Alberto Mingardi, Salvate Bocca di rosa dalla galera

• da Il Riformista del 11 settembre 2008, pag. 1

Alberto Mingardi

Salvate Bocca di rosa dalla galera
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L’unica libertà degna di questo nome è quella di perseguire il proprio bene a modo proprio. Sarebbe eccessivo liquidare così, rispolverando il vecchio John Stuart Mill, il disegno di legge «Misure contro la prostituzione» che arriverà in Consiglio dei ministri giovedì, iniziativa del ministro Mara Carfagna. Il ddl non mette fuori legge la prostituzione, ma rende illegale quella “stradale”: prevedendo per i trasgressori, prostitute o clienti che siano, sanzioni fino all’arresto.

Sorvoliamo sul non trascurabile dettaglio che un esito possibile del provvedimento, è quello di riempire le nostre carceri di persone che hanno commesso un “crimine senza vittime”. In gioco, stavolta, c’è anche il modo d’intendere i limiti dello Stato, il raggio d’azione della politica. Il ministro Carfagna è persona ragionevole e di sentimenti liberali. Speriamo ci ripensi.

È vero che la prostituzione di strada non è una forma particolarmente gradevole di arredo urbano. È vero che crea problemi, imbarazzi, un senso diffuso di insicurezza e precarietà in tante famiglie – che rincasano nelle periferie delle grandi città. E vero che sarebbe auspicabile un mercato del sesso più discreto e sicuro, più trasparente e pulito, gioiosamente ludico come le vetrine di Amsterdam o più appartato non importa: riservato a chi ne vuole fruire, che non “inquini” la vita degli altri.

Detto questo, il governo non ha, e comprensibilmente, un disegno coerente. Le proposte volte ad aprire quartieri a luci rosse in Italia (da quella di Tiziana Maiolo a Milano nel ‘92 in poi) non hanno mai avuto vita facile: troppo difficile creare consenso, troppo incombente lo spettro di un crollo dei valori immobiliari nelle zone deputate, troppo forte il pregiudizio contro la “normalizzazione” del sesso a business fra gli altri. Si possono biasimare i pregiudizi, ma pure i pregiudizi hanno un senso.

Il nodo di Gordio della disciplina della prostituzione, in Italia, è l’illecito dello sfruttamento e dell’adescamento che, detto per inciso, non ha mai eccessivamente spaventato i criminali. Lo sfruttamento della prostituzione è brutta espressione che designa storiacce di cronaca ma, al fondo, è anche un “mestiere”. La necessità di questo mestiere è palmare quando si pensa a tutti i rischi che chi batte, più o meno consapevolmente, corre. E sacrosanto provare a frenare fenomeni di marca schiavile. Ma mantenendo nel perimetro dell’illegalità la mera prospettiva di dare organizzazione imprenditoriale al business del sesso, si decreta l’impossibilità della sua “normalizzazione”. Levare le donnine dalle strade sarebbe poi questo.

Svariati tentativi di “fare pulizia”, a livello locale e nazionale, sono finiti nel nulla. Mara Carfagna può scrivere il proprio nome in coda alla lista dei moralizzatori. Oppure può ritirare mano e sasso. E non in virtù di un’altra visione della possibile “regolazione” del mercato del sesso. Ma perché un governo ha tutto il diritto, di non avere alcuna visione coerente della “regolazione” del mercato del sesso. Ha il diritto di rimanere in silenzio, quando si parla di cose che attengono la sfera dei comportamenti più privati, del modo che un individuo ha di intendere la propria sessualità, di un commercio troppo particolare perché richieda una partita Iva.

