B.Vecchi, Il sapere,una merce particolare

dal imanifesto del 14 Novembre 2008

BENEDETTO VECCHI
B. Vecchi.jpg
SULLA CRESTA dell’Onda

SE L’ITALIA VUOLE FARE L’AMERICANA
Eccellenza e merito, una stretta relazione tra imprese e università. È il modello Usa. Ma in Europa il legame tra formazione e lavoro ha sempre incontrato resistenze. Per via di una merce molto particolare che si chiama sapere

L’università regolata secondo una logica imprenditoriale, con fonti di finanziamento diversificate, che vanno dal generoso flusso di investimenti pubblici alle donazioni di fondazioni private legate a grandi corporation, dai ricavati delle royalties dei brevetti derivanti all’attività di ricerca «interna» alle rette degli studenti, acquisite direttamente o attraverso il prestito d’onore. A questo va aggiunta la possibilità di «reclutare» i docenti e i ricercatori sul mercato, puntando a una individualizzazione del rapporto di lavoro. E visto che le merci prodotte sono alquanto particolari – l’immateriale sapere, ma anche una forza-lavoro acculturata vanno attivate tutte le procedure per certificare la loro qualità e per bvecchi2.jpgvalorizzare il marchio, cioè il nome dell’università. Sicuramente un laureato in legge a Harvard ha maggiori possibilità di trovare un buonB. vecchi1.jpg lavoro di chi è laureato, ad esempio, a Austin, nel Texas. Ma se la laurea riguarda un master in computer science, il campus di Austin è più titolato del campus di Miami. In altri termini, va ricercata l’eccellenza, perché questo garantisce la riproduzione del flusso di finanziamenti. È questa, schematicamente, la composizione del bilancio e la spinta alla competizione di una research university o di una teaching university statunitense proposti sia dall’attuale compagine governativa che da alcuni opinion makers per il nostro paese, come testimonia l’editoriale di Francesco Giavazzi sul Corriere della sera di alcuni giorni fa. Certo, a leggere le notizie e le analisi che vengono dall’altra parte dell’Atlantico ogni dubbio è lecito sul buon stato di salute dell’università made in Usa. Ma la critica al modello della formazione statunitense non dovrebbe sottolinearne solo le crepe e le antinomie. Semmai dovrebbe rintracciare il venir meno della forza propulsiva di un modello formativo che si è andato affermandosi nel corso del Novecento da quando il filosofo John Dewey ne definì le linee essenziali. È noto che Dewey sottolineò che il compito principale della scuola e dell’università era di fornire un sapere fortemente orientato alle richieste del mercato del lavoro. Da buon pragmatico, l’autore di Scuola e società e Democrazia e educazione era altresì convinto che un sistema della formazione efficiente dovesse prevedere una ricerca scientifica di base impermeabile alle pressioni delle imprese, ma comunque aderente agli imperativi degli «interessi nazionali». Per questo motivo, Washington doveva mettere a punto un insieme di norme affinché i risultati della ricerca potessero essere di pubblico dominio per tradurli in innovazioni tecnologiche, di prodotto e organizzative. Un modello, quello di John Dewey, sopravvissuto al suo ispiratore, avendo tuttavia la capacità di modificarsi al ritmo dei mutamenti intervenuti nel mercato del lavoro e delle necessità dell’economia capitalista statunitense. Ma è con gli anni Ottanta che entra in una crisi che costringe a una diversa modulazione nel rapporto tra formazione scolastica e mercato del lavoro. Un decennio, quello della controrivoluzione neoliberale, che vede insediarsi al centro della scena il tema della formazione permanente. Le università devono quindi adeguarsi e proiettare la loro azione su un piano globale. Da qui la crescita dell’ e-learning e delle università telematiche. La rete accentua così la crisi dell’università come centro deputato alla formazione superiore, ma al tempo stesso è il dispositivo che potrebbe consentire il suo superamento, grazie alla trasformazione dell’università come nodo di una rete deputata alla formazione di una forza-lavoro flessibile e adeguata alle competenza necessarie richieste da una organizzazione