Guido Viale, Tiro al bersaglio contro il 68

Da IL MANIFESTO 12 settembre 2008
guido viale, tiro a bersaglio contro il 68

BULLISMO SMEMORATO DEGLI OPINION MAKERS
Ottusità UNIVERSITARIA
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Le accuse al 68 di Giulio Tremonti, Ernesto Galli della Loggia e di Mariastella
Gelmini di essere il responsabile del degrado delle facoltà e delle scuole
italiane hanno l obiettivo di imporre una concezione autoritaria e aziendalista
sulla produzione e trasmissione del sapere
GUIDO VIALE

Mentre si esaltano i combattenti di Salò, si torna a fare il tiro al bersaglio
contro il ’68. Addirittura presentandolo come ideologia del «nullismo»,
accanto alle altre ideologie scadute quali fascismo, comunismo, socialismo e
«mercatismo» (Tremonti). Non penso che se ne debba fare l’apologia, ma
l’immagine del Sessantotto che traspare da molti interventi e che viene
trasmessa alle nuove generazioni comporta dei rischi per tutti: vecchie e
nuove generazioni. Perché mai, ci si dovrebbe chiedere, quarant’anni fa il
mondo accademico non è stato in grado di prevedere né di contenere
l’ondata della contestazione studentesca, nonostante che i segnali per
aspettarsela ci fossero tutti: da Berkley a Pechino, da Amsterdam a Berlino,
da Praga a Tokyo? E perché il mondo politico e governativo non era stato
capace di affrontare in modo sensato l’esplosione dei movimenti di massa
degli anni seguenti? E il mondo imprenditoriale l’insorgenza operaia nelle
sue fabbriche? Per ottusità . Non per ottusità individuale (il quoziente
intellettivo era nella media), ma per una forma di «ottusità sociale» che
rimanda alla temperie culturale di quegli anni: alle cose che ciascuno
riteneva importanti e a quelle che riteneva irrilevanti. Una gerarchia di priorità
che il Sessantotto avrebbe sovvertito alle radici. A quarant’anni di distanza la
comprensione del Sessantotto da parte degli uomini e delle donne al potere
sembra non aver fatto passi avanti. Di qui l’interpretazione dei disastri in cui
siamo immersi come se fossero il frutto del Sessantotto; e non, invece,
dell’incapacità delle classi dirigenti, allora, di rapportarsi con esso e, in
seguito, del suo soffocamento: in Italia particolarmente pesante perché
costellato da stragi di Stato (non una, ma almeno dieci) e dal terrorismo:
entrambi stupidamente assimilati ai movimenti di massa dell’epoca. Come se
l’esercito sconfitto fosse responsabile dei saccheggi perpetrati dal
conquistatore; o le guardie dei furti del ladro che non hanno saputo arrestare.
Mondi paralleli Il Sessantotto ritorna così sul banco degli imputati ad opera, in
realtà, di coloro che più se ne sono avvantaggiati: individui e gruppi che mai
avrebbero raggiunto le posizioni che hanno oggi, né potuto attivare gli
strumenti del potere che hanno fatto la loro fortuna, né sentenziare nel modo
spregiudicato che hanno adottato, né ostentare comportamenti che non
hanno più bisogno di nascondere, se allora un intero mondo non fosse
crollato, sgombrando la strada al loro successo. Invece, disconoscendo
questo incontrovertibile dato, la proposta politica che ci presentano è di fare
come se il Sessantotto non ci fosse stato. Di ricominciare da «prima del
Sessantotto». E ricominciare naturalmente (come allora), dalla scuola. Lo ha
fatto sul Corriere della Sera Ernesto Galli della Loggia: con una descrizione
dello stato delle cose (la «perdita di senso della scuola italiana») tanto
corretta quanto scontata; per passare subito alla sua ricetta per «uscirne
fuori»: ritrovare un collante culturale nella storia e nella letteratura italiane
quali vettori di una ritrovata identità nazionale: quella che il Sessantotto ha
cancellato. Una proposta che equivale al rifiuto di confrontarsi con il presente;
poco importa che Galli la integri chiedendo maggiore spazio alla matematica
per affrontare il futuro: la matematica, senza una griglia di interpretazione del
presente, non è di aiuto per nessuno. Viviamo in un’epoca di globalizzazione,
di «connettività» a tutto campo, di migrazioni che trasformano il nostro habitat
– che lo vogliamo o no – in un ambiente multiculturale, di crisi ambientale
planetaria, di guerre locali permanenti (altro che il Vietnam: un evento singolo
che era bastato a cambiare la vita a un’intera generazione), di manipolazioni
incontrollata delle basi biologiche delle nostre esistenze, di modifica
permanente dello statuto degli affetti e dei sentimenti. Una scuola che non
guidi a confrontarsi con questi problemi è condannata alla marginalità e
all’irrilevanza. Cioè a quella perdita di senso che Galli della Loggia imputa al
Sessantotto e che il Sessantotto aveva invece cercato – senza riuscirci, o
riuscendoci malamente, e per troppo poco tempo – di superare. Non che tutto
ciò elimini l’importanza degli snodi della storia e della letteratura italiane,
come di quelle greche, romane o ebraiche (le nostre famose «radici»!), per
comprendere e interpretare il mondo d’oggi. Ed è altrettanto vero che la
letteratura zulù – se esiste non ha prodotto un Tolstoj (e neanche un Dante),
come aveva fatto notare a suo tempo Saul Bellow; per cui sarebbe certo
sbagliato «mettere tutto sullo stesso piano». Ma rinchiudere il problema
dell’educazione – che non è solo «scuola» in senso stretto, ma anche e
