Roberto Biorcio, Tre recensioni sul 1977

da POLENA
roberto.jpg€ 14,50, ISBN 978-88-06-18623-4

Marco Grispingni 1977, Manifestolibri, Roma 2006, pp. 126

€ 14,00, ISBN 88-7285-464-8

Concetto Vecchio Ali di piombo, RCS, Milano2007,pp 281

€ 9,40, ISBN 88-17-01493-1

Dopo trent’anni il 1977 continua a far discutere, emoziona, appassiona. Forse un po’ meno del suo fratello maggiore, il 1968, ma con molti più richiami e sottili implicazioni rispetto a questioni tutt’ora aperte. Un anno che rappresentò certamente uno spartiacque rispetto al periodo precedente e al tempo tesso anticipò molti dei temi e problemi del mondo attuale

Il 1977 viene di solito rievocato/rimosso dalla memoria collettiva identificandolo con una mistura di violenze, terrorismo e ubriacatura ideologica. E’ vero che nel corso dell’anno si verificò un’impressionante crescita degli atti violenti: 2128 attentati, 32 persone “gambizzate”, 12 uccisioni per ragioni politiche. Ma il 1977 non fu solo questo. E in ogni caso, non è senza importanza comprendere le ragioni della la crescita della violenza, delle inedite lacerazioni, dei conflitti e delle mobilitazioni che lo caratterizzarono.

I volumi che presentiamo in questa nota ci offrono diversi modi di guardare a questo complesso e controverso passaggio della nostra storia. Tutti si tengono lontani dal linguaggio esclusivamente neutrale e scientifico, distaccato e freddo, che spesso assume lo storico. Le riflessioni si intrecciano a una ricostruzione storica che rievoca, oltre ai fatti, le emozioni e il vissuto dei protagonisti. I punti di vista e le riflessioni sono diversi. Nel 1977roberto1.jpg Lucia Annunziata aveva 27 anni ed era già giornalista del Manifesto e dirigente nazionale del settore scuola per il il Pdup-Manifesto. Mario Grispigni avevapartecipato da ventenni al “movimento”. Concetto Vecchio, giovane giornalista di Repubblica, ricostruisce invece le vicende del 1977 da non partecipante, indagando sulle vicende di quell’anno con una accurata inchiesta che fa parlare protagonisti e utilizza tutta la documentazione disponibile. I tre volumi offrono letture diverse, parzialmente divergenti, ma in buona parte complementari per comprendere i tratti fondamentali e dei passaggi cruciali di quello che è stato definito come una anno duro e drammatico, ma anche ricco di spunti e insegnamenti importanti per il futuro.

Per capire il 1977 non si può non partire dal 1968, dalla mobilitazione transnazionale che aveva colto di sorpresa le istituzioni politiche e le società più avanzate. Una mobilitazione si era infatti sviluppata in tutti i paesi “dal basso”, senza l’intervento di grandi organizzazioni politiche e sindacali. Si affermarono nuovi attori e nuove forme di azione collettiva anche in aree poco toccate in passato dai conflitti sociali. Vacillava la centralità dei partiti nella vita politica. Cambiò anche la stessa concezione della politica, andando ben oltre la dimensione della lotta/competizione per il potere nelle istituzioni dello stato per investire quasi tutti gli ambiti della società civile e della vita privata (“il personale è politico” fu una delle idee centrali proposte negli anni settanta dal movimento femminista). Emmanuel Wallerstein ha paragonato il 1968 al il 1848: “Ci sono state due rivoluzioni mondali. Una nel 1848. La seconda nel 1968. Entrambe hanno fallito. Entrambe hanno trasformato il mondo”. Gli effetti si fanno sentire ancora oggi, se Nicolas Sarkozy, nel corso della sua recente campagna elettorale, si molto impegnato in una battaglia culturale centrata sulla necessità di liquidare l’eredità del ’68 sulla società francese.

Il ‘68 italiano fu molto più lungo sotto il profilo temporale e più significativo dal punto di vista sociale e politico. Mentre l’evento-simbolo del Sessantotto, la rivolta del Maggio francese perse in pochi mesi consistenza e vitalità, così come le mobilitazioni che si erano sviluppate in molti paese, la stagione del ‘68 italiano durò, con alterne vicende, fino al 1977. Il movimento del ‘77 fu un fenomeno prettamente italiano, che non ebbe riscontri diretti e correlati con altri eventi in paesi occidentali.

In Italia la mobilitazione trasnazionale del ‘68 aveva investito un contesto politico e sociale particolare, segnato dalla presenza del più forte partito comunista dell’occidente. Un contesto in cui avevano ancora molta importanza la memoria dalla lotta di resistenza antifascista così come la presenza dei gruppi e delle formazioni politiche eredi del fascismo. La lunga durata del ‘68 italiano rendeva più problematiche le due questioni cruciali, che si pongono sempre alla conclusione dei grandi cicli di mobilitazione. La prima era il passaggio dalla fase di stato nascente del movimento alla sua istituzionalizzazione, alla traduzione e all’incanalamento di idee, atteggiamenti e pratiche diffuse in forme organizzate, con la possibile trasformazione delle istituzioni e delle norme sociali. La seconda era quello dello sbocco politico della mobilitazione, dei suoi effetti sul sistema dei poteri istituzionali esistenti.