È il mestiere più antico del mondo, sopravvissuto a un millenario via via non di governi, ma di sistemi politici, all’ascesa e alla caduta di interi Stati. L’educazione insegna che ci sono cose di cui, a tavola, sta meglio non dire. Chiudere gli occhi può essere l’alternativa più dignitosa. Figurarsi in situazioni politicamente ed economicamente complesse, quando l’agenda è altra. Il pil non cresce, l’Italia è ferma, e il governo arresta Bocca di rosa? da L’ ESPRESSO 8 SETTEMBRE 2008
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Il testo che ‘L’espresso’ anticipa in queste pagine, è tratto da ‘L’era post-americana’, un saggio provocatorio e pieno di dati sorprendenti di Fareed Zakaria, in uscita per i tipi di Rizzoli. L’autore ha 44 anni, è nato e cresciuto in India, e dirige l’edizione internazionale di ‘Newsweek’. Nelle 280 pagine del libro, Zakaria dice: gli Stati Uniti stanno perdendo il predominio sul pianeta, perché la globalizzazione ha funzionato e stanno emergendo tanti nuovi centri di potere dislocati ovunque nel mondo. Gli Usa, dovrebbero prenderne coscienza, per frenare la propria caduta e per limitare i danni per se stessi e per il resto del mondo.

