Zygmunt Baumann, L’avanguardia che non c’è più

da LA REPUBBLICA 19 GENNAIO 2009
ZYGMUNT BAUMANN,

zygmunt.jpgL’Avanguardia che non c’è più  élite nella società liquido-moderna
L’analisi del sociologo: è tramontata l’epoca della differenza tra cultura “alta”
e “bassa” e élite nella società liquido-moderna  movimenti del ´900 avevano una missione: far aprire gli occhi su nuovi
mondi er i “trend-setter” possono convivere l’iPod e il rugby accanto al balletto e il otico vittoriano anticipiamo parte dell´articolo di che apre il prossimo numero del “Terzo  occhio” tutto dedicato al Novecento e al mito della modernità, col Futurismo
in primo piano I concetti di “being in a vanguard” (in inglese) o “en avant-garde” (in
francese), coniati originariamente nel linguaggio e dalla pratica militare, e in eguito trapiantati, come metafora, in altri settori della vita, significano più di n mero “essere avanti” in prima linea, avanzati più lontano di quanto gli altri riescano a essere; implicano tracciare una nuova via, rendere transitabile una strada, prendere una testa di ponte che lo aprirebbe alla circolazione; in breve, suggeriscono di mostrare, di aprire e di liberare la strada affinché gli altri entrino e vadano avanti. Tutti questizygmunt2.jpg

