Cittadini, meteci e nuovi fantasmi locali
Annamaria Rivera
[24 Luglio 2008]
Pubblichiamo un saggio di Annamaria Rivera, docente di Etnologia e di Antropologia sociale nell’Università di Bari, pubblicato sull’ultimo numero dei Quaderni di rassegna sindacale [Ediesse] dedicato al tema migrazioni e cittadinanza. Il titolo originario è: «Meteci transmigranti e fantasmi locali. Appunti per una fenomenologia dell’esperienza migratoria».
. Una variante proletaria del cosmopolitismo
Secondo stime recenti della Commissione mondiale sulle migrazioni internazionali, il numero di persone che vivono fuori del paese in cui sono nate sarebbe passato dai 75 milioni del 1965 ai 150 del 2002, per raggiungere una cifra vicina ai 200 milioni nel 2005. Se a questa cifra ragguardevole si aggiunge il numero di persone che, direttamente o indirettamente – ad esempio, attraverso la memoria familiare – hanno fatto esperienza della migrazione, ci si rende conto che porsi l’interrogativo «chi sono i migranti?» significa rispondere alla domanda «chi siamo noi?». Il migrante non è solo il nostro comune passato, egli incarna anche l’anticipazione del nostro futuro prossimo:
è figura esemplare della postmodernità, cioè dello sradicamento o meglio del radicamento in più luoghi geografici e simbolici. Egli ha dovuto, se non abbandonare, certo selezionare i punti di riferimento familiari, adattarsi ad altri codici e comportamenti, acquisire nuove lingue, nuovi modi di
pensare e di agire, appartenere simultaneamente a più luoghi: parafrasando Ralph Grillo (2006, p. 115), si potrebbe dire che il migrante è la variante proletaria del cosmopolita.
Se poi si considera che l’intensificazione dei flussi migratori è dovuta in buona sostanza al complesso di fenomeni, processi e tendenze al quale si dà il nome approssimativo di «globalizzazione», rispondere a quella domanda significa anche cogliere una parte del senso del mondo nel quale ci troviamo a vivere.
Come ci ha insegnato Abdelmalek Sayad (2002), il migrante è al tempo stesso un immigrato e un emigrato, è la persona del qui e dell’altrove: se egli è un immigrato per la società di arrivo, è un emigrato dal suo punto di vista e per la società da cui è partito, alla quale resta legato da relazioni affettive, simboliche, culturali e materiali (Zanfrini, 2004, p. IX). Ciò è vero più che mai oggi che le nuove tecnologie di comunicazione e di trasporto rendono più facile la mobilità spaziale, più diffuse e frequenti le relazioni dei migranti con i paesi di origine, più intensi i legami transnazionali. Insomma, emigrazione e immigrazione sono due facce della stessa medaglia, per cui qualunque sociologia
o antropologia dell’immigrazione è obbligata ad analizzarle insieme, a investigare su entrambi i versanti le persone, le loro famiglie, i gruppi e i contesti di appartenenza. Basta pensare all’importanza che hanno le rimesse dei migranti non solo come sostegno alle famiglie rimaste a casa e come mezzo per garantirsi o solo promettersi il ritorno definitivo in patria, ma anche come contributo, talvolta decisivo, alle economie dei paesi di partenza: in un mondo caratterizzato, per una gran parte impoverito, dalla ristrutturazione neoliberista globale, gli investimenti dei migranti sono spesso essenziali alla sopravvivenza delle economie dei paesi di partenza.
Quanto al piano dell’immaginario e del simbolico, è importante sottolineare la dialettica che si instaura fra le immagini del paese di arrivo e quelle del paese di origine, le une e le altre veicolate e spesso deformate attraverso la migrazione: si consideri quanto diffuso e radicato sia nei paesi
di provenienza il mito dell’emigrazione come sinonimo di sicura promozione economica e sociale, e quale potente fattore di spinta siano le immagini – veicolate dai mass media ma legittimate, riprodotte e rafforzate da atti e racconti degli stessi immigrati – di un occidente come culla di
benessere e libertà. Certo, come avvertono fra gli altri Simona Taliani e Francesco Vacchiano (2006), la dimensione soggettiva, in tal caso quella dell’immaginario, pur essendo fondamentale in ogni approccio antropologico alle migrazioni, non deve scadere nell’acritica assimilazione «della
migrazione a una libera scelta di un soggetto individuale (e individuato), privo di legami e di vincoli con le condizioni oggettive del contesto che abbandona» (ivi, p. 168). Occorre ricordare – soggiungono opportunamente – che «le migrazioni attuali sono in buona parte la risultante di
processi di sviluppo sbilanciati, di ingiustizie sociali e politiche, di neocolonialismo economico e culturale, di asservimento del pianeta al valore del consumo» (ivi, p. 169).
