Manuela Del Frate, Lo STORYTELLING e la politica

da LIBERAZIONE 18 ottobre 2008
Emanuela del frate, lo STORYTELLING
108710095.jpg«Le grandi narrazioni che hanno segnato la storia dell’umanità, da Omero a
Tolstoj e da Sofocle a Shakespeare, raccontavano miti universali e
trasmettevano le lezioni delle generazioni passate, lezioni di saggezza, frutto
dell’esperienza accumulata

Emanuela Del Frate

«Le grandi narrazioni che hanno segnato la storia dell’umanità, da Omero a Tolstoj e da Sofocle a Shakespeare,847796500.jpg raccontavano miti universali e trasmettevano le lezioni delle generazioni passate, lezioni di saggezza, frutto
dell’esperienza accumulata. Lo storytelling percorre il cammino in senso inverso: incolla sulla realtà racconti artificiali, blocca gli scambi, satura lo spazio simbolico di sceneggiati e di stories. Non racconta l’esperienza del
passato, ma disegna i comportamenti, orienta i flussi di emozioni, sincronizza la loro circolazione. Lontano da questi “percorsi del riconscimento” che Paul Ricoeur decifrava nell’attività narrativa, lo storytelling costruisce ingranaggi narrativi seguendo i quali gli individui sono portati a identificarsi in certi modelli e a conformarsi a determinati standard».
Fondatore, nel 1993, del Parlamento internazionale degli scrittori, lui stesso scrittore, membro del Centre de Recherches sur les Arts et le Langage del Cnrs di Parigi e collaboratore di Le Monde , proprio su questi temi, Christian Salmon ha pubblicato lo scorso anno in Francia un volume che Fazi propone ora al pubblico italiano, Storytelling, la fabbrica delle storie (pp. 216, euro 18,00): un viaggio nel nuovo cuore della politica, l’arte di raccontare storie trasformata dall’industria della comunicazione e dal nuovo capitalismo globale nella maggiore risorsa a disposizione della Rivoluzione conservatrice che attraversa il mondo e che ha fatto degli Stati Uniti il proprio laboratorio.
Storytelling? Prima di tutto cerchiamo di definire con chiarezza di cosa si sta parlando e quanto ha a che fare con la politica.
Lo storytelling, a lungo considerato come una forma di comunicazione riservata ai bambini, sta conoscendo negli Stati Uniti un successo
sorprendente dalla metà degli anni Novanta. E’ una forma di discorso che si impone in tutti i settori della società e trascende i confini politici, culturali o professionali, realizzando quello che i sociologi hanno chiamato il narrative turn, poi paragonato all’ingresso in una nuova epoca, l'”epoca narrativa”. Il concetto stesso di narrazione ha iniziato la sua deriva da un continente scientifico all’altro; dalla psicologia all’educazione, dalle scienze sociali a quelle politiche, dalla ricerca medica alla giurisprudenza, alla teologia o alle scienze cognitive. E’ attraverso questa deviazione che lo storytelling è potuto apparire come una tecnica di comunicazione, di controllo e di potere. Quanto
alla politica, il quadro è chiaro: gli uomini politici e i loro consiglieri cercano di attrarre l’attenzione del pubblico, strutturando il loro messaggio nella forma della storia, del racconto, del feuilleton. Non solo. Si tratta di utilizzare tutte le tecniche proprie alla narrativa, non rinunciando a fare ricorso ai colpi di scena, alla suspence, all’introduzione costante di nuovi elementi pur di mantenere inalterata la tensione del racconto. Si tratta di strutturare il proprio discorso nella forma della storia, come accade del resto già per il marketing e per l’industria della comunicazione.
Quale il periodo a cui si può far risalire l’irruzione di questo stile del marketing nel linguaggio della politica?
Credo che questo momento si possa situare intorno al 1992, con la campagna elettorale di Bill Clinton negli Stati Uniti e l’inizio dell’ascesa di
