta alle sfide che la sua distorta modernità stava producendo.Anche il movimento del ’68 – ecco il nesso oggettivo – aveva contribuito, con le sue lotte poi non solo studentesche ma anche operaie, a mutare i rapporti di forza internazionali. Come la vittoria vietnamita che già si delineava; e quella di altri paesi di uno schieramento di Bandung non ancora sotterrato. Non era irrealistico, in quella stagione, pensare a una critica da sinistra al comunismo realizzato, entusiasmarsi per quanto a Praga si stava cercando di fare. Vent’anni dopo quella critica ha fatalmente assunto un altro segno.Questo tentativo – un’alternativa al modello sovietico, ma sempre comunista – è stata la ragion d’essere del manifesto. Anche in altri paesi ci fu, in effetti, chi, per via di Praga, ruppe con i rispettivi partiti comunisti. Ma in generale furono frange. L’esperienza italiana, sia perché aveva alle spalle il retroterra ricco degli anni ’60 e un Pc molto speciale, sia perché la dissidenza interna al partito riuscì a incontrarsi con una parte significativa del ’68, è stata un’eccezione.Neppure noi, lo sappiamo, siamo andati molto lontano. Ma in questo quarantennale di Praga, che per tanti versi è stata il nostro atto di nascita, credo possiamo dire che la nostra storia è stata utile. A tutti. Perché ha tenuto in vita l’ipotesi di un comunismo diverso (per questo, anche, non si è sentito il bisogno di rimuovere la dicitura della nostra testata: «quotidiano comunista»)Almeno fino ad ora. Adesso non so.Esprimo questa incertezza quando penso a tante cose a cui di questi tempi pensiamo tutti. Ma anche alla desolazione di veder cosa è diventata la Cekia di oggi, il più di destra e beceramente asservito a Bush dei membri dell’Unione Europea.Un paese dove le organizzazioni comuniste – peraltro più forti che altrove – vengono denunciate come illegali, proprio per via di quella parola «comunista», ormai illecita. Senza che venga ricordato che comunista erano Dubceck e i suoi compagni della «primavera di Praga». Per questo non mi pare appropriato dire – come molti oggi suggeriscono – che il ’68 praghese è stato la prova generale dell’89. Non era questa la democrazia cui la «primavera» aveva puntato.Cecoslovacchia, quarant’anni dopodi Felice Besostri A parte le riflessioni della compagna Castellina sul Manifesto non mi pare che l’anniversario abbia emozionato più di tanto la sinistra italiana i ne abbia animato il dibattitoEppure quando il freddo di agosto gelò la Primavera di Praga avrebbe dovuto essere chiaro che la sinistra non poteva essere più quella di prima: la reformabilità dall’interno del sistema sovietico era impossibile. Infatti , quando 21 anni dopo il sistema iniziò a sgretolarsi, la sua riforma prese tutt’altra direzione, quella di un capitalismo selvaggio e senza quei correttivi, che nei paesi capitalistici più avanzati, in qualche modo ne limitano gli effetti: un sistema politico democratico ed un sistema legale tendenzialmente imparziale, oltre che una normativa per la trasparenza dei mercati. I beni pubblici sono stati depredati da oligarchi ognuno con la sua protezione politica e spesso il confine tra potere politico, potere economico e criminalità organizzata era ed è molto incerto. Questo intreccio consente di manipolare e, quindi, vincere elezioni solo formalmente libere.Il fascino di antiche parole d’ordine, come la difesa del campo socialista, hanno impedito che la sinistra italiana trovasse una sua strada autonoma e con 40 anni di anticipo desse il suo contributo alla costruzione di una sinistra europea, che superasse le divisioni degli anni Venti e della Guerra Fredda. Sono convinto che quella riflessione avrebbe dovuto iniziare già dai Fatti ( notare l’espressione anodina e perciò conciliante!) di Ungheria del 1956, ma, non volendo gettare benzina sul fuoco, mi sarei accontentato di un ritardo di soli 22 anni: purtroppo ne abbiamo accumulati altri 40. La storia non si può riscrivere, ma se la conclusione è- caso unico nelle democrazie parlamentari di tutti e cinque i continenti- che la sinistra, da quella socialista a quella antagonista, non sia rappresentata nel Parlamento, le scelte non fatte, le occasioni perdute e la dirigenza complessiva della sinistra abbiano contribuito al bel risultato sotto i nostri occhi! Comprendo le resistenze a prendere atto che il comunismo sovietico avesse fallito, perché nel nostro paese ogni presa di distanza si coniugava con una- a mio avviso non necessaria- deriva moderata, di adattamento al sistema. In Italia non si è stati capaci di passare dell’isolamento filosovietico all’autonomia della sinistra, come nella migliore tradizione socialdemocratica. La sinistra se non è alternativa, che sinistra è? Nella sua alternatività può essere graduale e prudente, stabilire alleanze con forze di centro più moderate, porsi obiettivi intermedi, ma non assimilarsi, in nome della governabilità e del realismo, alle pratiche di potere e di sottobosco del potere di quelle forze, che non si pongono l’obiettivo di cambiare la società, nella quale viviamo. Una sinistra vacanziera che si dimentica l’anniversario dell’invasione della Cecoslovacchia, si merita che massicciamente, proprio approfittando dell’anniversario, si voglia far passare una analogia tra la Cecoslovacchia del 1968 e la Georgia del 2008, quasi che truppe russe e truppe sovietiche fossero la stessa cosa e che la Primavera di Praga avesse gli stessi obiettivi della Rivoluzione delle Rose. La subordinazione culturale della sinistra è evidente, perché i comunisti difendono o giustificano i russi ed i riformisti, anche quelli socialisti (in maggioranza ), i georgiani: stupefacente da parte di chi ebbe il coraggio di candidare e far eleggere al Parlamento Europeo Jiri Pelikan. Con questa mia riflessione non voglio rinfocolare polemiche, ma mandare un messaggio: la sinistra potrà ritrovare la sua forza se sarà capace di affrontare i nodi del passato e il diverso atteggiamento rispetto agli avvenimenti cecoslovacchi del 1968 è uno di questi nodi __._,_._____._,_.___

Luciana Castellina, Felice Besostri, 40 ANNI DOPO PRAGAultima modifica: 2008-08-21T16:21:22+02:00da mangano1
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