Gustavo Zagrebelsky, Quando si dice lo giuro

Gustavo Zagrebelski, Quando si dice lo giuro, un saggio di Giorgio Agamben
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Repubblica, 19 dicembre 2008

Conosciamo il giuramento come pertinente alla sfera del sacro e in seguito
come istituto giuridico per lo studioso si tratta di una storia che in origine
riguarda la parola.
Le cose sono molto cambiate nel corso dei secoli e oggi si vive senza un
patto giurato.
In principio l´atto del giurare mette la lingua umana in relazione con quella
divina
La molla intellettuale comune a molta parte delle ricerche di Giorgio
Agamben è l´interesse per l´archeologia dell´essere umano, archeologia nongustavo1.jpg
come risalita della corrente del tempo verso le origini, ma come scoperta di
principi costitutivi e fondativi: arcani, da arké, per l´appunto. C´è molta
differenza tra queste ricerche e, per esempio, quella che si potrebbe dire di
antropologia filosofica elementare di un Arnold Gehlen, in Italia noto
soprattutto per il suo volume tradotto da Feltrinelli nel 1983, col titolo L´uomo.
Qui si sviluppa un nucleo concettuale, l´idea dell´essere umano come
eccesso di pulsioni che si “istituzionalizza” per tenerle sotto controllo e, su
questa idea, si compone un sistema. Questo accenno serve per differenza. In
Agamben, è il contrario. Egli, per così dire, segue segni e tracce, dovunque si
trovino: certo nella preistoria o ultra-storia, nella storia e perfino nella
“poststoria”, ma anche nella filosofia, nella filologia, nella linguistica, nella
teologia, nella politica, nella fisiologia, nella psicologia, nell´arte e perfino nel
diritto. Insomma, un seguire le piste che conducono dovunque si possa
trovare qualcosa di utile. Per muoversi così, occorre illimitata curiosità unita a
eccezionale vastità del sapere. In ogni caso, sono travolte le consuete
divisioni disciplinari accademiche, onde definire Agamben un “filosofo” è
certo riduttivo.
Il risultato, secondo il titolo di un suo volume del 2003, è L´aperto, l´essere
umano indefinito che viene definendosi, mai definitivamente, entro campi di
tensione che, oggi, a differenza d´un tempo, mettono in questione l´esistenza
stessa di una sostanza, un´ontologia minima, comune a tutti gli esseri umani
e costante in ogni tempo. Davvero, l´uomo non è più una «natura umana»,
ma qualcosa da ridefinire continuamente attraverso scomposizioni e
composizioni dall´esito sempre variabile. I campi di tensione sono i più
diversi, determinati da forze materiali ed elaborati culturalmente:
corporeità-spiritualità, macchina-organismo, tenebre-luce, tempo finito-tempo
infinito, animalità-umanità, eccetera, fino al dualismo radicale vita-morte,
proprio dell´epoca della biopolitica e della «nuda vita».
Nel libro che qui si presenta, Il sacramento del linguaggio. Archeologia del
giuramento (Laterza), l´essere umano è considerato nella tensione tra parola
significante e oggetto significato. Nel momento in cui l´essere vivente si
percepisce come parlante, percepisce anche una realtà esterna che deve
essere in corrispondenza, deve essere “corrisposta” dal discorso. Ma non c´è
nessuna garanzia di corrispondenza, c´è invece uno spazio vuoto, una
distanza incolmabile che nessuna parola, nessuna moltiplicazione di parole
può colmare: anzi, si potrebbe dire che il moltiplicare le parole moltiplica
questi spazi. Poiché la parola detta non è detta soltanto per sé dal parlante,
ma è detta in funzione della comunicazione con altri, per costoro la parola
diventa a sua volta una “cosa”, un significato che ha bisogno d´essere
afferrato attraverso un significante, cioè un´altra parola. Questa può anche
essere la medesima della prima, ma con questa entra in un rapporto di
indeterminatezza analogo a quello che legava la prima parola alla cosa
significata. In altri termini, il linguaggio umano e i rapporti sociali che esso
stabilisce sono una somma di innumerevoli spazi intermedi di comprensioni
incerte, di fiducia carente, di equivoci, di menzogne, di inganni possibili, di
sospetti inevitabili. L´essere umano sta in questo vasto luogo incerto, che le
sue parole delimitano da una parte, e la realtà cui il linguaggio si riferisce
delimita dall´altra. Qui, in questo spazio, si collocano l´essere umano, in
quanto “parlante”, e il suo giuramento.