Tony Blair in Gran Bretagna. Alastair Campbell, il giornalista politico che sarebbe divenuto portavoce del leader del New Labour e che incarna un po’ questa innovazione sulla scena inglese, lo ha spiegato molto bene dicendo che nell’epoca delle tv via cavo, delle news 24 ore su 24 e dell’esplosione di internet nessun politico può pensare di limitare i propri interventi a spazi privilegiati, come il telegiornale delle otto di sera. Il paesaggio mediatico era completamente cambiato e, spiegava Campbell, i politici dovevano necessariamente imporre i propri temi in modo altrettanto nuovo: creando la notizia intorno a sé. Vale a dire lo stile proprio agli operatori del marketing che si misurano con la concorrenza cercando in tutti i modi di attrarre l’attenzione sui propri prodotti. Certo, il terreno era già stato lavorato anche prima degli anni Novanta, in particolare dall’equipe di Ronald Reagan che nel decennio precedente, come già alla fine degli anni Settanta, si era data
l’obiettivo esplicito di “controllare i media” attraverso una costruzione quotidiana di avvenimenti e di uno scenario proprio agli interventi del
Presidente. Mancava però il pieno dispiegarsi delle nuove forme di comunicazione che è arrivato solo in seguito, in particolare con lo sviluppo di internet.
A partire dagli Stati Uniti, sembra che siano stati gli interpreti della Rivoluzione conservatrice degli ultimi decenni ad appropriarsi della forma
narrativa applicata alla politica, fino a farne il cuore della loro offensiva.
Perché?Per far passare la svolta del neoliberismo, con il suo carico di costi sociali, tagli e smantellamento del sistema di welfare, la rivoluzione conservatrice incarnata al suo debutto da figure quali quelle di Reagan o di Thatcher, ha dovuto in qualche modo ingannare l’opinione pubblica, riuscendo a trasformare quelli che sociologicamente non potevano che essere elettori dei partiti di sinistra, in elettori delle nuove destre. Negli Stati Uniti i repubblicani hanno intuito subito l’importanza della posta in gioco, investendo milioni di dollari nella battaglia delle idee attraverso il finanziamento dei think thank intellettuali. E’ in quel periodo che Reagan parlava della “welfare queen”, della donna che si era comprata una cadillac con i soldi del sussidio di disoccupazione. Si trattava ovviamente di una “bufala” che è però rimasta celebre nel dibattito pubblico americano. I conservatori volevano far passare il messaggio che la solidarietà e l’assistenza erano quasi dei sinonimi di abuso, corruzione, truffa, uso privato dei fondi pubblici: per ottenere questo risultato puntavano a “criminalizzare” le radici stesse dello Stato sociale,
culturali e sociologiche prima ancora che politiche. Lo storytelling è diventato così il cuore della loro offensiva, perché dovevano inventare una nuova narrazione della realtà costruita intorno alle loro proposte politiche e non più alle condizioni di vita presenti davvero nella società. E’ questo il modello che ha continuato a imporsi anche con Bush, Sarkozy e lo stesso Berlusconi nel vostro paese: la trasformazione della politica in fiction per far sì che i poveri votino per i ricchi. Si tratta di una chiave narrativa che, per quanto detto, interessa soprattutto i politici di destra, anche se la sinistra liberale sembra ispirarsi sempre più spesso al medesimo modello, come illustrato ampiamente sia da Blair che da Veltroni.
Lo storytelling sembra così imporsi nell’epoca che è stata presentata come quella della “fine della storia”. I racconti ispirati ai metodi del marketing hanno preso il posto delle grandi narrazioni collettive che hanno attraversato il Novecento?
In qualche misura credo proprio di sì. Stiamo parlando di un fenomeno che si situa alla convergenza di diversi elementi: la trasformazione dei media, l’irrompere della Rivoluzione conservatrice e, per l’appunto, il clima internazionale del dopo ’89 caratterizzato da quella che François Leotard ha definito come «la fine delle grandi narrazioni di emancipazione». Nell’epoca della fine delle ideologie le piccole storie create dallo storytelling hanno un sicuro impatto sulla società: le false risposte che vengono offerte ai problemi reali vissuti ogni giorno da ciascuno di noi si affermano proprio in un contesto sociale privato ormai di ogni interpretazione ideologica.