produttiva altrettanto flessibile. Ma se questa è la tendenza al di là dell’Atlantico, nel vecchio continente e in Italia la formazione e il lavoro sono mondi che cercano di tessere un legame che trova un ostacolo nel carattere peculiare della merce, il sapere, che la formazione dovrebbe produrre. È da oltre un decennio che ogni proposta di riforma del sistema universitario incontra resistenza. Nella Francia degli anni Novanta e all’alba del nuovo millennio, c’è rivolta della «materia grigia», così come si sono autodefiniti i movimenti sociali universitari di protesta. Lo stesso in Spagna e in Grecia. La rivendicazione è di un’autonomia del sapere dalla logica economica dominante. E mentre i governi nazionali e il parlamento europeo parlano della costruzione di una «società della conoscenza», di formazione permanente e di rapporto tra lavoro e formazione, nelle università tematiche dell’autoformazione e della costituzione di «università autonome» costituiscono lo sfondo in cui collocare la critica contro i tentativi di importare il modello statunitense e l’altrettanto radicale presa di distanza da una concezione dell’università come dispositivo preposto alla formazione della futura classe dirigente e di una forza-lavoro che fa sue le regole dominanti fuori le mura degli atenei. In altri termini, le università diventano il laboratorio per la costituzione di un sistema della formazione di una forza-lavoro adeguata al capitalismo contemporaneo, ma anche le forme di resistenza ad esso. E questo è evidente nella riforma Berlinguer-Zecchino, in quella di letizia Moratti e nelle linee guida presentate nelle settimane scorse daall’attuale ministro Mariastella Gelmini. In primo luogo, perché è cambiata la composizione sociale della popolazione studentesca. L’accesso al sapere e il diritto allo studio sono oramai considerati diritti sociali di cittadinanza non mediabili. È questa una delle eredità del Sessantotto che viene oramai considerato un apriori insindacabile che rende impraticabili tutti i tentativi di riforma dell’università che vogliono limitare o solo regolamentare l’accesso al sapere. C’è poi il fatto che molti giovani sperimentano un rapporto intermittente con il mondo del lavoro sin da quando frequentano le università. La condizione studentesca attuale contempla dunque l’esperienza dell’intermittenza lavorativa, mentre l’università funziona come un dispositivo che deve educare proprio a quella precarietà che diviene il carattere dominante nei rapporti di lavoro nel capitalismo dominante. Da qui la rivendicazione di un’autonomia del sapere e dell’università dal mondo delle imprese. Non per riproporre l’antico modello universitario, ma come critica permanente della sapere in quanto forza produttiva. Ma ciò che è dirimente in queste settimane di mobilitazione nelle università italiane è il venir meno di quell’alleanza con i docenti, che hanno sempre costituito uno dei poteri forti negli atenei. La condizione studentesca non è più un «rito di passaggio» alla vita adulta, ma una forma di vita che assume la precarietà e la formazione permanente come terreni conflittuali. È forse in questo fattore che l’onda mostra la sua anomalia. Non c’è più separazione tra condizione studentesca e mondo del lavoro. Gli studenti si presentano in società come forza-lavoro già attiva, che ha imparato la lezione del modello statunitense e di quello vigente nei paesi europei. Entrambi sono considerati propedeutici a una limitazione delle libertà: di movimento, di espressione, di progettare la propria vita. Non è una fuga in avanti, ma l’onda anomala di queste settimane è espressione di quella mutazione delle forme di assoggettamento alle regole del lavoro salariato che tanto nella vecchia Europa che negli Stati Uniti sono la posta in palio nella ridefinizione delle università come un nodo di un sistema della formazione che dovrebbe accompagnare uomini e donne dalla culla alla tomba all’interno di un mercato del lavoro dove la precarietà è condizione necessaria e sufficiente. L’anomalia di questo movimento sta proprio nel rifiutare questo nesso tra formazione e lavoro.