Il giuramento, così come lo conosciamo, è un istituto della religione e del
diritto: un´affermazione (di un fatto o di una promessa), assistita
dall´evocazione della divinità, o comunque di qualcosa di sacro, come
testimone o garante, e da un´auto-maledizione in caso di spergiuro.
L´apparato sanzionatorio è messo in moto da norme e strumenti religiosi o
giuridici. Sempre secondo le idee ricevute, in base a un paradigma
esplicativo di portata generale, in origine il giuramento sarebbe appartenuto
alla sfera del sacro, poi, attraverso processi di differenziazione del diritto dalla
religione, sarebbe divenuto un istituto giuridico.
Ma, secondo Agamben, la ricerca dell´arké ci porta altrove, rispetto alla
religione e al diritto. Il giuramento, nella sua essenza, sarebbe una vicenda
della parola, non dell´autorità. Religione e diritto intervengono semmai in un
secondo momento, a supporto di un deficit di linguaggio. Il giuramento è una
proposizione di validità della parola, cioè di rispondenza fedele del
significante al significato; esso non riguarda, in origine, una promessa (di dire
la verità, di adempiere un impegno preso) nei confronti dell´udente, ma
riguarda il linguaggio stesso e, come tale, appartiene al suo “statuto” e alla
condizione di parlante.
L´archetipo della parola è la parola di Dio, la parola creatrice. «E Dio disse:
sia la luce. E la luce fu» (Gen 1, 3). La parola di Dio è vera, è la parola per
eccellenza, perché essendo creatrice, non ha di fronte a sé “cose significate”
cui deve corrispondenza, anzi non ha nulla «di fronte a sé», che non sia nella
parola che realizza se stessa. La parola divina è l´esempio più chiaro di
“performativo”: l´atto linguistico che non descrive uno stato di cose, ma
produce immediatamente un fatto, realizzando il suo significato. Sotto questo
aspetto, si comprende che Dio non giuri, perché – si può dire – in verità ogni
sua parola è un giuramento. Sotto un altro aspetto, si può aggiungere che
ogni parola divina è miracolo. «Talità kum», fanciulla alzati, disse il Cristo alla
figlia morta del capo della Sinagoga (Mc 6, 41) e la fanciulla si alzò. Ecco un
altro esempio della potenza creatrice della parola divina.
Nel modo che è possibile, il giuramento degli esseri umani è un modo di
mettere la loro lingua in comunicazione con quella divina, sotto l´aspetto che
più d´ogni altro interessa: la corrispondenza tra significante (la parola) e il
significato (la cosa), ciò che è alla base della fiducia, la risorsa essenziale per
la costruzione di qualsiasi forma di convivenza tra gli umani. Un esempio di
“performativo” nel linguaggio umano è certo linguaggio giuridico. «Uti lingua
nuncupassit, ita ius esto», dicevano le XII Tavole (come correttamente sarà
detto dalla parola, così sarà per il diritto). Un altro è il “sì” che si pronuncia
davanti all´ufficiale dello stato civile che, di per sé, produce lo status
coniugale. Un altro ancora è il linguaggio legislativo, quando esso determina
situazioni giuridiche: l´extra-comunitario che entra nel nostro Paese, in
assenza di determinate condizioni, è “clandestino”. Qui davvero le parole
creano le cose, le situazioni. Ma si vede l´irriducibile differenza rispetto alla
parola divina: mentre questa deriva da un potere totalmente fondato su se
stesso (l´ «io sono colui che sono» del roveto ardente), la parola umana, per
produrre i suoi effetti, ha sempre bisogno di fondare la sua validità su
qualcosa, una norma (le XII Tavole o il codice civile) o un principio che la
precede come un criterio di validità. Anche la legge è sottoposta a un test di
validità. In un supremo esercizio di teologia politica, potremmo dire che lo
Stato, assunto come assoluto, cioè come colui che ha detronizzato Dio,
potrebbe ambire ad auto-assegnarsi la parola creatrice, la parola che non
dipende che da se stessa: lo Stato che potesse auto-definirsi, per analogia,
«io, lo Stato, sono colui che sono stato». Ma ciò non è nemmeno per le teorie
più marcate in senso assolutistico: lo Stato di Thomas Hobbes è pur sempre e
solo un Dio “mortale”, di cui occorre comunque poter giustificare la sua “vita”.
