Giancarlo Pavanello, Viaggio

GIANCARLO PAVANELLO, VIAGGIO 20 GENNAIO 2009
giancarlo.jpg
( a M.B) 2008

(un testo che intende rompere gli argini dei generi letterari. la volontà di raccontare senza scrivere racconti e romanzi codificati. un diario inteso come “giornalismo intimo”, giocato sul doppio senso della parola francese “journal”: un contenitore di spezzoni saggistici, narrativi e lirici, con un’attenzione rivolta al passato, al presente e al futuro, fra atmosfere drammatiche e/o comiche. il mondo interiore e la globalità del mondo moderno, percorso in un viaggio che privilegia gli elementi secondari, più nascosti o più segreti, perfino banali o in apparenza banali, o più semplicemente in ombra, periferici: insomma, un itinerario lontano dalle escursioni esotiche o reclamizzate. va da sé che, di conseguenza, la scelta stilistica gioca intono a una sintassi volutamente anomala [spesso], o frammentata, accidentata. il segreto per renderne scorrevole la lettura è una chiave semplice: prestare molta attenzione alla punteggiatura, solo così si può entrare con facilità nel respiro della gestazione del testo. con paragrafi corretti e impaginati in modo tradizionale, e altri lasciati come abbozzi o appunti con limature studiate.)
giancarlo1.jpg

Il
maggio incerto, non si sapeva come vestirsi [un “si” da evitare, insomma noi fragili creature, un incipit scritto male, per di più con un riflessivo all’infinito]: leggero se all’improvviso faceva freddo, pesante con il caldo di colpo, stagioni pazze. da Milano a Verona Porta Nuova, dove mi ero recato con un treno regionale, alla stazione, ore 18.07. era venuto Franz per accompagnarmi sulle colline, in maglietta estiva, mentre entrava gli voltavo le spalle, intento a guardare un cerchio sul pavimento, disegnato con piastrelle bianche al centro dell’ingresso, di fronte agli sportelli: “sembra fatto apposta per gli appuntamenti”. [nella fiction avevo barato, come si faceva secondo le regole editoriali, nella realtà era un ovale]. a casa sua, subito mi aveva indotto a mettermi in linea con la stagione: calzoncini corti e leggeri e per uscire in pizzeria una t-shirt che mi stava a pennello, come ne cercavo e che quella settimana non ero riuscito a trovare [shopping mancato]. mentito, aveva il colletto, quindi non era una […] Sapeva che non ero nessuno, un’essenza vuota, e prestandomi il suo indumento aveva voluto evidenziare la consapevolezza di trovarsi in contatto con una persona da riportare alle origini, al punto in cui un trauma ignoto aveva preso il sopravvento facendo sbocciare una “timidezza” bacata, simile a un fiore infangato. [cfr. una qualsiasi bibliografia sulle origini della filosofia nel XXI secolo, sarebbe stato opportuno usare un sinonimo]. Nei miei entourages di intellettuali, in decenni di vita, in mezzo secolo, avevo incontrato solo l’ottusità della saccenza. Un’occhiata acuta, seguita da una decisione esatta.

in realtà, avevamo intrapreso una ricerca [ci eravamo ritrovati per organizzarla nel concreto]: la scoperta dell’identità di un nostro lontano parente, almeno secondo le voci che circolavano [un probabile cugino illegittimo], morto di morte violenta, violenta e misteriosa, forse in un incidente stradale, forse per ragioni ereditarie, aveva lasciato un ingente patrimonio, nessuno ai suoi funerali [nemmeno noi, io e Franz]. avevamo nutrito molti dubbi, e per questo avevamo cominciato a scambiarci le nostre impressioni, sempre più fino alla decisione di scoprire chi fosse e di non abbandonare i viaggi senza esito, tanto più che l’unico indiziato, poi condannato per omicidio volontario all’ergastolo con pena ridotta, se l’era cavata con una piccola ammenda [circa 23 euro e 30 centesimi dell’epoca], dato che l’assassinato aveva abbandonato la civiltà, per così dire, per fare la vita dell’homeless.

bisognava affrontare la questione morale: in pochi eravamo disposti a pagare qualche tassa in più, a patto che non ci governassero i gaglioffi allora al potere [al governo], prepotenti, volgari, e perfino [omissis] […]. la situazione politica permetteva qualsiasi delitto, di poco conto o cruento, dalle minacce per ragioni di prepotenza condominiale all’evasione fiscale, dal piccolo imbroglio al momento di pesare la frutta e la verdura [conteggiando un prezzo superiore a quello indicato sul banco] al falso in bilancio, dalle corruzioni giudiziarie agli illeciti finanziari, c’era da perderci la testa. trionfavano le mafie, ormai diventate parte integrante degli ambienti imprenditoriali. ma non era questo lo scopo del nostro viaggio [eravamo incompetenti, altri eroi ne sapevano molto di più]: una piccola digressione nelle digressioni per situare l’epoca storica, su cui scarseggiava la documentazione, malgrado la pulsione cronachistica a tempo pieno da parte di tutti e a qualsiasi livello, con tecnologie vecchie e nuove]