I gruppi politici che erano nati dal movimento avevano immaginato di ripercorrere in tempi accelerati la stessa strada che aveva portato dalla nascita del movimento operaio alla formazione dei partiti socialisti e comunisti. I risultati però erano stati del tutto deludenti, non appena si passava dalla mobilitazione di piazza la voto. Nel 1972 la lista del Manifesto, che presentava Pietro Valpreda come candidato, non era andata altre lo 0,8% dei voti. Nel 1976, tutte le formazioni della nuova sinistra riunite nella lista di Democrazia Proletaria, ottenevano solo l’1,5% dei consensi, un risultato vissuto subito dai tutti come una sconfitta. In alternativa, era possibile ricercare un diverso tipo di sbocco politico per le mobilitazioni dei primi anni settanta assumendo come referente il partito comunista, all’epoca il più grande partito comunista. Il crollo di consensi alla DC e l’avanzata del PCI, del PSI nelle elezioni amministrative del giugno 1975 alimentarono attese di cambiamenti profondi, a partire dal un nuovo quadro politico governativo. Anche se il partito comunista aveva proposto fin dal 1973 il compromesso storico per fronteggiare pericoli golpisti, la crisi dei consensi per la DC, poteva aprire la strada a un governo delle sinistre. Le elezioni politiche anticipate del 20 giugno 1976, rovesciarono queste speranze, facendole diventare illusioni: i voti per il PCI crescevano ancora, ma non superavano quelli della DC. I numeri non erano sufficienti per formare un governo di sinistra e si formò così l’ennesimo governo a guida democristiana sorretto dall’astensione dei comunisti.

Improvvisamente, una parte consistente del mondo giovanile che aveva sperato nella trasformazione si sentì spiazzata, senza una rappresentanza e delusa dal “fare politica” che aveva praticato fino al giorno prima. La sinistra extraparlamentare fu attraversata da una crisi profonda: Lotta Continua fu ufficialmente sciolta, l’aggregazione fra Manifesto, Pdup e Avanguardia operaia andò rapidamente incontro a una scissione. Settori di militanti si staccarono da queste formazioni, alcuni ritirandosi delusi dalla politica, altri entrando nell’area di Autonomia Operaia. Altri ancora rimasero sconcertati a considerare con rabbia, angoscia e disperazione la prospettiva di non avere più un futuro. Si registrò una diffusione crescente dell’eroina, con 34 morti nel 1977, che aumentarono negli anni successivi fino 206 nel 1980.

Un nuovo movimento, poi definito come “uno strano movimento di strani studenti”, prese avvio nel mese febbraio, con l’occupazione dell’università di Roma. La mobilitazione contro una circolare del ministro Malfatti che abrogava la liberalizzazione dei piani di studio si estese rapidamente in molte città. Il giornale Lotta continua titolava “Son tornati gli studenti!”, sembrava si fosse messo in moto un nuovo ‘68. Nei mesi successivi, le mobilitazioni degli studenti si alternarono agli scontri di piazza, agrandi raduni e assemblee fino al convegno sulla repressione del mese di settembre. Nel movimento confluirono soggetti giovanili di varia provenienza, dai disoccupati, agli studenti fuori sede, dai delusi dalla politica dei gruppi della nuova sinistra ai militanti dell’autonomia operaia, dai giovanissimi studenti delle medie superiori alle giovani donne del movimento femminista. Un movimento nel quale convivevano istinti ribellistici, disponibilità alla violenza spontanea, il rifiuto dell’organizzazione politica e in alcuni casi dell’idea stessa di politica.

A differenza del 1968, questa volta il PCI si collocava nell’area governativa, e quindi il movimento si trovò immediatamente all’opposizione anche rispetto ai comunisti. Era un fatto nuovo che non aveva precedenti. Mai un movimento di sinistra si era opposto risolutamente e senza possibilità di mediazione al PCI. La cacciata di Luciano Lama, segretario generale della CGIL, dall’università di Roma il 17 febbraio 1977, fu l’evento simbolico che accentuò e rese irreversibile la contrapposizione tra il movimento, il partito comunista e la CGIL.

La lacerazione della sinistra è il tema centrale del libro scritto da Lucia Annunziata. Un tema vissuto in prima persona come lacerazione personale, rievocata senza reticenza. Durante gli scontri seguiti al comizio di Lama, aveva scagliato un sampietrino “Nell’aria volava di tutto, lanciai il mio, che fece un percorso breve e andò ad atterrare chissà dove”. Al ritorno alla redazione del Manifesto, ne riportò uno nella borsa a tracolla “Ero molto orgogliosa di quella pietra. Aveva avuto il coraggio di volare contro quelli del Pci”. Cominciò a mostrarlo ai compagni, ma incontro la disapprovazione di Rossana Rossanda. E il giorno seguente fu aspramente rimproverata dal padre, operaio comunista, per l’articolo scritto sul giornale.