Negli Stati Uniti con l’11 settembre questo scenario ha subito un’ulteriore drammatica accellerazione: lo stile narrativo applicato alla politica sembra essersi trasformato in una sorta di war movies. Cosa ne pensa? In effetti, volendo riassumere in una formula quanto accaduto, si potrebbe dire che si è passati improvvisamente, dopo l’attacco terroristico subito dall’America, dallo storytelling ideologico a quello di propaganda, condito con tutte le menzogne sulle armi di distruzione di massa che sarebbero state in possesso di Saddam Hussein. Nel mio libro cito una conversazione tra Karl Rove, il principale consulente strategico delle due campagne presidenziali vinte da George W. Bush, e Ron Suskind, un giornalista del Wall Street Journal autore di varie inchieste sulla comunicazione della Casa Bianca, da cui emerge come i repubblicani non abbiano costruito solo una retorica intorno alla guerra, ma una vera e propria strategia politica. Rove scherza
con Suskind definendolo spregiativamente come un “membro della comunità del reale” e gli dice: «Dopo l’11 settembre è tutto cambiato, noi, gli Stati Uniti, siamo diventati un Impero e con le nostre azioni creiamo la nostra realtà».
Non siamo perciò di fronte agli strumenti più o meno radicali di una campagna elettorale o al tentativo di influenzare i media, bensì a un progetto che vuole ridefinire completamente la stessa narrazione del mondo e arruolare in questa battaglia, centrata sullo scontro tra “il bene” e “il male”, l’America e i suoi nemici, quanti operano nell’industria culturale, dai giornalisti ai registi cinematografici.
Lei definisce l’11 settembre come «la fine del racconto americano», contrapponendo lo storytelling della guerra alla grande tradizione narrativa degli Stati Uniti. Vale a dire?
Gilles Deleuze pensava che la superiorità della letteratura americana consistesse in un certo rapporto col reale, con lo spazio, con l’idea di frontiera e di conquista. Questa costruzione narrativa della nazione è stata rafforzata ancora dall’afflusso degli immigrati nel corso del XX secolo. Per molto tempo l’America ha rappresentato, più che una destinazione sulla carta celebrata dalle immagini di Hollywood, un “orizzonte narrativo” verso il quale accorrevano gli immigrati da tutto il mondo; un paese dove tutto era possibile e che offriva a ciascuno una pagina bianca, la possibilità di cominciarvi una vita nuova: allo stesso tempo nazione e narrazione. L’immigrazione era vista in modo positivo, le frontiere avevano un contorno esaltante, mutevole; l’America si presentava a un tempo come una promessa e come un mistero.
Con l’11 settembre tutto ciò è finito: le tradizionali nozioni di identità, immigrazione e frontiere sono state completamente stravolte. L’identità
americana è stata rivista in termini religiosi dallo stesso Bush; la frontiera ha smesso di essere un luogo di passaggio e di scambi per trasformarsi in una trappola per sans papier e clandestini che sono diventati i simboli con cui si è riassunto il nuovo discorso pubblico sull’immigrazione. Una nuova America che ha deciso di rinunciare a ciò che c’era di più affascinante nella sua narrazione collettiva ha così preso forma, lasciando spazio solo allo storytelling di guerra popolato da tutti i suoi nemici e pericoli: l’immagine di un paese in guerra con il mondo.
Tra poche settimane gli Stati Uniti avranno un nuovo presidente: fin qui McCain sembra aver insistito su temi “narrativi” molto vicini a quelli utilizzati da Bush, Obama sembra invece essere andato in un’altra direzione. Dal suo osservatorio come li giudica?
In questo caso mi concentro sul candidato democratico. Una delle cose più interessanti della campagna elettorale di Barak Obama risiede proprio nello sforzo semantico che sta facendo, cercando di aggirare e superare il codice narrativo che si è imposto negli ultimi anni negli Stati Uniti. Obama ha un approccio aperto, privilegia il dialogo sul piano internazionale e l’incontro tra le culture, sembra guardare con attenzione alla realtà. Del resto la stessa biografia di Obama ci parla di un uomo globale, di un figlio della mondializzazione delle culture. La sua storia si è scritta in qualche modo nella “periferia” dell’America, in paesi pericolosi come l’Indonesia, con un padre africano. Dunque un’identità aperta e meticcia che credo possa parlare a quella parte dell’America che è rimasta orfana di un racconto collettivo che parta dalla realtà e non sia prigioniero delle bugie del marketing e della guerra.
18/10/2008