2. Chi è il migrante?
Per cogliere per approssimazione il senso dell’essere migranti oggi, cruciali
sono i concetti di transmigrazione e transnazionalismo, che da qualche decennio sono sempre più spesso adoperati nell’ambito delle scienze sociali. Con questi concetti si intende non solo sottolineare la tendenza a muoversi fra luoghi e paesi diversi e a costruire circuiti transnazionali entro i quali
circolano persone e denaro, beni e informazioni, culture e pratiche relazionali; ma anche dar conto del fatto che oggi «in maniera sempre più crescente individui, nuclei familiari e intere comunità si trovano coinvolti in mondi interconnessi, ampiamente separati dal punto di vista spaziale, che
essi tentano di mantenere simultaneamente» (Grillo, 2006, p. 106).
È opportuno rimarcare l’importanza di non disgiungere l’interrogazione sui temi riguardanti referenti e processi culturali e strategie identitarie dalla considerazione delle condizioni economiche, sociali, di status, di classe dei migranti, per non correre il rischio dell’esaltazione – comune a tanta letteratura postmoderna e postcoloniale – di soggettività nomadiche felicemente coinvolte in va-e-vieni territoriali e identitari: infatti, non si può trascurare «il grado in cui i transmigranti restano legati alla nazione, alla cultura, all’etnicità e, non da ultima, alla loro classe d’appartenenza» (ivi, p. 108). Occorre non dimenticare che «l’ecumene globale» è dominato dal neoliberismo e che ai «trasmigranti» spettano per lo più lavori flessibili, informali, precari, deregolati. Il che può produrre condizioni di perenne illegalità e incertezza e/o la scelta del definitivo ritorno in patria; o ancora «il continuo spostamento, nel corso di tutta la vita, tra un paese e l’altro, una città e l’altra, un lavoro e l’altro». Ciò determina la formazione di «un perpetuo e clandestino sotto- o semi-proletariato transnazionale » (ivi, p. 119).
Inoltre, il concetto di transmigrazione, sebbene più atto a cogliere i caratteri delle migrazioni odierne, potrebbe indurre a trascurarne il risvolto tragico: dietro chi ce l’ha fatta v’è la scia dei cadaveri di coloro che non sono riusciti neppure a emigrare – altro che transmigrare! La transnazionalità è una pratica che possono permettersi solo quei migranti che sono riusciti, più o meno avventurosamente, più o meno legalmente, ad approdare sulla sponda agognata. Occorre segnalare anche che enfatizzare «transmigrazione » e «transnazionalismo» può alimentare il malinteso che essi identifichino un processo e una condizione assolutamente nuovi: in realtà, il sentirsi né del tutto di qua né del tutto di là, al tempo stesso l’andare e lo stare qua e là, le appartenenze plurime e i mélange identitari che ne conseguono sono sentimenti, esperienze ed effetti che sempre hanno contraddistinto la condizione migrante.
È vero, la «compressione spazio-temporale» che caratterizza quest’epoca, la facilità e la rapidità dei sistemi di comunicazione e di trasporto, di conseguenza la maggiore intensità dei legami transnazionali hanno moltiplicato e accentuato la possibilità di connettere luoghi più o meno distanti
fra loro integrandoli in un unico campo esistenziale, identitario, familiare, sociale. Ma si tratta – ho l’impressione – di una novità relativa, della quale la dimensione quantitativa mi sembra prevalga su quella qualitativa. Già nel lontano 1921 William I. Thomas, uno dei maestri del pensiero
sociologico, analizzando, attraverso storie di vita, l’immigrazione in America – «un fenomeno nuovo nella storia» – metteva l’accento sul fatto che «la libera comunicazione assicurata dalla locomotiva, dalla posta, dal telegrafo, dalla stampa ha annullato le distanze» (1997, p. 202)2. Chi conosca
anche superficialmente la storia dell’emigrazione transeuropea e transoceanica sa bene quali e quanti legami gli emigrati conservassero con i paesi di origine; e quanto, anche nei casi di maggiore chiusura rispetto alla società di arrivo, la loro costruzione identitaria fosse «meticcia» al punto da riflettersi nell’invenzione di lingue «creole», frutto della mescolanza fra il dialetto che si parlava a casa e la lingua o il gergo del paese di arrivo appresi dalla strada