Peschiera del Garda

Quelle architetture militari, o almeno una parte, viste sempre dal treno, circondate dalle acque. Dopo il ristorante in località sconosciuta eravamo andati a passeggiare sul lungo-lago, poi seduti su una panchina. “Là c’è Sirmione, le luci sulla punta del promontorio”. No, la punta, con le Grotte di Catullo, stava dalla parte opposta, sulla destra di noi osservatori. Di solito avevo la visuale da Desenzano, quindi l’area archeologica si trovava a sinistra. Tutto il globo terrestre era un sito turistico, la discarica dell’universo. Ma non la sera in cui, dopo una pizza “quattro stagioni”, mi aveva accompagnato ad ambientarmi fra Veneto e Lombardia: il locale era molto grande in mezzo a un giardino variamente stilizzato, con una vasca con piccole tartarughe, zampilli, prati, fiori, piante, alberi, sentieri e gradini e terrazze con tavoli all’aperto. Ovvio sarebbe stato definirlo “zen” [cultura orecchiata] ma una qualche simbologia rigorosa era andata a farsi fottere. Poi in macchina in una piazzaforte. Sulla via del ritorno molte donne di strada, da me definite “ragazze”, per rispetto, una serata come tante, il giorno dopo al lavoro: “L’ergastolo a quelli che le sfruttano”. Allegria: mi stavo convertendo alla pop art pensando a Gardaland, forse ci saremmo andati assieme, per curiosità, si sa, erano cose per bambini.

Durante una nostra consueta passeggiata dopocena, un pretesto per un gelato, avevamo notato, noi e altri turisti, alcuni cigni in sosta su un piccolo approdo del lago con i loro cignetti di colore nocciola, il colore bianco con il passare del tempo, il colore dell’innocenza nella simbologia più ovvia. [Si nasce scuri e si diventa candidi. In realtà per noi umani le cose erano molto diverse, il contrario.] E le anatre, simpaticissime, imperterrite nuotavano su e giù, anche in quell’ora tarda, non andavano a dormire. Alcune sulla riva, lungo il marciapiede, sembravano stanche, in procinto di ritirarsi per la notte, ma no, una si era tuffata in acqua e le altre l’avevano seguita a una a una. “Mi piaceva di più Paperino, le cose gli andavano sempre storte, era irascibile, ma poi dimenticava tutto ed era simpatico e vivace”, avevo detto. “Topolino era troppo saccente”.

Il mio diabete [paventato in agosto], più una minaccia o un primo avvertimento, a detta del diabetologo, che non l’aveva diagnosticato come tale ma che mi aveva messo in guardia, essendoci incline per motivi ereditari: l’ultimo gelato in cono in atmosfera innocente passeggiando, ore 22.30 circa, poi i gelati sarebbero stati ridotti, uno ogni tanto e con un senso di colpa. Eravamo capitati nella piazzola dove si trovava il vecchio carcere militare. “Là è rinchiuso quel criminale nazista che hanno beccato pochi anni fa… come si chiama…” aveva detto “c’è solo lui con il personale che ci lavora”. Venivano presi a ottanta-novanta anni per crimini di gioventù, crimini scellerati, mentre trascorrevano una serena vecchiaia di nonni, rispettati e benvoluti dalla comunità locale, bravi padri di famiglia, con l’hobby della poesia e della musica, tenevano amorevolmente canarini in gabbia e li accudivano, o cani e gatti come figli, facevano giardinaggio, trascorrevano vacanze come tutti, con centinaia di morti sulla coscienza addormentata, migliaia e milioni di morti tenendo conto del regime politico di cui erano stati fanatici e che li aveva programmati come si programma una pisciata su un nido di formiche. Allusioni oscure a un periodo storico che i giovani non conoscevano, fare ricerche in biblioteca. La volta celeste. Il firmamento stellato. Il silenzio del cielo.

Milano

Gli avevo fatto visitare un luogo pittoresco, visto in una vecchia cartolina postale [prima delle cartoline virtuali che avevano segnato un’epoca]. Avevo detto: “Il Vicolo delle Lavandaie, lungo un naviglio”. Invece era “il vicolo dei lavandai”, per le pari opportunità [linguaggio giornalistico o ministeriale], una tettoia rustica e le pietre per i panni, un ruscello. Il giro dell’antico isolato, che era un angolo di paese, ormai turistico, invece Franz abitava davvero in un paesino su una collina, con una torre medievale con orologio che batteva le ore e due tocchi di suono diverso per le mezzore.

