Claudio Vercelli” Testimoni del non provato” di Raffaella De Castro

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Sto leggendo, a spizzichi, un libro che temo sia sfuggito a molti. Si tratta di un
libro bello, intenso, a tratti struggente, molto, molto impegnativo. Anche
faticoso, perché affronta un terreno tutto in salita. Richiede d’essere studiato,
tanto per essere chiari. Lo firma Raffaella Di Castro, che insegna – pensate un
po’ – filosofia della memoria. Io che ho sempre pensato che esistesse una
memoria della filosofia, e che questa fosse uno degli antidoti alla barbarie,
scopro così, grazie a Raffaella, che si possono capovolgere i termini e
impegnarsi ad ottenere il medesimo risultato riflettendo sul modo in cui
ricreiamo il passato con quella formidabile funzione dello spirito umano che
è, per l’appunto, la memoria.
Il libro, che vi invito a leggere, si intitola Testimoni del non-provato. Ricordare,
pensare, immaginare la Shoah nella terza generazione. L’editore è Carocci,
di Roma. Consigli per gli acquisti? Piuttosto consigli per la sopravvivenza.
Poiché è un testo che parla di noi, noi che siamo venuti dopo la Shoah,
parlando nel medesimo tempo a noi stessi. E’ l’esercizio della facoltà
autoriflessiva. E’ come una sorta di colloquio che l’autrice intrattiene con sé,
indagando sui propri confini di donna, di sopravvissuta all’altrui
ricordo, attraverso le voci dei suoi tanti interlocutori. Vi ripeto ancora una
volta: non pensiate che sia un libro facile. I libri belli sono quelli che
procurano un effetto urticante, lasciando un segno indelebile sulla pelle.
Poiché il corpo della lettera è fatto di lettere sul corpo. Raffaella dà forma a
sentimenti e risentimenti, chiari e scuri del pensiero sulla fisicità di ciò che
non c’è più, e da tanto tempo oramai. Non voglio giocare con le parole; sono claudio1.jpg
loro che, a volte, si prendono gioco di noi. Lo sapeva bene una delle vittime
del nazismo, Walter Benjamin, che ispira tutta il lavoro dell’autrice. Leggetelo,
pagina dopo pagina, lettera dopo lettera. Ne vale la pena, ve lo assicuro.
Claudio Vercelli

Di Castro ha studiato filosofia a
Roma, Messina e Berkeley, dove ha trascorso
un anno di specializzazione postdottorale
dedicandosi a ricerche interdisciplinari sulla
memoria e sull’idolatria. Ha collaborato con
la Commissione Italiana del Fondo Svizzero
per Vittime della Shoah in stato di bisogno e,
attualmente, insegna Filosofia della memoriaclaudio2.jpg
presso l’Università della Calabria. Ha
pubblicato diversi saggi e il volume
Un’estetica implicita. Saggio su Lévinas
(Guerini, Milano 1997), per il quale ha
ricevuto il premio Daniele Levi 2001.
In questo libro parla l’ultima o “terza” generazione di ebrei ad aver ricevuto –
da nonni o da genitori all’epoca
bambini – una trasmissione diretta della memoria delle persecuzioni fasciste
e naziste. Non per costruire un
archivio in cui depositare l'”ultimo testimone”, diagnosticare i sintomi
transgenerazionali del trauma o
costruire un’appartenenza a partire dalla memoria. Piuttosto, per cercare un
orientamento in mezzo a
intricati e stratificati paradossi, difficili incontri tra identità e differenze.
Memorie del come se, al tempo stesso troppo interne e troppo esterne, troppo
note e mai abbastanza
conosciute. Più che memorie, un «marasma non ben elaborato» di
«sentimenti contrapposti» che «si
incrostano attorno alla memoria». Come una «spugna» che tenta di
«accogliere qualsiasi cosa», un «cancro»
che distrugge le cellule vitali o una «Sfinge» che resta muta. «Muri» o
«scrigni» di memorie che
improvvisamente si aprono e altrettanto repentinamente rischiano di
richiudersi.
Prendendo le mosse dalle sue stesse memorie del non-provato di ebrea di
terza generazione come i suoi
intervistati, l’autrice, grazie agli apporti metodologici della filosofia, della
storia orale, dell’ebraismo e della
psicoanalisi, invita allo sguardo critico nei confronti del rischio, per la
memoria della Shoah, di congelarsi tra i
due estremi di una sintomatica memoria-trauma, sempre meno comunicabile
e rappresentabile quanto più ci
si allontana dall’evento, e di una memoria-dovere sempre più immemore
della sua stessa storia, nel compito
impossibile a cui inchioda le nuove generazioni.