3. Chi è l’immigrato?
Ponendoci ora dal punto di vista delle società di arrivo, possiamo domandarci «chi è l’immigrato?»4. Parafrasando Sartre, potremmo rispondere: «L’immigrato è colui che la società di arrivo considera e tratta come tale». Immigrati non si è, si diventa nel momento in cui si è catturati all’interno del
sistema di potere, gerarchie, norme e modelli attraverso i quali la società d’approdo costruisce, in modi cangianti, la figura dell’immigrato: con le leggi, le norme scritte, le convenzioni non scritte, e attraverso i mezzi di comunicazione e d’informazione, che sono fra i maggiori, più efficaci e performativi costruttori e vettori di retoriche, cliché e rappresentazioni, spesso negative,
degli altri. Come ha osservato Etienne Balibar (Balibar, Wallerstein, 1990, pp. 294-295), «immigrati» è una categoria totalizzante che combina criteri «etnici», cioè relativi alla provenienza e alla supposta lontananza o alterità culturale e religiosa, con criteri di classe. Essa consente di operare una gerarchizzazione all’interno della totalità apparentemente neutra degli stranieri, ed è spesso usata
in funzione stigmatizzante (ibidem). In Italia a essere identificati come immigrati sono anche i cittadini italiani «non autoctoni», i rom e i sinti di nazionalità italiana, i figli e i nipoti di immigrati, i figli di coppie miste… Insomma, a decidere della differenza fra straniero e immigrato non è qualche
criterio formale, bensì la storia, l’ideologia e la collocazione di classe. Vi sono stranieri che mai sono immigrati: è il caso dei nordamericani, degli svizzeri, dei cittadini di alcuni paesi dell’Unione Europea; e vi sono persone, soprattutto quelle provenienti da paesi esportatori di manodopera, che sono
immigrati per definizione, anche se comunitari. Infatti, il termine di straniero può essere usato per designare semplicemente uno status giuridico (chi non ha la nazionalità del paese ospite); quello di immigrato per lo più «rinvia a una condizione sociale» (Kilani, 1997, p. 293).
Le parole non sono neutre: hanno una storia e, poiché sono dotate di potere performativo, possono fare la storia, riflettendo i rapporti sociali e nel contempo modificandoli. Come ci ha insegnato Pierre Bourdieu, i mutamenti semantici segnalano e incorporano i cambiamenti nella struttura dei rapporti di forza fra gruppi sociali e fra noi e gli altri. Ad esempio, «clandestini» è indizio di un mutamento decisivo del rapporto fra l’Europa e i migranti: un tempo non vi era «clandestinità» ma immigrazione
de facto, spontanea, non assistita. La nuova fase neoliberista è quella dell’acuta contraddizione fra una forte spinta migratoria internazionale, favorita dai processi detti di globalizzazione, e «un’altrettanto forte chiusura nei confronti degli immigrati da parte dei paesi più ricchi e sviluppati
» (Macioti, Pugliese, 2003, p. 5). È l’epoca delle frontiere chiuse e del controllo, della paura dell’invasione e del migrante come nemico, che per la prima volta trovano la loro perfetta sanzione negli accordi di Schengen, i quali realizzano la sovrapposizione politico-amministrativa tra frontiera,
crimine e immigrazione, contribuendo in tal modo a incrementare il processo di stigmatizzazione degli stranieri non ricchi, alimentando xenofobia e razzismo (Wacquant, 2000).