Manuela Del Frate, Lo STORYTELLING e la politicaultima modifica: 2008-10-18T23:52:00+02:00da mangano1
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Un pensiero su “Manuela Del Frate, Lo STORYTELLING e la politica

  1. Christian Salmon, Storytelling

    Buone intenzioni, premesse confuse, libro raffazzonato. Che il potere racconti storie è un’ovvietà, che noi si debba smettere di farlo è una scemenza

    di Wu Ming 2
    Articolo apparso su L’Unità del 27/09/2008

    All’inizio di settembre, Chicco Mentana ha invitato nel salotto di Matrix il Ministro per la Pubblica Amministrazione, perché rendesse conto agli spettatori della sua famosa battaglia contro i fannulloni. Come prossima tappa, Brunetta ha promesso che lancerà un concorso. Impiegati e dirigenti che lavorano bene verranno invitati a raccontare la loro storia. Il Ministero valuterà e pubblicizzerà le più belle. Ai vincitori, ricchi premi in busta paga.
    Burocrazia e narrativa. Il binomio sembra azzardato. Ma cosa spinge un Ministro a raccogliere aneddoti edificanti, oltre a griglie di dati e relazioni tecniche?
    Alessandro Baricco, in un’intervista al Corriere, ha sostenuto che ormai “tutto è narrativo”: dal modo di esporre le merci al linguaggio scientifico, dall’informazione al marketing, alla politica.
    Lo scrittore francese Christian Salmon – nel suo saggio Storytelling, da poco uscito per Fazi – ha trovato un nome accattivante per questa febbre di racconto. L’ha chiamata nuovo ordine narrativo, evocando l’immagine di una macchina per plasmare le coscienze, catturare le emozioni, incitare al consumo. Una macchina che è diventata la struttura portante, il motore stesso del capitalismo.

    Nell’edizione originale del libro, Salmon illustra per 210 pagine come e perché i grandi potentati economici, politici e militari hanno colonizzato il nostro immaginario grazie alle tecniche di scrittura creativa. Loro azzeccano una storia e noi li votiamo. Azzeccano una storia e noi compriamo. Solo le ultime due pagine sono dedicate alla controffensiva. E sono le più fumose e contraddittorie di tutto il saggio.

    Per principio non amo i libri apocalittici che lasciano il lettore nella paralisi. Il ricorso alla paura e al cassandrume mi pare troppo facile e troppo inflazionato. Pretendo, se mi si dipinge l’assurdo, che mi si traccino anche le vie della rivolta.
    Per questo motivo vorrei mostrare che l’analisi di Salmon è molto difettosa e la sua vaghissima “proposta” di resistenza del tutto insostenibile. Un’accettazione acritica delle sue tesi, infatti, potrebbe indurci a seppellire l’arma più affilata che abbiamo per contrastare l’egemonia culturale della destra. Quest’arma sono proprio le storie.