B.Vecchi, Il sapere,una merce particolareultima modifica: 2008-11-18T21:33:00+01:00da mangano1
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2 pensieri su “B.Vecchi, Il sapere,una merce particolare

  1. dalla mailing list del circolo Rosselli
    IL MOVIMENTO DELL’ONDA E LO STATO SOCIALE

    Il documento

    Ecco il report prodotto dal gruppo di lavoro dedicato al tema dello stato
    sociale e dei diritti che esso deve garantire tenutosi nella due
    giorni organizzata alla Sapienza di Roma dal movimento studentesco

    Il workshop di ieri è stato partecipato da circa un migliaio di persone, al pari
    degli altri due. Si tratta, evidentemente, di un dato eccezionale dal punto di
    vista della quantità, in piena continuità con l’assemblea nazionale nel suo
    complesso e con queste straordinarie settimane di mobilitazione che stiamo
    vivendo. Ma c’è di più. Il dato della discussione di ieri è eccezionale anche
    dal punto di vista qualitativo. I quasi cento interventi da tutte le città che si
    sono susseguiti per più di sette ore di intensa discussione segnano un deciso
    e importante passaggio in avanti nell’elaborazione collettiva e nella
    costruzione di agenda politica su temi assolutamente decisivi per il
    movimento.
    Lo slogan che attraversa e che maggiormente caratterizza le mobilitazioni
    universitarie, “Noi la crisi non la paghiamo”, definisce già con chiarezza la
    centralità delle questioni del Welfare e del lavoro dentro la riflessione politica
    e i processi di conflitto che si sono dati nelle mobilitazioni di queste
    settimane.
    Sulla crisi finanziaria globale si registrano varie interpretazioni, talora
    contrastanti anche negli stessi ambiti del pensiero critico e radicale. In questo
    workshop, com’è stato più volte ribadito, il nostro obiettivo non era la
    definizione in termini di analisi di genealogia e tendenze dell’attuale crisi:
    essendo questo un tema di straordinaria importanza e attualità, preferiamo a
    tal fine proporre fin da subito la costruzione di uno o più momenti seminariali.
    Il nostro punto di partenza è stato invece la definizione del carattere politico e
    il terreno di lotta che attorno al tema della crisi si apre, più precisamente sul
    problema della decisione della distribuzione della ricchezza sociale in un
    contesto che dalla crisi è profondamente segnato.
    Il presente movimento si muove all’interno di una doppia crisi: quella
    finanziaria e quella dell’università. Quest’ultima in Italia assume
    caratteristiche peculiari, determinate dallo storico disinvestimento nel sistema
    dell’istruzione e della ricerca, e dalle strategie di smantellamento operate dai
    governi di centro-destra così come da quelli di centro-sinistra.
    In questo quadro, come emerso dalla discussione, i processi di
    aziendalizzazione dell’università e i tagli dei finanziamenti alla ricerca e alla
    formazione si accompagnano all’aumento delle spese di guerra, ai fondi
    statali regalati alle imprese private, al piano salva-banche. La retorica degli
    sprechi e del contenimento del debito pubblico, abbondantemente utilizzata
    dal Governo nel tentativo di giustificare i tagli mortali contenuti nella legge
    133, rivela qui infatti la sua natura puramente ideologica.
    Tutto ciò, soprattutto, permette di individuare nell’università un terreno di lotta
    di particolare importanza, a partire da cui produrre dei processi di
    generalizzazione del conflitto. La parola d’ordine “noi la crisi non la
    paghiamo” indica quindi non una semplice istanza espressa da un
    particolare soggetto sociale, ma la sua capacità di parlare il linguaggio
    dell’intera composizione del lavoro e del precariato contemporaneo, proprio
    in virtù della centralità di studenti e saperi nelle forme attuali della
    produzione.
    Quello della generalizzazione è uno dei punti particolarmente sottolineati nel
    corso della discussione, come posta in palio delle possibilità di sviluppo dello
    straordinario movimento che sta stravolgendo le compatibilità che si
    credevano imposte dal governo Berlusconi. Non a caso, la Cgil – sindacato
    spesso complice con lo smantellamento del welfare – è stato costretto a indire
    lo sciopero generale sotto la spinta e la forza dell’onda.
    Nel workshop si è prodotta una ricca discussione che ha permesso di fare un
    importante passo in avanti, di analisi e di merito politico, nella
    riconfigurazione del diritto allo studio e nelle battaglie attorno ad esso.
    L’attacco al diritto allo studio non assume più solo i tratti classici