soprattutto formazione permanente – nei confini di una identità nazionale da
ritrovare è una nuova manifestazione di quell’ottusità sociale nei confronti del
presente che aveva impedito all’establishment del tempo (e impedisce
ancora a quello di oggi) di fare i conti con il Sessantotto. In nome del Pil
Rispondendo a Galli il tre volte ministro dell’economia Giulio Tremonti ha
proposto addirittura di abolire il numero 1968 (per scaramanzia; come sugli
aerei dell’Alitalia e/o Cai è abolita la fila 17, perché nessuno vuole sedersi lì)
e rivalutare invece i numeri 10, 9, 8, 7, 6, ecc. Cioè voti al posto di giudizi
(ottimo, buono, discreto, insufficiente): il che, come ha fatto notare Tito Boeri
su lavoce.info non cambia proprio niente. Ciò a cui Tremonti voleva forse
alludere è l’eliminazione di tutte quelle scartoffie che gli insegnanti sono
costretti a compilare invece di aggiornarsi e di preparare le lezioni. Ma
questo, con il Sessantotto, che cosa c’entra? Sono stati forse i cortei, le
assemblee e i gruppi di studio del Sessantotto a introdurre quelle scartoffie?
C’è qualcosa di ottuso in questo culto dei numeri di Tremonti, che non ha
niente a che fare con il culto della matematica di Galli. È quella stessa ottusità
sociale che spinge il ministro Renato Brunetta (un altro nemico del ’68) a
misurare la produttività della Pubblica amministrazione con le ore di
presenza degli impiegati dietro le scrivanie. Ottusità tanto maggiore perché
entrambi, come tutti gli economisti, sommano poi salari e stipendi erogati
(risparmiandoci, bontà loro, bustarelle e tangenti) per calcolare il «valore
aggiunto» della Pubblica Amministrazione: cioè il suo contributo al Pil,
indicatore supremo di successo o di insuccesso di una politica («Crescita!
Crescita! Crescita!»). Ben prima di Serge Latouche (il teorico della
«decrescita»), era stato il ’68, e prima ancora Robert Kennedy, a sostenere
che le cose non stanno così: perché la «produttività» di una persona, cioè il
suo contributo al bene comune , va misurata in modi – certo più complessi e
aleatori, perché più «mirati» su contesti specifici e circoscritti – capaci di
promuovere la responsabilità di tutti (a partire da chi ha ruoli dirigenti): non
solo per quanto (quante pratiche, e per quante ore?) e per come (magari
eliminando i passaggi inutili) si fa un determinato lavoro; ma anche per quello
che si fa: entrando cioè nel merito degli obiettivi che si perseguono con quel
lavoro. Il che non si può fare in ordine sparso, ciascuno per conto proprio, ma
solo in modo collettivo : attraverso una consultazione reciproca di chi è
coinvolto: se si vuole, quelli che oggi si chiamano stakeholder . Educazione
catodica Infine, sempre sul Corriere della Sera , ecco in sette parole la ricetta
del ministro Mariastella Gelmini: «Autorevolezza, autorità, gerarchia,
insegnamento, studio, fatica, merito». Caduto ogni riferimento alle «Tre I»
(inglese, informatica e impresa) della precedente «riforma della scuola»,
sponsorizzata dal suo principale, e mai realizzata e nemmeno tentata. Era
solo una trovata, come lo è questa: per nascondere il vuoto di proposta e
soprattutto di finanziamenti. Ma, prescindendo dall’autorevolezza (che ha
poco a che fare con le strade che hanno portato il ministro Gelmini al governo
del paese, o anche solo a diventare avvocato), se autorità e gerarchia si
combinano bene in un manifesto anti-’68 (ma in epoca di «organigrammi
piatti» persino nelle aziende, la cosa suona un po’ retrò ), la fatica non
sempre è merito (è più spesso una condanna senza contropartite) e, quanto
al rapporto tra insegnamento e studio, rimane aperto il quesito di che cosa
insegnare e che cosa studiare perché queste due attività non girino a vuoto.
Problema non secondario. Quello che il ministro Gelmini comunque non può
spiegare è con quali strumenti – con quale «temperie culturale» intenda
imporre nelle scuole il ritorno ai valori che propone. Forse con la cultura che
da oltre trent’anni il suo principale diffonde in Italia con le televisioni (sia
quelle sue che quelle non sue): pubblicità, reality show , calcio e fiction
edificante (Tette, Totti e Padre Pio)? E da dove hanno imparato il bullismo gli
studenti? Glielo ha insegnato il Sessantotto o il mondo attuale dagli adulti che
ne è pervaso fin dentro le «istituzioni»? E chi lo ha insegnato e lo insegna a
entrambi, grandi e piccini? Non è forse quel sistema di «educazione
permanente televisiva» che ha messo da tempo al palo – niente di più facile,
d’altronde: sono più le ore passate davanti al televisore che quelle sui banchi
di scuola – quei «contenuti» incentrati su storia e letteratura nazionali che
Galli della Loggia propone di reintrodurre a scuola per restituirle «senso»?
Senza essersi accorto, peraltro, che sono proprio quelle le cose che si
continua a cercare di insegnare nelle nostre scuole; con sempre minor
successo. Perché sempre meno gli insegnati, e soprattutto l’istituzione, sono
messi in grado di misurarsi con i problemi che la condizione esistenziale
delle nuove generazioni pone loro di fronte.

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Guido Viale, Tiro al bersaglio contro il 68ultima modifica: 2008-09-12T22:36:00+02:00da mangano1
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