«Clandestini» è una parola-chiave delle retoriche maggioritarie tendenti a etichettare, se non a de-umanizzare, migranti e profughi. È anche una categoria paradossale, che fa dello status di irregolari una condizione e una differenza essenziali e definitivi, quasi si fosse clandestini per natura o per scelta di vita, invece che per contingenti ragioni politiche, legislative e amministrative;
paradossale perché, facendo della clandestinità una condizione quasi-ontologica, contraddice un dato di fatto inconfutabile: i regolari di oggi, quelli integrati o integratissimi, additati ad esempio positivo perfino nelle retoriche della destra, non sono altri se non i clandestini di un tempo.
4. Lapsus e rimozioni all’italiana
Dopo i risultati delle elezioni politiche del 2008, che hanno registrato un imprevisto successo della Lega Nord, alcuni commentatori si sono domandati, qualcuno con stupore e angoscia, perché mai una parte della classe operaia del Nord abbia dato fiducia e voti al partito xenofobo. È un lapsus molto rivelatore, poiché non viene specificato che si tratta di una percentuale della classe operaia bianca del Nord: la non-bianca, che pure è parte cospicua della manodopera che regge il sistema produttivo del Nord, in specie quello industriale, non ha il diritto di voto. È un lapsus che conferma che in Italia l’immigrazione – vecchia ormai di un trentennio – non è ancora riconosciuta come una componente intrinseca e strutturale dell’economia e della società. Ciò segnala un ulteriore paradosso.
Da una parte, vi è il disconoscimento dei migranti come componente legittima della classe operaia; dall’altra, l’approccio più comune, istituzionale e non, al tema dell’immigrazione riproduce lo stereotipo del migrante come pura forza lavoro a basso costo, lo stesso che è alla base del sistema
normativo, che – come è noto – vincola la concessione del permesso di soggiorno alla possibilità di dimostrare di avere un contratto di lavoro regolare. Per mezzo dell’identificazione, sancita per legge, fra straniero e forza lavoro, si mercificano e si reificano le vite reali e complesse delle persone
migranti, privandole, sul piano delle rappresentazioni sociali, della dimensione esistenziale non-lavorativa o extra-lavorativa. Siffatta tendenza al disconoscimento dell’immigrazione come parte costitutiva della società italiana ha connotato a lungo, e continua a connotare, l’atteggiamento delle istituzioni, della società e dell’opinione pubblica italiane. Fra le tante conseguenze di questo atteggiamento v’è il fatto che, malgrado la sua pluralità culturale e religiosa, la società italiana continui a rappresentarsi e ad atteggiarsi secondo un modello biancocentrico, oltre tutto basato su un tipo «medio» di italiano. Si aggiunga che l’inserimento dei migranti nella società si realizza secondo il dispositivo che qualcuno ha definito «di inclusione subordinata»: lo dimostrano la massiccia
presenza di lavoratori stranieri nelle fasce del mercato del lavoro più marginali, informali, sommerse, di conseguenza etnicizzate; la discriminazione istituzionale e la gestione poliziesca dei migranti come pratiche routinarie; l’applicazione agli stranieri – anche provenienti da paesi neocomunitari
– di forme di diritto speciale; la mancata estensione agli extracomunitari di diritti civili e politici; il fatto che la maggioranza dei figli di immigrati e rifugiati, nati in Italia o arrivati da minorenni (spesso definiti «seconde generazioni di immigrati») non abbia accesso alla nazionalità italiana; infine, l’esclusione dei migranti e perfino dei loro discendenti di nazionalità italiana dalla sfera della politica ufficiale. Tutto questo contribuisce a rendere ancora più deboli i processi detti d’integrazione, ancor
più sistemico e istituzionale il carattere della discriminazione, ancora «più effervescenti, incontrollati e insidiosi i processi di etichettatura» (Ambrosini, 2005, p. 145) ai danni delle persone immigrate.
Conviene rimarcare, inoltre, che ciò che rende specifico – e inquietante – il caso italiano rispetto ad altri paesi europei è, da una parte, l’assenza di una qualsivoglia narrazione pubblica positiva dell’immigrazione e, dall’altra, la debolezza di quei freni inibitori, di quell’autocensura che altrove
interdicono l’espressione esplicita di comportamenti e di enunciati discriminatori o razzisti. Basta considerare che, se in Francia l’insulto racaille, pronunciato da un ministro dell’Interno, ha non solo provocato una rivolta lunga ed estesa da parte degli insultati, ma ha anche suscitato un’accesa polemica pubblica e lo sdegno di alcuni politici, intellettuali e opinion makers, in Italia gli insulti e le dichiarazioni razziste profusi quotidianamente da mass media, politici, «alte cariche dello Stato» e altri personaggi pubblici solitamente non danno luogo ad alcun affaire.