In breve, il giuramento è un performativo: vuole legare fino a far coincidere la
parola con la cosa. Ma, per gli umani, occorre che il giuramento stesso
risponda a un criterio di validità. Il criterio è: i giuramenti sono vincolanti. Ma il
giuramento non esclude lo spergiuro; l´invocazione del nome di Dio non è
garanzia ch´essa non sia “invano”. Il perché i giuramenti fossero e dovessero
essere vincolanti, per molti secoli è dipeso dalla presenza, testimoniale o
vendicatrice, di Dio.
Oggi non è, palesemente, più così, in particolare nella sfera pubblica. Il
giuramento, che Machiavelli metteva a base della gloria romana, più ancora
che l´obbedienza alle leggi; il giuramento da cui, per Locke, poteva scaturire
l´appartenenza al patto sociale, con la conseguenza che gli atei, che non
potevano giurare, dovevano esserne esclusi; il giuramento, dunque, non
figura più al posto d´onore delle istituzioni politiche, che la secolarizzazione
ha reso autonome dalla dimensione del sacro. Dove residua, ha perso
questo suo carattere, essendosi trasformato in una semplice «promessa
solenne» (Corte costituzionale, sent. n. 334 del 1969), oppure essendo
divenuto facoltativo (Corte costituzionale, sent. n. 117 del 1979). L´integrità
della parola è rimessa interamente alla auto-responsabilità verso gli altri,
potremmo dire alla responsabilità politica di chi la usa. Forse, c´è un rapporto
tra evanescenza del giuramento ed evanescenza di questa responsabilità. La
menzogna, magari spudoratamente spergiurata; la parola detta e poi subito
dopo contraddetta; la parola che vaga male-detta, indipendentemente da
ogni legame con un significato: tutto ciò ha invaso la nostra vita e costituisce
uno dei non minori segni di disfacimento di convivenza. Il libro di Agamben
inizia e termina con la citazione da Paolo Prodi, Il sacramento del potere. Il
giuramento politico nella storia costituzionale dell´Occidente (1992). In
questo libro si constatava che le nostre generazioni convivono, pur senza
fondarsi su alcun patto giurato, e ci si chiedeva se la novità non dovesse
indurre a riflettere su una capitale trasformazioni delle modalità di
associazione politica. Agamben, riprendendo questo spunto, conclude con
queste osservazioni la sua diagnosi circa la dissociazione tra parola e cosa,
causa ed effetto di radicale de-responsabilizzazione del parlante rispetto al
parlare e alle cose di cui parla, prima che rispetto all´ascoltatore: «da una
parte sta ora il vivente, sempre più ridotto a una realtà puramente biologica e
a nuda vita, e, dall´altra, il parlante, separato artificiosamente da esso,
attraverso una molteplicità di dispositivi tecnico-mediatici, in un´esperienza
della parola sempre più vana, di cui gli è impossibile rispondere e in cui
qualcosa come un´esperienza politica diventa sempre più precaria».
Anche questo è un tassello, non tra i meno preoccupanti, per la
comprensione di che cosa sia quella materia mobile, aperta, che è l´essere
umano.
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Gustavo Zagrebelsky, Quando si dice lo giuroultima modifica: 2008-12-21T22:42:00+01:00da mangano1
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