    dell’esclusione, ma dei nuovi processi di selezione e inclusione differenziale
    direttamente interni al sistema universitario.
    Laddove i diritti sociali non sono più garantiti dal welfare pubblico,
    l’indebitamento rappresenta una costrizione per continuare a soddisfare
    bisogni collettivi, quali ad esempio la formazione e l’accesso ai saperi.
    Nonostante l’irrisorio e propagandistico stanziamento di fondi per le borse di
    studio, strettamente regolato dal sistema meritocratico, il progetto
    complessivo di trasformazione dell’università va nella direzione di un
    aumento delle tasse d’iscrizione.
    In questo contesto, se il diritto allo studio è certamente garantito dalla
    Costituzione, esso è di fatto non solo disatteso nella pratica, bensì nel nuovo
    contesto produttivo assume nuove caratteristiche. Infatti, un numero crescente
    di persone entra nel sistema dell’istruzione superiore nella misura in cui sono
    costrette a indebitarsi e si dequalificano i saperi a cui hanno accesso. I
    processi di lotta si spostano quindi sul piano del mercato del lavoro (sempre
    più regolato e intrecciato alla produzione di saperi e formazione), dei
    processi di gerarchizzazione e del welfare.
    Di pari passo, il diritto allo studio si riconfigura come battaglia sulla qualità dei
    servizi e riqualificazione e autogestione dei saperi. Allora, prendendo anche
    atto del fallimento delle agenzie per il diritto allo studio, la lotta contro
    l’aumento delle tasse e la liberalizzazione dell’accesso, si deve
    accompagnare a una battaglia sulla qualità dei servizi, contro i numeri chiusi,
    per il non ripagamento dei prestiti d’onore (ovvero il sistema italiano del
    debito, ancora non pienamente affermato ma in via di tendenziale
    espansione). Una battaglia, quindi, contro qualsiasi tentativo di scaricare su
    studenti e precari i costi della crisi finanziaria e dell’università. La crisi la
    paghino invece le banche e le imprese, i governi e i baroni, oggi tutti alleati
    ben al di là delle retoriche su sprechi e corruzione.
    Se la sfida lanciata dal movimento ha nell’università un terreno privilegiato,
    deve al contempo riuscire a generalizzare le proprie istanze per poter aprire
    un terreno di più complessiva lotta sul welfare.
    Da questo punto di vista, è stato evidenziata l’inesistenza in Italia di
    ammortizzatori sociali e strumenti di sostegno al reddito per gli studenti e i
    precari. Occorre allora reclamare anche in Italia forme di erogazione, dirette e
    indirette, di reddito per gli studenti e i precari che vadano nella direzione
    dell’autonomia e dell’indipendenza e del rifiuto delle forme di
    precarizzazione.
    La discussione ha elaborato delle proposte di agenda e campagna politica
    verso lo sciopero generale e generalizzato del 12 dicembre e oltre.
    Una settimana di iniziative in cui far vivere i temi di una nuova battaglia su
    case, mense, tasse e borse di studio, sull’accesso alla cultura (fatta di
    autoriduzioni in teatri, cinema, musei), sulla gratuità dei trasporti (dai treni ai
    bus), per la riappropriazione di appartamenti sfitti, per la libera circolazione
    dei saperi, contro i brevetti e i copyright.
    Una giornata di mobilitazione nazionale dislocata nelle diverse realtà
    territoriali in cui dar vita a blocchi della città, azioni, occupazioni per praticare
    e generalizzare lo slogan “noi la crisi non la paghiamo.
    Uno sciopero del lavoro nero degli studenti universitari e dei ricercatori
    precari, reclamando reddito per le attività già erogate da studenti e ricercatori
    precari (stage, tirocini, il lavoro didattico, di ricerca e formativo non
    riconosciuto).
    La costruzione di un percorso di inchiesta che, dal punto di vista del metodo,
    dovrebbe diventare pratica centrale nella costruzione dei percorsi di lotta e di
    produzione di conoscenza.
    Come studenti e precari sono i produttori della ricchezza sociale, e di questa
    ricchezza vogliamo riappropriarci.
    Non vogliamo pagare la crisi finanziaria e dell’università, perché la crisi la
    paghino le banche, le imprese, i governi, i baroni.
    Non vogliamo pagare la crisi, perché noi siamo l’onda che li mette in crisi.
    Fluidi, imprevedibili e irrappresentabili nel nostro movimento, e al contempo
    forti, potenti e liberi come una mareggiata che li travolge. Perché il nostro
    tempo – il tempo dell’autoriforma dell’università, della riappropriazione della
    ricchezza sociale e di un nuovo welfare – è qui e comincia adesso.