5. Cittadini e meteci
Ma ritorniamo alla «classe operaia del Nord». Che anche coloro che si richiamano a una politica «di classe» dimentichino che la classe operaia comprende un gran numero di lavoratori meteci, inclusi economicamente ma esclusi da diritti civili e politici, nonché da alcuni diritti sociali, è il segno di
una certa miopia e dell’attardamento su un paradigma che da qualche decennio non corrisponde più alla realtà. Quello che si è affermato è un modello inedito nella storia italiana, almeno del dopoguerra: per la prima volta una parte della classe operaia è costituita da non-cittadini, da meteci de jure e de facto; come i meteci della Grecia antica, tanto indispensabili all’economia quanto socialmente negletti, tanto utili per la loro flessibilità e capacità di adattamento quanto deprecati dal punto di vista morale; e, bisogna aggiungere, tanto banalizzati dalle retoriche mediatiche e politiche quando muoiono in incidenti sul lavoro quanto simbolicamente crocifissi se compiono anche il più lieve reato o infrazione.
Allora, forse, per riformulare correttamente la domanda perché al successo leghista abbia contribuito una parte della classe operaia del Nord bisognerebbe chiedersi: come mai il principale imprenditore politico della xenofobia miete successi là dove la classe operaia è costituita da un numero quasi pari di cittadini e meteci? Non sono forse questa frattura e questa discriminazione a rendere possibile l’identificazione di un certo numero di lavoratori bianchi con un partito xenofobo? Forse, fra le tante
cause complesse che si possono invocare per spiegare questo successo, una, la più lapalissiana, non va trascurata: gli operai votano per la Lega Nord anche perché è un partito xenofobo, che promette di difendere i loro interessi contro quelli dei meteci.
Non sarebbe certo la prima volta nella storia che dei lavoratori autoctoni si fanno interpreti attivi delle campagne xenofobe contro gli ultimi arrivati o i «nemici interni». Basta ricordare uno degli esempi storici più emblematici: il pogrom sanguinoso del 1893 ad Aigues-Mortes che, secondo una fonte attendibile, fece 50 morti e più di 150 feriti fra i lavoratori italiani impiegati nelle saline. Gli esecutori materiali di quel pogrom furono degli operai francesi, i mandanti morali furono l’ideologia e la propaganda nazionalista, la stampa, anche socialista, i sindacati e le autorità pubbliche, coalizzati nell’additare i ritals come capro espiatorio delle pessime relazioni franco-italiane e, in generale, dei problemi e delle tensioni nazionali e internazionali. E per accennare sommariamente alla genesi del nazismo tedesco, non è forse vero che le posizioni ultranazionaliste e antisemite avevano conquistato non solo gruppi conservatori ma anche una parte dei ceti popolari, colpiti dalla terribile crisi economica che agitava il paese? Certo, oggi siamo in un contesto radicalmente differente, contrassegnato dagli effetti della ristrutturazione neoliberista. Ed è questa che, in gran parte,
può spiegarci la crescita del leghismo, la cui invenzione – va ricordato – è stata opera di un ceto politico che rappresenta in primo luogo gli interessi della piccola e media impresa di un territorio che, a partire dagli anni novanta, è investito da rapidi processi di mutamento, ristrutturazione, se non
sconvolgimento, economici e sociali: non a caso alcuni studiosi, per definire l’ideologia della Lega Nord, hanno usato la formula di «etnocapitalismo». I miti e la retorica etnicisti e localisti hanno avuto l’effetto di coagulare interessi diversi o addirittura opposti: di quel padronato che coltiva il sogno di
un mondo a misura di flessibilità totale e di certi strati operai delusi dalla sinistra e dal sindacato, gli uni e gli altri colpiti dagli effetti della ristrutturazione neoliberista, ma i primi in gran parte come vincenti, i secondi come perdenti.