Lucia Annunziata ricorda Settantasette come una sorta di parricidio nelle due grandi famiglie della politica italiana: “Nel 1977 la famiglia della sinistra uccise suo padre, il Partito comunista italiano. Un delitto a lungo cercato. Nel 1978 la famiglia politica democristiana uccise il suo, nel corpo di Aldo Moro. Fra le due esecuzioni, un’evidente continuità di cause ed effetti”.

Le responsabilità per la lacerazione della sinistra sono equamente divise. Il Pci era un partito di “vecchi, vecchi, vecchi”, dominato da pessimismo che viveva nell’incubo di un’involuzione autoritaria del sistema e premeva per entrare nel governo insieme alla DC. Il movimento peccava invece di ottimismo “sperando davvero di poter prolungare l’onda lunga del ’68, sottovalutando il logoramento delle condizioni politiche” Le formazioni della nova sinistra erano i crisi, non in grado di esprimere la propria egemonia in un contesto politico-culturale stravolto da aspre lotte. Lo “strano movimento di strani studenti” del ‘77, come fu definito, visse pochi mesi e pericolosamente, schiacciato dagli interventi repressive, dell’ostilità messa in campo dal PCI e dalla carica di violenza che frange consistenti al suo interno praticavano.

Grispigni, Vecchio e Annunziata ricostruiscono la storia del susseguirsi di episodi cruenti che condizionarono il dibattito e le prese di posizione. La violenza non fu più solo praticata a scopo difensivo nei confronti degli attacchi dei neofascisti o della polizia, erano parti consistenti dei partecipanti al movimento stesso che attaccavano e aggredivano, cercando esplicitamente la radicalizzazione armata del conflitto. Si trattava spesso di una violenza spontanea, praticata da gruppi di giovani e giovanissimi con azioni di grande impatto simbolico/emotivo, ignorano o volutamente trascurando le disastrose conseguenze politiche. L’esercizio della violenza, spesso usata anche dentro le assemblee per conquistarne l’egemonia, fu duramente contrastato dalle formazione della nuova sinistra, dall’ala “politica” del movimento e dal movimento femminista, ma fu una battaglia sostanzialmente persa. Molti giovani si allontanarono dal movimento, da un lato impauriti e disgustati dalla violenza dello scontro interno, dall’altro insoddisfatti dal ritorno della vecchia politica. Questa componente prese un’altra strada, quella della creatività, della innovazione culturale, della destrutturazione e sovversione del discorso dominante, della quella critica verso la politica. Scoprì la grande importanza della comunicazione e si impegno soprattutto nelle esperienze delle radio libere: Radio Alice, Città Futura, Radio Popolare, Sherwood, Onda Rossa e tante altre.

L’esperienza innovativa, gioiosa e dissacrante del movimento del ’77 si concluse già nel mese di settembre, quando il testimone passò agli autonomi e ai gruppi della lotta armata, in un contesto dominato da un crescendo di violenze. Il movimento ormai non esisteva più; piegato dalla violenza, dalla repressione, dalle lotte interne; era scomparso, portando con sé tutte le sue ambiguità.

Per Concetto Vecchio, che non ha vissuto quell’esperienza, il movimento del ‘77 esercita ancora una sorta di fascinazione. Alla fine del suo lavoro di attenta ricostruzione, non nasconde la nostalgia per una generazione «capace di socializzare attraverso la politica, una vera e propria palestra di vita. Credere nell’ideologia, o forse nell’utopia, ha rappresentato una ricchezza che è mancata a tutte le generazioni successive. La politica non si era ancora trasformata in sterile amministrazione di sistemi, ma era il risultato di idee, iniziative, entusiasmo: un’esperienza che invidio un po’ a chi l’ha vissuta».

Molto diverso il bilancio di Marco Grispigni e di Lucia Annunziata, che vedono nel 1977 soprattutto la fine della politica, almeno la fine degli schemi che erano durati dal dopoguerra fino agli anni sessanta, ed erano sopravvissuti anche negli anni settanta. Se il ’68, almeno in Italia, aveva favorito la socializzazione politica dei giovani, il ’77 segnò, per molti dei partecipanti, l’inizio della fine della politica come elemento socializzante e impegno volto a modificare la società. Una parte minoritaria ma consistente della giovane generazione aveva vissuto una grande speranza nei primi anni settanta, seguita a breve termine da una grande delusione. Nel nome della critica della politica, ci si allontanò da quell’ambito d’azione, lasciando spazio al vivere qui ed ora, nel presente, liberando tutte le espressioni della soggettiva. In molti casi, si tratto semplicemente di ripristinare il primato del privato sul pubblico.

Roberto Biorcio, Tre recensioni sul 1977ultima modifica: 2008-12-05T00:06:00+01:00da mangano1
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