  2. FRANCO PIPERNO

    Un’altra università non vuol dire
    l’università del futuro

    Il rimbalzo dell’Onda

    Dopo il 14 di novembre il movimento rientra nei suoi luoghi d’origine, inebriato dalla condivisione della presenza, da quell’essere in molti tutti insieme nello stesso luogo. Questa potenza va scagliata, luogo per luogo, contro il sistema della scuola e dell’università – sistema mostruoso per astrazione e debole nel conseguire risultati proprio perchè assegna alla formazione ed alla ricerca il compito di aiutare la crescita economica del paese, favorire la competizione della nostra industria sul mercato globale. Per far questo,occorre convergere sulla didattica, cioè su tempi, modi,contenuti con i quali l’università adempie al compito per il quale è nata: la rielaborazione del sapere in forma tale che sia pubblicamente, meglio, dirò, comunemente, trasmissibile di generazione in generazione. Si tratta di partire dalle cose come stanno, dal clamoroso fallimento della riforma “3+2”, riforma bi-partisan quanti altri mai, proposta pressoché unanimemente dal ceto politico, sia di destra che di sinistra.

    Si tratta d’andare nella direzione opposta a quella indicata dalla riforma Berlinguer-Moratti-Gelmini. Mentre quest’ultima mira a sfornare leve di massa d’idioti specializzati per ruoli lavorativi stupidi e ripetitivi, la pratica dell’autoformazione si dispiega attraverso le discipline per conseguire quell’unita del sapere che sola permette una rappresentazione vera della realtà:infatti la realtà, come la natura da cui scaturisce, è di per sé interdisciplinare. L’autoformazione si sviluppa quindi come rapporto tra lo studente e la realtà, e non già come destino dello studente nel mercato del lavoro.

    Per tradurre in slogan la questione potremmo dire che i primi tre anni di curriculum universitario conseguono il loro scopo nel fornire le competenze generiche dell’individuo sociale; essi sono quindi organizzati a livello d’ateneo e prevedono che lo studente attraversi, tramite la scelta libera dei corsi, tutte le aree tematiche presenti nell’ateneo – e.g. all’Unical queste aree sono cinque ed in conseguenza il numero d’esami complessivo per il triennio non dovrebbe superare il numero di quindici. I corsi, poi, devono possedere quell’aura socratica che permetta il rapporto individuale tra docente e discente, e consenta l’acquisizione della capacità euristica piuttosto che l’apprendimento passivo di nozioni – e questo comporta che non vi siano molte decine di studenti per classe e che l’attività di docenza preveda un andamento per dispute e seminari. Si pensi che, nel modello “3+2”, la lezione frontale, con l’uso dei lucidi e del power- point in una classe con centinaia di studenti, somiglia più ad una conferenza televisiva che ad una attività di trasferimento della conoscenza svolta in presenza.