    Primo difetto: Salmon definisce nuovo l’ordine narrativo che ci troviamo a fronteggiare. Ora, potranno essere nuove le tecniche utilizzate, ma certo non è nuovo il fenomeno. Come ha scritto Paul Veyne, rovesciando lo slogan del Sessantotto parigino, l’immaginazione è al potere da sempre. Anche il faraone aveva scribi e sacerdoti incaricati di cantarlo come dio in persona. Anche nell’Antico Egitto si mescolavano le carte, confondendo religione, biografia, politica e mito. Martirologi, vite di santi, eziologie e genealogie hanno continuato a fare lo stesso lavoro per centinaia di anni. Benito Mussolini sosteneva che la cinematografia è l’arma più forte.
    Nel marzo 2001, Silvio Berlusconi ha invaso le nostre cassette postali con uno strano ibrido tra pamphlet, volantino, rivista di gossip, autobiografia, bollettino parrocchiale e dépliant pubblicitario. Si intitolava, guarda caso, “Una storia italiana”. Molti, nel riceverlo, hanno percepito un salto di qualità rispetto al passato. Ma non credo consista, come direbbe Salmon, nel fatto che oggi le storie vengono usate per conquistare il potere e non soltanto, a posteriori, per giustificarlo. In politica le storie ci sono sempre state, solo che l’accento si è spostato dalle ideologie ai leader, dai programmi agli individui. Inoltre, le storie arrivano direttamente a casa tua, saltando ogni mediazione, come del resto accade a moltissime merci nell’era del consumo personalizzato.
    Quanto al marketing, l’uso di storie per vendere prodotti è vecchio come la pubblicità. Molto prima di Carosello, la American Tobacco Company riuscì a convertire le americane al fumo, inventando il mito della donna emancipata con la sigaretta in mano. Il responsabile della campagna era Edward Bernays, nipote di Freud, considerato l’inventore dell’ingegneria del consenso. Bernays inviò alcune modelle alla New York City Parade, dicendo ai giornalisti che un gruppo di donne avrebbe brandito “Torce di Libertà” nel corso della manifestazione. A un segnale convenuto, le ragazze si accesero una Lucky Strike. Il New York Times del 1° aprile 1928 raccontò l’intera storia sotto il titolo: “Un gruppo di giovani fuma sigarette in segno di libertà”.

    Non c’è mai stata un’età del mondo in cui la comunicazione fosse sganciata dal racconto e dalle mitologie depositate nel linguaggio. La narrazione non occupa un campo specifico (di mero intrattenimento), e non esiste un discorso logico-razionale “puro”. Leibniz sperava che un giorno qualunque disputa si sarebbe potuta risolvere con un calcolo, ma per fortuna quell’alba non è mai sorta. Il positivismo ha sognato che la scienza potesse emanciparsi una volta per tutte dai suoi trascorsi filosofici e letterari, ma i maestri del sospetto – Marx, Nietzsche e Freud – hanno rinvenuto tre cariche esplosive alle fondamenta dell’oggettività scientifica: gli interessi economici, la volontà di potenza e l’inconscio. Quest’ultimo è molto più vasto di quel che si credesse fino a trent’anni fa: non comprende solo istinti e desideri repressi. La scienza cognitiva ha scoperto che il pensiero lavora per lo più in maniera inconscia e che buona parte di questi meccanismi neurali nascosti richiamano strutture narrative. Scheletri di miti e leggende sono tatuati sui nostri cervelli con un inchiostro elettrico. Le storie ci sono indispensabili per capire la realtà, per dare un senso ai fatti, per raccontarci chi siamo. Abbiamo bisogno di scenari e le narrazioni ce li forniscono, spesso con un vantaggio importante rispetto alle cosiddette analisi razionali: le storie ci fanno emozionare e le emozioni, lungi dal contagiarla, sono invece un ingrediente essenziale della ragione. Senza rabbia, passione, tristezza e speranza non saremmo in grado di ponderare la più piccola scelta. Ci comportiamo in modo da essere felici, non per massimizzare l’utilità attesa.

    Non sorprende allora che il potere si sia sempre appoggiato a miti e leggende. E forse, per tutta risposta, basterebbe continuare a fare quel che abbiamo sempre fatto: sgonfiare le favole dei potenti, raccontare altre storie.
    Invece no. Perché secondo Salmon – e qui sta il secondo difetto – le storie ormai si stanno inflazionando, perdono il loro potere, diventano armi di distrazione di massa. Le emozioni degli individui sono catturate da un così vasto numero di racconti, aneddoti, autobiografie, che anche un narratore di talento fatica a farsi ascoltare, a coinvolgere, a stimolare i lettori. Salmon evita di trarre le dovute conseguenze di un simile quadro, ma è chiaro che se le cose stanno così, chiunque racconti finisce per collaborare al nuovo ordine narrativo, che in fondo si configura come un enorme caos, con lo scopo finale di annichilire il pensiero.
    Per fortuna, credo proprio che le storie non si possano inflazionare. Ai tempi di Gutenberg, molti umanisti temevano l’avvento della stampa. Sostenevano che l’abbondanza di libri avrebbe svalutato la cultura e la capacità di memoria. Oggi nessuno si sognerebbe di fare un’affermazione simile. E’ un’abbondanza che abbiamo imparato a gestire, con archivi, biblioteche, case editrici e note di copertina.