Little America
di Fareed Zakaria
È un cambiamento epocale. La globalizzazione funziona. Diminuiscono la povertà e la violenza. E così il baricentro del pianeta non è più negli Usa. Lo dice nel suo libro il direttore di ‘Newsweek’
Nel corso degli ultimi cinquecento anni ci sono stati tre cambiamenti fondamentali nella distribuzione del potere che hanno rimodellato lo scenario internazionale sul piano politico, economico e culturale. Il primo è stato l’ascesa del mondo occidentale, un processo iniziato nel XV secolo e che ha avuto una drammatica accelerazione verso la fine del XVIII. Questo fenomeno ha prodotto la modernità come la conosciamo oggi: la scienza e la tecnologia, il commercio e il capitalismo, la rivoluzione agricola e quella industriale. Il secondo cambiamento, che ha avuto luogo negli ultimi anni del XIX secolo, è stato l’ascesa degli Stati Uniti. Negli ultimi vent’anni, il loro predominio non ha avuto rivali; un fenomeno senza precedenti nella storia moderna.
Oggi stiamo attraversando il terzo grande spostamento di potere dell’era moderna. Potremmo chiamarlo ‘l’ascesa degli altri’, del resto del mondo. Negli ultimi decenni, in molti Paesi si sono registrati tassi di crescita economica che un tempo sarebbero stati inconcepibili. Pur con alti e bassi, la tendenza generale è stata al rialzo. Questa crescita si è rivelata con più evidenza in Asia, ma non è confinata solo lì; per tale motivo, indicare questo cambiamento come ‘l’ascesa asiatica’ non sarebbe una descrizione accurata. Nel 2006 e nel 2007, 124 Paesi sono cresciuti a un tasso annuo pari o superiore al 4 per cento. Tra questi ci sono più di 30 Stati africani, i due terzi dell’intero continente. Antoine van Agtmael, il manager di fondi d’investimento che ha coniato l’espressione ‘mercati emergenti’, ha identificato le 25 aziende che probabilmente diventeranno le prossime grandi multinazionali del mondo: l’elenco comprende quattro compagnie del Brasile, del Messico, della Corea del Sud e di Taiwan, tre dell’India, due della Cina e una del Cile, dell’Argentina, della Malaysia e del Sudafrica.
Guardatevi intorno. Oggi l’edificio più alto del mondo si trova a Taipei, e verrà presto superato da un altro a Dubai. L’uomo più ricco del mondo è un messicano, e la maggiore società quotata in Borsa è cinese. La più grande raffineria è in costruzione in India e le maggiori fabbriche si trovano in Cina. Londra sta diventando il principale centro finanziario del mondo, e gli Emirati Arabi Uniti sono patria dei fondi d’investimento più redditizi. Gli stranieri si stanno appropriando di quelle che un tempo erano alcune delle icone americane. La più grande ruota panoramica del mondo si trova a Singapore. Il più grande casinò non è a Las Vegas, bensì a Macao che ha superato Las Vegas anche sul piano degli introiti per il gioco d’azzardo. La più grande industria cinematografica è l’indiana Bollywood, non Hollywood. Dei primi dieci centri commerciali del mondo, solo uno si trova negli Stati Uniti; il più grande del mondo è a Pechino. Anche se si tratta di elenchi arbitrari, colpisce il fatto che solo dieci anni fa l’America era al primo posto in molte – se non addirittura nella maggior parte – di queste categorie.
Potrebbe sembrare strano concentrarsi sulla crescente prosperità quando ci sono centinaia di milioni di uomini che vivono nella miseria. Di fatto, però, la percentuale di persone che vivono con un dollaro (o meno) al giorno è crollata dal 40 per cento del 1981 al 18 per cento del 2004 e, secondo le stime, dovrebbe scendere al 12 per cento nel 2015. Da sola, la crescita della Cina ha fatto uscire dalla miseria più di 400 milioni di persone. La povertà è in crollo in paesi che ospitano l’80 per cento della popolazione mondiale. I 50 paesi dove vivono i popoli più poveri della Terra sono casi disperati che necessitano di urgente attenzione. Negli altri 142 – che includono la Cina, l’India, il Brasile, la Russia, l’Indonesia, la Turchia, il Kenya e il Sudafrica – i poveri vengono lentamente assorbiti all’interno di economie in continuo sviluppo. Per la prima volta stiamo assistendo a una crescita che può dirsi davvero globalizzata. Questo processo sta creando un sistema internazionale in cui i paesi di tutti i continenti non sono più oggetti o osservatori, ma partecipanti a tutti gli effetti. È la nascita di un ordine realmente mondiale.
(Un altro aspetto di questa nuova era è dato dal fatto che il potere si sta diffondendo dagli Stati ad altri soggetti. Fra gli ‘altri’ che stanno emergendo sono inclusi soggetti privati. Gruppi e individui hanno acquisito potere, e la gerarchia, la centralizzazione e il controllo vengono scalzati alla radice. Diverse funzioni, gestite un tempo dai governi, vengono condivise con entità internazionali come il Wto (l’Organizzazione mondiale per il commercio) e l’Unione europea. I gruppi non governativi spuntano come funghi ogni giorno, su ogni questione e in ogni paese. Le società e i capitali si spostano dappertutto e di continuo alla ricerca dei posti migliori dove fare affari, e in questo modo vengono a premiare alcuni governi e a punirne altri. Reti terroristiche come Al Qaeda, cartelli del narcotraffico, rivoltosi e milizie di ogni sorta stanno trovando il loro spazio d’operazione in ogni angolo del sistema internazionale. Il potere si sta allontanando dagli Stati-nazione, in tutte le direzioni.
Il sistema internazionale che sta emergendo sarà probabilmente assai diverso da quelli che lo hanno preceduto. Un secolo fa c’era un ordine multipolare retto da un gruppo di governi europei e segnato da continui cambiamenti di alleanze, con rivalità, errori di calcolo e guerre. Arrivò poi il duopolio della guerra fredda, più stabile sotto molti aspetti ma con due superpotenze ognuna delle quali reagiva, a volte in modo esagerato, a tutte le mosse dell’altra.