I
ABSTRACT
Siamo sicuri che la scomparsa delle vittime della Shoah sia “il problema
cruciale” del momento che imporrebbe a
figli e nipoti il ruolo di “nuovi testimoni”? Non potrebbe rivelarsi un falso
problema – o un falso dovere – che rischia
di danneggiare e persino dimenticare la memoria stessa, al pari di alcune
frettolose e categoriche tendenze di segno
opposto a stigmatizzare il dovere di memoria come “eccesso”, “patologia”,
“abuso”?
La memoria della Shoah rischia di congelarsi tra i due estremi di una
sintomatica memoria-trauma, forse,
sempre meno comunicabile e rappresentabile quanto più ci si allontana
dall’evento, da una parte e, dall’altra, di una
memoria-dovere, sempre più retorica, astratta e ripetitiva.
Ho lasciato parlare – attraverso 23 interviste – coloro su cui sono puntati i
riflettori dell’attenzione pubblica,
l’ultima – o “terza” – generazione di ebrei ad aver ricevuto una trasmissione
diretta della memoria delle persecuzioni
fasciste e naziste, rivolgendo lo sguardo alle zone più periferiche del trauma
della Shoah: ai figli di chi all’epoca era
bambino, alla memoria delle persecuzioni in generale e non solo di
Auschwitz, lì dove la memoria si assottiglia, ma
diventa, forse, più evidente l’intersezione tra passato e presente, tra
dinamiche storiche e psicologiche, individuali e
collettive.
Non voglio costruire attorno a queste storie un archivio in cui depositare
l'”ultimo testimone”, né
diagnosticare attraverso di esse i sintomi transgenerazionali del trauma,
nemmeno costruire un’appartenenza a
partire dalla memoria. Intendo piuttosto, riflettere e cercare un orientamento in
mezzo a intricati e stratificati
paradossi, difficili incontri tra identità e differenze. Distinguere al loro interno
fusioni e scissioni indebite, ricordarne
parti che rischiano di essere dimenticate, riconoscerli come problemi reali,
oltre che legittimi, e tentare di tradurli
in parole e immagini quanto più possibili universali, al di là dei “contenitori
psichici” delle vittime e dei loro figli,
entro cui progettualmente i nazisti hanno tentato di seppellirli.
Memorie del come se, al tempo stesso troppo interne e troppo esterne, troppo
piene e troppo vuote, troppo
note e mai abbastanza conosciute. Più che memoria, un «marasma non ben
elaborato», capace di scatenare una
«miscela di sentimenti contrapposti» e di «far viaggiare la mente a ritmi
pazzeschi», per usare immagini dei miei
intervistati. «Cose che si incrostano attorno alla memoria» anche in «assenza
di legami diretti» e attraverso
«paragoni assolutamente non paragonabili», come una «spugna» che tenta
di «accogliere qualsiasi cosa». «Strani
pensieri» «che si ritrovano in testa» e stridono con il senso e la morale
comune. Memorie che restano mute e senza
risposte, «come la Sfinge». Memorie incontrollabili che «camminano con le
proprie gambe». Memorie di cui si è
«succubi», come un «cancro» che distrugge le cellule vitali. Ricerche di
senso che vanno a sbattere contro «muri» di
non senso o di incomprensione, «scrigni» di memorie che improvvisamente
si aprono e altrettanto repentinamente
rischiano di richiudersi.
Le interviste, a cui dedico principalmente la Parte terza (Post-storie), sono
alla base anche delle riflessioni
teoriche della Parte seconda (Storie), nella quale affronto alcuni nodi
problematici verso cui, più o meno
esplicitamente, mi hanno spinto gli stessi intervistati. Ma tra le 23 interviste vi
è anche la mia (Parte prima,
Preistoria). La “terza generazione” è la mia generazione, gli interrogativi che
mi pongo rispetto ad essa sono
inscindibilmente legati, innanzitutto, al mio bisogno di entrare in contatto con
quello che ho scoperto costituire un
topos traumatico di riferimento nella costruzione della mia identità. Una storia
che ha la potenza del “mito” con cui
rischia di confondersi, prolungandosi in “preistoria” e “post-storia” della
mente, di generazione in generazione.
Con questa partenza autobiografica non intendo indulgere a vezzi
narcisistici, sperimentazioni letterarie,
professioni di fede sul racconto come cura. Intendo, piuttosto, assumere il più
rigorosamente possibile la
responsabilità della scelta di scrivere questo libro dall’interno delle memorie
che tematizza, usando cioè la memoria
stessa come strumento di riflessione oltre che come contenuto.