    Piuttosto è il termine “storia” che rischia di svalutarsi se lo usiamo a sproposito. Molti manager e capitani d’industria si saranno lasciati abbindolare dai corsi per cantastorie aziendali, ma questo non significa che siano diventati capaci di raccontare. Anche il potere ha aggiornato le sue tecniche, ma non è detto che sappia sfornare sempre una storia decente. Spesso il racconto non tiene e si può smontare, a patto di non illudersi che i fatti possano bastare. La prove servono nelle aule di tribunale, con l’opinione pubblica non sono sufficienti.

    Se la popolazione di un quartiere brucia un campo nomadi e si giustifica raccontando che “una zingara ha tentato di rubare una bambina”, la realtà empirica c’entra poco. In quel caso, sfiancarsi a dimostrare che la donna non stava davvero rubando la bambina è del tutto inutile. Piuttosto, bisogna scomporre il mito dello “zingaro ladro di bambini” e provare a sostituirlo con qualcos’altro. Nel più recente ed atroce degli episodi di razzismo, un ragazzo di colore è stato ucciso a sprangate per aver rubato un pacco di biscotti. Molte persone, per elaborare l’accaduto, si sono fatte una domanda “narrativa”: “Cosa sarebbe successo se a rubare i biscotti fosse stato un bianco?” Si sono figurate la scena, hanno visto che il finale non sarebbe stato un omicidio e si sono convinte che il furto era soltanto un pretesto per “ammazzare un negro”. Meccanismi come questo ci aiutano a capire la realtà molto più spesso di quel che immaginiamo.

    Tornando al libro, un terzo difetto è il suo essere impreciso e raffazzonato. Il termine storytelling viene sempre usato a sproposito, come sinonimo di “racconto mercificato”, tecnica narrativa per secondi fini. In inglese, non ha nessuna connotazione del genere: indica semplicemente “il raccontare storie”. Il digital storytelling si trasforma in strumento demoniaco, quando non è altro che un modo di narrare banalmente multimediale, con musica, voci e immagini. Guru diventa addirittura una parola di origine africana (!), sinonimo di griot, cioè cantastorie (*). E da qui la considerazione che i “guru del management” hanno svuotato il termine della sua dimensione sociale.
    Inoltre, il testo è costruito in buona parte con materiale di seconda e terza mano, citazioni di citazioni di esempi, provenienti soprattutto dagli Stati Uniti: su Sarkozy e sull’Europa non più di dieci pagine, infilate in fretta tra le conclusioni.

    E qui arriviamo al difetto più grande: proprio nel finale, Salmon si rende conto di dovere qualcosa ai lettori. Dopo aver descritto lo strapotere del nuovo ordine narrativo, senza dedicare una riga alle pratiche di resistenza già in atto, prova ad indicare una nuova via d’uscita. Lo fa riportando per intero un manifesto di Lars von Trier dove il regista danese dichiara che “le storie sono il nemico”, “un modo per presentare al mondo un puzzle già risolto”. Per evitarle, occorre imparare a “vedere senza guardare”, in una parola: “sfuocare!”.

    Salmon chiosa il testo sostenendo che per liberarsi dall’affabulazione obbligatoria servono contro-narrazioni di questo genere, che “inceppino la macchina per fabbricare storie”.

    E su questa considerazione, di vago sapore luddista, si chiude il libro. Solito vecchio discorso: poiché il nemico utilizza uno strumento, lo strumento diventa il nemico. Qualcun altro, per fortuna, ci ha insegnato che le macchine vanno strappate a chi le controlla e usate per contrastarne il dominio.

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