    La valutazione del professore,

    la potenza intellettuale dello studente

    Si è già detto: l’università non è un centro di ricerca. Questo comporta che un ottimo ricercatore possa essere un mediocre o anche pessimo docente, se privo del prestigio intellettuale che solo la capacità espressiva è in grado di conferire. Il giudizio didattico sul professore non deve essere affidato ai suoi pari, bensì agli studenti che hanno seguito i suoi corsi: essi soli hanno l’esperienza per valutare. Questo giudizio, espresso ripetutamente nelle forme adeguate, deve avere un valore determinante a livello d’ateneo per il conferimento degli incarichi e per la carriera accademica. Va da sé che gli attuali questionari, somministrati irresponsabilmente e privi del minimo riscontro pratico, sono la caricatura del giudizio studentesco sull’attività della docenza.

    Il sistema nazionale dell’università pubblica ed il reclutamento dei docenti

    Per assicurare la trasmissione pubblica dei saperi le università devono costituire rete – avere le regole fondamentali in comune sicché sia garantita la mobilità di studenti, dottorandi e docenti da una sede universitaria ad un’altra. La prima regola è che per intraprendere e progredire nella carriera accademica occorre cambiar sede-questo vuol dire che, ad esempio, il dottorato si consegue in un ateneo diverso da quello che ha conferito la laurea magistrale; ed il contratto a tempo determinato post-doctoral richiede nuovamente un mutamento di sede. In particolare, i docenti devono avere una qualificazione attestata a livello nazionale nella forma di abilitazione alla docenza valida per un certo periodo, supponiamo per cinque anni. Entro quest’intervallo di tempo, il singolo ateneo può attingere dalla lista aperta degli abilitati, e solo da quella, il nuovo personale docente, a discrezione del Dipartimento interessato e senza la farsa del concorso nazionale o almeno quello in ruolo che possiede tutti i titoli, attivi e passivi.

    Il docente in ruolo è sottoposto a valutazione decennale, articolata:

    a) in un esame della sua attività di ricerca espresso dai suoi pari a livello internazionale; b) in un giudizio sulla capacità didattica formulato dagli studenti che hanno seguito i suoi corsi, nonché da coloro che lo hanno avuto come tutor o come relatore di tesi. Il superamento della valutazione decennale è condizione necessaria per rinnovare il rapporto di lavoro con gli atenei del sistema pubblico. Il ruolo della docenza è unico con parità di diritti e doveri; l’eventuali differenziazioni nello stipendio devono essere articolate in funzione dell’esperienza e delle attività accademiche svolte.

    La democrazia universitaria

    Una delle conseguenze tra le più funeste della contro-riforma “3+2” è la trasformazione virtuale dei professori in improvvisati “managers” e del rettore in amministratore delegato personalmente interessato a conservare potere e prebende. Anche qui,occorre imboccare la direzione opposta. Intanto l’elettorato del rettore deve comprendere oltre ai professori a pieno tempo, ai dottorandi ed agli assegnasti, tutti gli studenti a partire dal terzo anno in regola con gli esami. Inoltre l’elettorato attivo deve coincidere con quello passivo -sicché potrebbe capitare di ritrovarsi uno studente come rettore,cosa per altro che accadeva in qualche università italiana fino all’altro ieri, fino alla campagna napoleonica. Al rettore andrebbe affiancato un Consiglio d’ateneo eletto in forma non corporativa, con poteri di gestione e di rappresentanza. Il rettore ed i membri del Consiglio dovrebbero restare in carica per un solo mandato e non godere dell’elettorato passivo per il mandato immediatamente successivo. Il Senato accademico andrebbe soppresso insieme alle Facoltà i ruoli accademici dovrebbero far capo ai Dipartimenti, che, a loro volta, andrebbero strutturati attorno a tematiche di ricerca e non definiti sulla triste base disciplinare.

    Al posto delle Facoltà dovrebbero subentrare i Consigli di Corso di Laurea ed il Coordinamento dei consigli, entrambi modulati da esclusive ragioni didattiche ed in grado di fare emergere le passioni conoscitive degli studenti. Infine andrebbe svuotata di ogni autorità, come peraltro già sta avvenendo, la Conferenza dei Rettori ed Consiglio Nazionale Universitario (Cun). La rappresentanza del sistema nazionale universitario andrebbe assunta da un organo consiliare eletto di volta in volta, su singole questioni e con mandato vincolante, dai Consigli d’Ateneo.

    20/11/2008

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