Gli effetti della globalizzazione sono altrettanto rilevanti sul piano culturale e identitario, ed è anche questo genere di mutamenti che può spiegarci la crescita della xenofobia. Come ha intuito Michel de Certeau (2007), la stigmatizzazione dello straniero ha a che fare anche con alcuni caratteri propri
delle società occidentali postmoderne: l’atomizzazione, l’individualismo, la cancellazione progressiva delle gerarchie simboliche fanno sì che l’immigrato e il minoritario siano investiti del ruolo di figura antinomica, «per una folla sempre più deprivata di rappresentazioni proprie». L’identità degli «altri
», drammatizzata, serve così a compensare la propria indifferenziazione. In tal modo, come egli conclude icasticamente, «l’immigrato diventa l’antidoto dell’anonimo» (ivi, p. 199). Il che ha un versante paradossale, poiché il migrante è anche colui che più di altri è costretto a destreggiarsi e a mediare fra luoghi, mondi e riferimenti identitari diversi.
Inoltre, poiché i migranti incarnano l’etica del lavoro e del sacrificio – risorsa culturale decisiva per la riuscita di qualsiasi «progetto migratorio» – è qui forse che possiamo rintracciare una delle ragioni della xenofobia: la maggior parte di loro sono percepiti, più o meno inconsciamente, come estranei
o incompatibili con l’etica «edonistica» e consumistica dominante, ricordando agli «autoctoni» un passato di sacrifici che si vuole dimenticare a tutti i costi, anche quando si conduce un’esistenza tutt’altro che agiata.
Questa è solo una – conviene ripeterlo – delle tante possibili spiegazioni della xenofobia, alla cui base vi è un intrico di concause. Fra le quali, si possono richiamare quelle tendenze che i già citati Taliani e Vacchiano definiscono fantasma della predazione e fantasma della contaminazione. Il primo «è
sottolineato prevalentemente dai possibili competitori sul mercato del lavoro, soggetti di bassa estrazione sociale e con interessi vicini a quelli degli immigrati»; il secondo «viene più facilmente enfatizzato da individui preoccupati della salvaguardia di uno spazio ’etnicamente’ omogeneo» (Taliani, Vacchiano, 2006, pp. 179-180). I due fantasmi si rafforzano reciprocamente
e alimentano le retoriche, spesso strumentalizzate per scopi politici, che assimilano la «clandestinità» – o più in generale l’immigrazione – alla devianza e alla criminalità.
Ai due fantasmi succitati si potrebbe aggiungere il fantasma della decadenza o del crollo: spesso i migranti sono percepiti e rappresentati da certa propaganda politica come agenti della nostra decadenza o del possibile crollo della «civiltà occidentale». Si sa, la «modernità liquida» (Bauman, 2002) alimenta incertezza e paura del mutamento e del futuro. E i migranti vengono collocati in uno spazio simbolico che allude non solo a un passato vergognoso e rimosso, ma anche a un futuro incerto e temuto da molti «autoctoni». Per questi ultimi, l’unica modernità accettabile e rassicurante è quella che assume l’aspetto di uno spazio locale contaminato sì dal globale, ma solo nella forma del consumismo: un locale, si potrebbe dire, nel quale i soli agenti «cosmopoliti» visibili siano l’ipermercato, la televisione e i loro prodotti.
I migranti, che pure della ristrutturazione globale sono l’effetto, e delle economie e del mercato globalizzati sono i pilastri per quanto umili, sono accettabili solo se del tutto invisibili, se non osano invadere lo spazio pubblico con le loro presenze, corpi, culture, segni, simboli, abiti, abitudini. Come annotava ironicamente lo scrittore svizzero Max Frisch, citato da Bauman (1999, p. 70): «Ce ne sono proprio troppi: non tanto nei cantieri di costruzione e nelle fabbriche, e neppure nelle stalle e nelle cucine, ma nel tempo libero. Specialmente la domenica, improvvisamente, ce ne sono troppi».
Perché un giorno – temiamo lontano – questi «troppi» possano essere percepiti e accettati come una parte normale, costitutiva e legittima del variegato paesaggio umano, sociale e civile della tarda modernità, occorre che si realizzino molte condizioni. Fra queste, la possibilità che i «troppi» inneschino processi di presa di parola e di soggettivazione.
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