suggerimenti e queste implicazioni si basano su un presupposto a volte esplicito a volte tacito: che ci siano alcuni
“altri” (se lo sappiano già oppure se finora non ci avessero mai pensato) che
dovrebbero essere desiderosi ed entusiasti di seguire, non appena
l´avanguardia abbia terminato il suo lavoro preparatorio di ricognizione. (…)
Oltre al presupposto di preparare/liberare/mostrare il percorso, il concetto
dell´”avanguardia” comporta la visione di un movimento in avanti – di
progresso. Per queste due ragioni, i futuristi, gli impressionisti, i cubisti, i
fauvisti, i surrealisti, i dadaisti, gli espressionisti astratti o no, e numerosi altri
movimenti artistici degli eccitanti tempi inclini al futuristico, erano pienamente
nei loro diritti quando hanno preso in prestito l´idea di avanguardia per
descrivere la loro posizione e dichiarare i loro intenti. Per le stesse due
ragioni, tuttavia, attribuire o adottare la metafora dell´”avanguardia” per
descrivere o auto-definire delle novità artistiche ai nostri tempi, potrebbe solo
voler dire rubare i meriti di qualcun altro, nella speranza che nel frattempo i
ladri si approprino dei bei ricordi della gloria passata.
I movimenti avanguardisti di un tempo (più precisamente, dell´inizio e della
metà del XX secolo – i periodi precedenti il passaggio dallo stato “solido” a
quello “liquido”) si consideravano al contempo plenipotenziari e veicoli, ma
soprattutto unità avanzata del progresso con una missione cruciale da
compiere: aiutare i loro simili a uscire dal rivestimento d´acciaio della
tradizione stantia, esausta e sempre più sterile nel quale erano stati rinchiusi,
e aprire i loro occhi su nuovi modi, finora inesplorati e ancora rifuggiti, non
solo di comprendere l´arte, ma anche di stare nel mondo. (…)
E l´avanguardia credeva, come avrebbero dovuto credere quando il culto del
progresso era ancora la religione ascendente e la fede nelle ferree leggi
della storia non era ancora quasi mai stata interrogata, di avere la storia dalla
sua parte. La storia andava avanti e indietro, e così facevano le arti, le truppe
avanzate della cultura umana. Le vele della storia stavano aspettando che
spirasse il vento dagli studi e dai laboratori d´arte. Più forte è questo vento,
più veloce andrà la storia…
Niente di ciò che è stato detto sopra riguardo alle arti resta ancora vero nella
nostra società liquido-moderna di consumatori.
Stephen Fry, un attore britannico popolarissimo sempre sul palcoscenico, al
cinema e in televisione, rinomato per la sua arguzia e il suo talento di
narratore, modello vivente dello stile di vita che gli aspiranti membri dell´élite
artistico-culturale vorrebbero tanto abbracciare, è un ospite molto desiderato
in qualsiasi salotto intellettuale londinese e in qualsiasi party che ambisca al
rango di “favola della città”, e un indirizzo molto ambito nella rubrica di
qualsiasi network con una ragionevole pretesa di prestigio e di rilievo; in
breve, una persona dall´enorme influenza sulle menti di qualsiasi cosa possa
essere definita l´attuale “élite culturale”. Nel cercare di spiegare il fenomenale
successo del sito web Facebook, l´ottimo giornale British Sunday notava che
“la folla” dei suoi utenti, insolitamente per i siti di social network, «includeva
tantissimi tipi famosi» e suggeriva che ciò accadesse perché «in che altro
modo potresti chiedere a Stephen Fry di diventare tuo amico?».
Stephen Fry, una celebrità rispettata da chiunque voglia essere qualcuno nel
mondo degli intenditori delle ultime mode culturali, ha sentito la necessità di
spiegare e giustificare ai lettori del Guardian perché sia accettabile per una
persona come lui, acclamata come modello delle più raffinate e sublimi
credenziali culturali, infilarsi una volta a settimana i panni di “fissato”,
dedicando la sua rubrica all´ultimo gingillo elettronico: congegni che si ritiene
appartengano alla cultura “popolare” (in passato, in tempi felicemente ignari
del “politicamente corretto”, conosciuto come “cultura di massa”) piuttosto che
al suo superiore/detrattore alto o intellettuale (le denominazioni “alto” e
“intellettuale” non sono più utilizzate nell´attuale gergo del politically correct,
tranne che come insulto, con derisione e tra virgolette). Fry comincia la sua
dichiarazione con una confessione: «I dispositivi digitali scuotono il mio
mondo. Questo potrebbe essere considerato da alcuni come una tragica
ammissione. Non il balletto, l´opera, il mondo naturale, Stephen? Non la
letteratura, il teatro o la politica mondiale?». E si affretta a prevenire le
potenziali accuse: «Beh, la gente può andare matta per tutte le cose digitali e
ancora leggere i libri, può andare all´opera e guardare una partita di cricket e
richiedere i biglietti dei Led Zeppelin senza andare in frantumi (…). Ti piace la
cucina tailandese? E che c´è che non va con quella italiana? Ehi, calma. Mi
piacciono entrambi. Sì. Si può fare. Mi possono piacere il rugby e i musical di
Stephen Sondeim; l´alto gotico-vittoriano e le installazioni di Damien Hirst.
Herb Alpert e Tijuana Brass e i pezzi per pianoforte di Hindemith; gli inni
inglesi e Richard Dawkins; le prime edizioni di Norman Douglas e l´iPod; il
biliardo, le freccette e il balletto (…). (Una) passione per gli aggeggi non mi
rende restio alla carta, alla pelle e al legno, ai Natali vecchio stile, ai film di
Preston Sturges e le passeggiate in campagna».
Alcuni limiti sono ancora rispettati, e oltrepassarli è da incauti. In toto,
comunque, questa pubblica confessione e dichiarazione supplica di essere
letta come una decisa sfida al concetto di Pierre Bourdineau di “distinzione”,
come principale posta in gioco nella battaglia delle arti, concetto che ha
governato e ottimizzato la nostra concezione delle arti e più generalmente
della “cultura” durante gli ultimi tre decenni.
Stephen Fry ha la reputazione di essere un trend-setter, ma è anche il più
attendibile portavoce (e la personificazione vivente) delle mode; ci si può
fidare del fatto che parla non solo a nome suo, ma anche a nome dei
centinaia di migliaia di militanti e dei milioni di aspiranti membri dell´”élite
culturale” – persone che conoscono la differenza tra comme il faut e comme il
ne faut pas, e che sono le prime a notare il momento in cui quella differenza
diventa diversa da ciò che era un momento prima. E non ha sbagliato
neanche questa volta. Secondo uno studio scritto da Andy McSmith e
pubblicato nell´edizione on-line dell´Independent, autorevoli accademici
riuniti nella più autorevole università – Oxford – hanno proclamato che «l´élite
culturale non esiste». A questo punto McSmith, cercando un titolo
adeguatamente pungente e stimolate, non ha comunque trovato quello
adatto: ciò che John Goldthorpe, uno dei più rispettati ricercatori di scienze
sociali di Oxford, e la sua équipe di 13 ricercatori hanno dedotto dai dati
raccolti nel Regno Unito, in Cile, in Ungheria, in Israele, nei Paesi Bassi e
negli Stati Uniti, è che non si possono più trovare persone superiori che si
distinguano da altre, a loro inferiori, andando all´opera e ammirando
qualsiasi cosa sia stata attualmente marchiata come “arti alte”, mentre
arricciano il naso con «qualsiasi cosa di volgare quanto i brani pop o la
televisione generalista». Il leopardo dell´élite culturale è molto vivo e
graffiante, ha solo cambiato le sue macchie, che possono essere chiamate –
da quando Richard A. Petersen della Vanderbilt University ha coniato nel
1992 la parola “onnivoracità” – opera e brani pop, “arti alte” e televisione
generalista; un pezzetto da qui, un pezzetto da là; ora questo, ora quello.
Come si è recentemente espresso Petersen: «Assistiamo a un cambiamento
nella politica della classe elitaria, da quegli intellettuali che disdegnano
snobisticamente tutta la cultura popolare bassa, plebea o di massa, a quegli
intellettuali che consumano in modo onnivoro una vasta gamma di forme
d´arte popolari oltre che intellettuali». (…)
La cultura liquido-moderna non ha “persone” da “coltivare”, piuttosto dei
clienti da sedurre. E diversamente dal suo predecessore “solido-moderno”,
non desidera più fare in modo, alla fine ma il prima possibile, di terminare il
lavoro. Il suo lavoro consiste ora nel rendere la propria sopravvivenza
permanente, rendendo temporali tutti gli aspetti della vita dei suoi vecchi
pupilli, ora rinati come clienti.

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Zygmunt Baumann, L’avanguardia che non c’è piùultima modifica: 2009-01-20T19:31:00+01:00da mangano1
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