Diverse esperienze e provenienze si incontrano e si fecondano
reciprocamente nel metodo scelto, attraverso i
tre percorsi correlati e autonomi in cui si articola il libro (Preistoria, Storia,
Post-storie): la filosofia (Kant e
Benjamin), la storia orale (Alessandro Portelli e Lusia Passerini), l’ebraismo
(come pratica anti-idolatrica di pensiero
e di memoria), la psicoanalisi (come teoria e come mia stessa esperienza).
Il radicamento autobiografico ha reso estremamente difficile la scrittura di
questo libro. Non solo per la
responsabilità etica, la paura, l’angoscia che implica confrontarsi con la
Shoah, anche se soltanto con la sua
memoria, e per il timoroso rispetto che provo nei confronti delle storie
personali, ma anche perché mi sono trovata
costantemente invischiata dentro il suo contenuto, troppo identico a me per
poter essere raccontato, generalizzato,
condiviso. Ossessionata dal dubbio di essere anch’io vittima, e al tempo
stesso complice, dell’attuale “religione della
memoria” che tende a sostituire la memoria alla storia e a innalzare le
testimonianze individuali a monumento,
affetta da un profondo senso di illegittimità – se non di colpa – nei confronti di
una “memoria del non-provato”, per
di più in quanto figlia di “semplici” perseguitati, entrambi all’epoca molto
piccoli e con storie a lieto fine, sommersa
da grumi di emozioni che mi sembrava insensato se non impossibile
dipanare in capitoli, ho ripetuto all’ennesima
potenza, nella scrittura di questo libro, le stesse difficoltà che ho notato nei
discorsi dei miei intervistati: la
tendenza a dire e disdire, a togliere continuamente valore a qualsiasi
tentativo di formulare pensieri, idee, chiavi
interpretative, strutture del discorso, a oscillare tra l’afasia e una sorta di
parossismo semiotico.
Forse, non è tanto «ricordare» il compito delle nuove generazioni di ebrei
che, viceversa, ancora, si trovano
ad esso inchiodate, quanto piuttosto imparare a tradurre le proprie memorie
paradossali e difficili, accettando lo
scarto del «non-provato» che vi resta.

NDICE
Presentazione di Clotilde Pontecorvo
Una citazione come premessa
Ringraziamenti
Procedure e simboli di trascrizione delle
interviste
Parte prima
Preistoria
1. La “terza generazione” sono io
2. Angosce di chi non c’era
Parte seconda
Storia
3. Al di là del dovere di memoria
Provocazioni e precauzioni
L’etica al di là della memoria? (Lévinas, Yerushalmi)
La memoria come dovere e come rischio (Levi)
Le “amnesie” del dovere di memoria
4. Dentro il dovere di memoria
Il dovere-bisogno
Il terribile segreto
Il dovere-diritto
Amnesia collettiva
Dovere metafisico
5. Ricordare la memoria
Memoria e memorie (Freud)
Il dovere di memoria al servizio del «principio di
piacere» (Freud)
La rimozione della coazione a ripetere (Conan,
Rousso, Ricoeur)
Ritmi di memoria: ripetere, tessere, scavare
(Benjamin, Robin)
Idolatrie sulla Shoah (Santer, LaCapra)
Salvare la memoria dalla sua catastrofica
trasmissione (Benjamin)
Parte terza
Post-storie
6. La “terza generazione”
7. Memorie del come se
Come loro
Come tra “Auschwitz” e “Sinai”
Come tutti i giorni
Come dire
Come una frustrazione
Come saturare
Come non fosse stato
Come se stesso
8. Sulla mia pelle
Senza confini
Albero genealogico
La storia infinita
Sassi che germogliano
Nati per miracolo
Con gli occhi dei genitori bambini
Senza abbraccio
9. Nomi
Come ti chiami?
Con il nome dei nonni
Iscriversi nel nome
Con il nome sulla porta
10. Memorie che si “incrostano”
Immagini di memoria
Con le vesti del nazismo
Nella mia testa
Télescopage
Scrollarsi di dosso il peso
11. Adozioni
Strategie di avvicinamento
La cesta dell’identità
Come…mio figlio
Foto che respirano
Figlio della Shoah
12. Ribaltamenti
Crescere col racconto
Crescere sotto un velo di silenzio
Scrigni
Luci della ribalta
Come un silenzio interiorizzato
Muri
Missioni impossibili
Come un’idea della mia testa

Claudio Vercelli” Testimoni del non provato” di Raffaella De Castroultima modifica: 2008-11-23T13:34:00+01:00da mangano1
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