A partire dal 1991, abbiamo quindi vissuto sotto un impero americano, in un mondo unipolare in cui l’economia globale aperta si è espansa con una drammatica accelerazione. Questa espansione sta oggi facendo da spinta al nuovo cambiamento nella natura dell’ordine internazionale. In ogni dimensione – industriale, finanziaria, educativa, sociale, culturale – la distribuzione del potere si sta spostando, allontanandosi dal predominio americano (ad eccezione della dimensione militare). Ciò non significa che stiamo entrando in un mondo anti-americano. Stiamo entrando in un ‘mondo post-americano’, definito e guidato da molti luoghi e da molte persone.
Immaginate di essere tornati nel gennaio 2000 e di chiedere a un indovino di predire quale sarà il corso dell’economia globale negli anni successivi. Per aiutarlo, poniamo che gli diate qualche indizio. Gli Stati Uniti saranno colpiti dal peggior attacco terroristico nella storia e risponderanno lanciando due guerre, una delle quali andrà male e manterrà l’Iraq, il terzo paese al mondo per riserve petrolifere, nel caos. L’Iran si rafforzerà in Medioriente e farà passi avanti verso l’acquisizione di capacità nucleari. La Corea del Nord si spingerà oltre, diventando l’ottava potenza nucleare dichiarata del mondo. La Russia riacquisterà un atteggiamento ostile e imperioso nei confronti dei suoi vicini e dell’Occidente. In America Latina, il presidente venezuelano Hugo Chávez lancerà la più accesa campagna anti-occidentale mai vista da una generazione a questa parte, conquistando alleati e ammiratori. Israele e Hezbollah combatteranno una guerra nel Libano, destabilizzando il fragile governo di Beirut, tirando dentro Iran e Siria. Gaza diventerà uno Stato fallito governato da Hamas, e i colloqui di pace tra Israele i palestinesi non porteranno da nessuna parte. “Dati questi eventi”, chiedete all’indovino, “come andrà l’economia globale nei prossimi sei anni?”.
Non si tratta di una semplice ipotesi. Abbiamo le previsioni formulate da esperti in quegli anni. Si sono dimostrate tutte sbagliate. La previsione corretta sarebbe stata quella di dire che tra il 2000 e il 2007 l’economia sarebbe cresciuta al ritmo più veloce mai raggiunto in quasi quattro decenni. Il reddito pro capite nel mondo sarebbe salito di un tasso più alto (il 3,2 per cento annuo) di quello mai registrato in qualunque altro periodo storico.
Sembrerebbe però che stiamo vivendo in un tempo segnato da una folle violenza. Ma non si deve credere a tutto quello che si vede in tv. Le nostre impressioni sono sbagliate.
Nel corso degli ultimi due decenni, la guerra e la violenza organizzata sono diminuite. Ted Robert Gurr e un gruppo di studiosi del Centro per lo sviluppo internazionale e la gestione dei conflitti dell’Università del Maryland hanno analizzato i dati e sono giunti alla seguente conclusione: “L’estensione generale della guerra sul piano globale è diminuita di oltre il 60 per cento (dalla metà degli anni Ottanta), scendendo alla fine del 2004 ai suoi livelli più bassi mai raggiunti dalla fine degli anni Cinquanta”. Il livello della violenza aveva continuato a crescere stabilmente durante tutta la Guerra fredda, aumentando di sei volte tra gli anni Cinquanta e i primi anni Novanta, il trend ha raggiunto il picco poco prima del collasso dell’Unione Sovietica, nel 1991, ma poi, “la portata dei conflitti tra diversi Stati e al loro interno è diminuita di quasi la metà nel primo decennio successivo alla Guerra fredda”.
L’eclettico professore di Harvard Steven Pinker sostiene “che oggi stiamo probabilmente attraversando il periodo più pacifico dell’esistenza della nostra specie”. Una ragione di questa discrepanza tra la realtà e la percezione che ne abbiamo potrebbe essere data dalla rivoluzione tecnologica dell’informazione, cui abbiamo assistito negli ultimi decenni, e che oggi ci porta in casa le notizie di tutto il mondo in modo istantaneo, vivido e continuo. L’immediatezza delle immagini e l’intensità del ciclo ininterrotto di notizie che ci raggiungono 24 ore su 24, si uniscono per produrre una costante iperbole. Ogni perturbazione atmosferica diventa ‘la tempesta del secolo’. Ogni bomba che esplode rientra subito nelle ‘ultime notizie’. È difficile contestualizzare tutto questo, proprio perché la rivoluzione dell’informazione è una realtà molto recente.
Oggi, assistiamo infatti, quasi tutti i giorni, a trasmissioni in diretta sugli effetti degli ordigni esplosivi improvvisati, delle autobombe o dei razzi; eventi tragici, certo, ma dove spesso il bilancio dei morti non raggiunge le dieci persone. La casualità della violenza terroristica, il fatto che vengano presi a bersaglio dei civili e la facilità con cui è possibile penetrare nelle società moderne contribuiscono ad accrescere il nostro senso di inquietudine. “Sarebbe potuto toccare a me”, dice la gente dopo un attentato terroristico. L’impressione è quella di un mondo estremamente pericoloso. Ma le cose non stanno così. La probabilità di morire in seguito a un episodio di violenza organizzata di qualunque tipo è bassa e continua a scendere. I dati mostrano un’ampia tendenza alla diminuzione delle guerre tra i maggiori paesi, quel genere di conflitti che producono ingenti numeri di vittime.
(08 settembre 2008)

Alberto Mingardi, Salvate Bocca di rosa dalla galeraultima modifica: 2008-09-11T21:37:00+02:00da mangano1
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