A.Sofri,E.Bonino, La coperta di Mazzini

da notizie radicalio 26/set/08, a venerdì 26 settembre 2008 La coperta di Mazzini • Il Foglio di Adriano SofriIl testo che segue è stato letto da Emma Bonino al convegno londinese sul 20 settembre, svoltosi nei giorni scorsi, Per questa occasione era stato compilato da lei e da Adriano Sofri. E’ difficile pensare al 20 settembre, per di più a Londra, senza pensare a Giuseppe Mazzini. A Mazzini si pensa con soggezione, e magari si preferisce metterlo da parte, tanto la sua figura è diventata controversa, e la sua opera sterminata. Oppure si conserva la figurina d’infanzia, quella della collezione di eroi del Risorgimento. Del tempo in cui gli eroi erano ancora eroi, e senza macchia. Però anche chi sia ignaro degli studi su Mazzini, che sono ricchissimi e ancora più meriterebbero di esserlo, non può fare a meno di stupirsi di come il suo nome gli venga incontro nei più disparati angoli dei mondo, nell’India di Gandhi o a Budapest o nella Belgrado del nazionalismo serbo. E ogni volta, il 20 settembre, vien fatto di chiedersi dove fosse Giuseppe Mazzini,, nel giorno in cui si realizzava il suo sogno, e si compiva il cammino segnato nella incredibile avventura della Repubblica Romana del 1848. Quel giorno Mazzini era a Gaeta, in una galera del Regno d’Italia. Un paio di anni fa c’è stata a Genova una grande mostra dedicata alla pittura e Mazzini. In realtà vi si trattava di Mazzini critico e presentatore, proprio in Inghilterra, della contemporanea pittura italiana, dei Romantici e dei Macchiaioli. Ma grazie a quell’allestimento i visitatori potevano vedere un quadro impressionante di Silvestro Lega. Il quadro si intitola “Gli ultimi momenti di Mazzini morente”. Lega (1826-1895) fu buon patriota e ottimo pittore. Nato a Modigliana (Forlì) e diventato poi fiorentino e macchiaiolo, lo dipinse nel 1873, un anno dopo la morte di Mazzini. Lega era corso a rendere l’estremo saluto alla salma di Mazzini, in una casa di Pisa. Aveva eseguito degli schizzi, che usò poi per il dipinto. E’ una tela rettangolare, non è grande, 75 centimetri per neanche un metro. Le pareti della stanza che ospita il morente sono spoglie. Mazzini giace su un fianco, gli occhi chiusi, la testa poggiata su un paio di bianchi cuscini verticali, un lenzuolo bianco stropicciato. E’ avvolto in una coperta, un plaid a piccoli quadri grigi e neri. La coperta è la protagonista della piccola storia che voglio oggi ricordare. C’è in tutto il quadro un’idea di sofferenza composta ormai nella fine, di lontananza e insieme di una prossimità povera e dignitosa. Non c’è niente di retorico, niente di commemorativo. Niente che serva alla collezione di figurine. Mazzini morì così, in una casa pisana, senza nemmeno il proprio nome. Si chiamava signor Brown, Giorgio Rosselli Brown, commerciante israelita. La casa era di proprietà di Sara Nathan Rosselli e di sua figlia Janet. Vediamo di dipanare questo filo sorprendente come un appuntamento attraverso i tempi e i luoghi. Ma cominciamo dal destino del quadro, che è già pieno di insegnamenti. Qualcuno fra i contemporanei non mancò di coglierne la suggestione. Diego Martelli, il mentore italiano di macchiaioli e impressionisti, vi riconobbe “una delle più viventi pagine e delle più commoventi della pittura italiana”. Però i fervidi mazziniani erano poveri, il quadro finì per perdersi qua e là senza trovare acquirenti, fino al 1959, quando fu la Christie’s a metterlo all’asta a Londra. Alla mostra di Genova (e poi a una mostra mazziniana di Forlì, due anni fa) figurava solo grazie a un prestito. Infatti il quadro di Lega è proprietà del museo della scuola di design di Providence, Rhode Island, Stati Uniti. Che storia, eh? E la coperta? Era stata di Carlo Cattaneo. Aveva avvolto nel suo letto di morte quel grande patrono del federalismo democratico italiano. Cattaneo non vide il 20 settembre romano: era morto a Castagnola, Lugano, il 16 febbraio 1869. Anche Mazzini aveva soggiornato là per anni. Sara Nathan era la loro comune, carissima amica. Aveva preso in consegna il plaid, e l’aveva trasmesso, tre anni più tardi, a quello strano signore inglese di Pisa, che si chiamava Brown, ma parlava un italiano migliore di quello di tutti gli italiani che lo incontravano attorno al numero 38 di via della Maddalena. La via più deserta della città. Anche Ferdinando Martini, che fu letterato e uomo di stato, e allora era un giovane insegnante, accorse al capezzale di Mazzini. Lui insegnava allora a Pisa, a poca distanza da lì. Scrisse, il giorno dopo, il primo articolo sulla morte di Mazzini. Scritti e discorsi tenuti nell’emozione di quei giorni gli valsero l’espulsione dall’insegnamento. Ecco che cosa scrisse: “Una delle finestre della Scuola dava verso un orticello nel quale avevo visto più volte, in mattine assolate, passeggiare lentamente un vecchietto di mediocre statura. Fortuna volle che una sera dell’inverno 1872 uscissi dalla scuola, dove nel pomeriggio non avevo occasione di andar quasi mai, mentre passava per quella strada accompagnato da un servo il vecchietto medesimo. Non lo conoscevo, e per conseguenza era non pisano: ché a Pisa, dopo un paio di mesi di soggiorno, la gente della propria condizione si conosce tutta, ed io ci stavo da un anno ormai… Nonostante la cera malaticcia, il viso macilento e non bello, c’era nella bella fisionomia di quell’uomo tanto di pensosa gravità malinconica, che mi fece impressione; e, improvvisati fra me e me i rudimenti di una biografia, dedussi che quegli era certamente un forestiere o francese o inglese; forse uno scienziato venuto a Pisa per salute. Voltò in via della Maddalena, ed entrò nella casa al n.° 38. Chi stava in quella casa? Non lo sapevo, e lì per lì incuria sito, mi proposi di informarmene: ma, come sempre avviene di cosiffatti proponimenti subitanei, trascorso quel momento, non me ne detti più cura. Qualche settimana dopo, nel ripassare per la stessa strada, m’imbattei nel medico Rossini che stava appunto uscendo da quella casa. – Oh! giusto lei, dottore: chi ci sta al n° 38? – I signori Rosselli. – Ci vidi tempo fa entrare un signore smunto, bassotto; deve essere un forestiere. – E’ il mio malato. Lo lascio ora: il signor Brown. – Ah! un inglese! Ci ho indovinato. – Eh! no. Anch’io dal cognome credei così da principio: ma poi, praticandolo, – come può essere inglese – pensai – se parla l’italiano meglio di me?… Difatti, accortosi della mia incredulità, fu lui a dirmi senza che io mi permettessi di domandarglielo, che abita da quarant’anni in Inghilterra, ma è italiano, di Genova. – Lo avevo preso per un inglese e per uno scienziato. – No, no: è un negoziante, ma ne sa più di molti scienziati; e quando comincia a parlare, si starebbe tutta la giornata a sentirlo. E parlammo d’altro. /…/ Una mattina del marzo successivo me ne stavo tranquillamente a casa quando un facchino trafelato mi recapitò un biglietto del direttore della scuola; conteneva queste sole parole: ‘C’è bisogno di te: vieni senza perdere un minuto”. Non lo perdei, e in due salti fui a Sant’Antonio. Mi avvidi subito al brusio che si trattava di cosa seria. Gli alunni, disertate le aule, s’erano radunati nel cortile, per gruppi: e in quel gruppo si mormorava, in questo si vociava, in tutti si gesticolava… – Che cos’è stato? – Come? non lo sai? – lo? Non so nulla. – E’ morto Mazzini. – Dove? Quando? – Poche ore fa, a due passi di qui, in casa Rosselli in via della Maddalena. – Ah! – gridai battendomi la mano sulla fronte – che mi dite? Un genovese che si chiamava Brown, vissuto quarant’anni in Inghilterra, accolto in casa de’ Rosselli, stretti parenti dei Nathan, che ne sapeva più d’uno scienziato, e si stava a sentire per incanto, come non avevo capito alla prima che non poteva essere altri che Mazzini? Volai in casa Rosselli; ordine era dato che non si lasciasse passare nessuno… ma tanto pregai, tanto insistei che potei entrare nella camera e inginocchiarmi presso al letto ove il gran morto giaceva. In quella camera ove non m’era lecito rimanere che pochi minuti, sia pur detto a mia vergogna, io pensai principalmente all’articolo: a notare, cioè, la coperta di lana a quadrellini bianchi e neri, donata a Mazzini da Sara Nathan e che gli stava ora distesa sul letto; e la camicia di tela a righe sottili alternativamente bianche e violette che copri il petto affannoso del moribondo, e su cui aveva appuntato un nastro tricolore quella stessa mano femminile che depose sul guanciale una fronda d’alloro. E dalla casa Rosselli in un attimo alla prossima casa dove il Mazzini aveva precedentemente abitato. Seppi là che le signore Cassoli le quali lo ospitavano, per certi discorsi e certe vigilanze della polizia, ebbero qualche sospetto che colui il quale si dava per Brown, negoziante israelita, fosse invece tutt’altri: e glielo dissero. – Mazzini? rispose lui sorridendo: – Dio volesse! Chi sa dov’è a quest’ora, certamente non tormentato come me dalla tosse”. Quello scialle a quadrelli neri e grigi scaldò dunque l’ultimo respiro di Carlo Cattaneo, nell’esilio ticinese, e di Giuseppe Mazzini, nell’anonimato pisano. Non è una gran storia del nostro Risorgimento, questa, o senz’altro dell’Italia, istoriata in un plaid di lana? Sara Nathan ne è la intrepida custode. Era nata a Pesaro, nel 1819, suo padre era Angelo Levi, sua madre la livornese Enrichetta Rosselli. A Livorno sposò Meyer Moses Nathan, vent’anni più vecchio, e lo seguì in Inghilterra. Ne ebbe dodici figli! Casa Nathan, a Londra, diventò il ritrovo degli esuli italiani: Mazzini, Quadrio, Saffi, Campanella. E poi venne l’amicizia per Cattaneo, Jessie White Mario, Garibaldi. Nella villa luganese passano anche Manzoni e Bertani. Per Mazzini, in Italia e fuori, rischiò più volte d’essere arrestata.

A.Sofri,E.Bonino, La coperta di Mazziniultima modifica: 2008-09-26T22:51:25+02:00da mangano1
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