Affacciati sul parapetto della darsena, in via di diventare parcheggio e sito archeologico, avevamo notato una sorta di capanna messa su alla meno peggio con legnami e teli, là ci viveva qualcuno, davvero, in piena Milano, sede dell’EXPO nel 2015, con i topi. Bisognava sporgersi un po’ di più e guardare giù, segno inequivocabile di indifferenza momentaneamente interrotta.

se mi fossi deciso a comprare un nuovo telefonino, forse sarei riuscito a lasciare spento quello vecchio per svanire nella nebbia, per sottrarmi ai miei amici e conoscenti [parenti non ne avevo più, benché alcuni ancora vivi]. le tracce perdute, un sogno ricorrente, una fantasia da anni. insomma, residente in una metropoli ma di fatto disperso, comunicare solo con pochissime persone per necessità di sopravvivenza e burocratiche. gli altri: spaesati, molti ne sarebbero stati contenti, alcuni se ne sarebbero sentiti offesi, come quando venivamo trascurati per privilegiare nuovi arrivati.

Lazise

Di sera, dopo cena. Per passeggiare nel borgo trecentesco. A parte il porticciolo delle guide turistiche, il gelato non era molto buono, forse perché faceva freddo, avevo addosso un giubbino leggero sopra la maglietta di Franz, ormai diventata mia. I tedeschi e gli altri villeggianti: delusi da un mese di giugno piovoso, mentre l’anno precedente l’estate era cominciata alla fine di maggio.

Verona

Avevo dimenticato a casa la macchina fotografica, una digitale, of course, e di quelle belle, professionali. Non ero mai passato per il Ponte Scaligero e nemmeno ero stato all’interno del Castelvecchio. La giornata era così così: aveva smesso di piovere più volte e più volte aveva ripreso a piovigginare, si sentiva che la giornata voleva essere calda ma restava impotente, come un fiore grigio. La scelta di viaggiare limitandosi a raccontare le marginalia, le curiosa, tutto quello che non si trovava nelle guide turistiche e nei libri di storia e dell’arte [se non in dettagli accennati]: la banalità come una ricerca inedita, trovare il bello nel brutto e viceversa, l’acutezza nell’ottusità e l’ottusità nell’acutezza.

[un esempio: siamo di fronte a un delizioso giardino, anzi un giardinetto molto piccolo, proprio minimo: a chi si sente un po’ acculturato vengono in mente i diversi stili delle diverse epoche e di tutto il mondo, con simbologie o no. ebbene, non c’è da aggiungere un nuovo libro alle esaustivissime bibliografie. si cerca di trovare qualcosa di significativo in un ciuffo di gramigna, in una imperfezione, in un tentativo di creatività pop [il riciclare materiali, l’utilizzo di cose di scarto, sassi e così via, perfino la monnezza] [en passant, questa parola dialettale era diventata di dominio pubblico nel 2008, dopo le storiche schifosità dell’immondizia non discaricata e non termovalorizzata di Napoli, cfr i libri di storia dell’epoca]

[oppure durante i miei viaggi con Franz poteva bastare una parola detta, una battuta, un’osservazione personale, fra noi presocratici, sapendo benissimo che i detrattori avrebbero trovato stupida l’intelligenza]

Mentre mi stava accompagnando, su mia precisa richiesta, verso la cosiddetta casa di Giulietta, avevo detto: “Magari era la zoccola del quartiere!”. Da allora, ogni volta dicevamo “la casa della zoccola”, ridendo, con tutto il rispetto per l’amore eterno fra due adolescenti e per i numerosissimi turisti che si affollavano nel cortile scattando fotografie, immancabili i giapponesi. Meno simpatico il finto macho che si faceva immortalare con le mani sui seni della statua.

Una domenica pomeriggio, però, avevo la macchina fotografica. Con Franz volevo ritornare a vedere la “casa della zoccola”, ah ah ah! La facciata di una pasticceria dismessa, graffiti sui muri non intonacati o con l’intonaco scomparso, e sulle vetrate, sulla vetrina. A sinistra un contenitore dell’immondizia e un palo metallico con un pannello indicante “Casa di Giulietta”. Stra-graffiti nel sottoportico che immetteva nel cortile, alcuni aggeggi video-telefonici pluri-lingue come guide fai-da-te per documentarsi in modo istantaneo. Il famoso balcone ripreso dal basso in alto, e obliquo.

In un angolo una parete di legno di lavori in corso da tempo immemorabile [spia la fitta trama di scritture e segni ivi dipinti]: sembravano opere di arte informale, con dripping e gestualità, tanto per citare un esponente italiano [per evitare i soliti americani]: Emilio Vedova. E pensare che in quegli anni c’erano ancora pittori ritardati che copiavano i graffiti urbani riportandoli su tela, come se il genere “pittura pittura” fosse eterno e non qualcosa di estremamente recente nella storia dell’umanità. Avevo notato qualcosa di curioso, ed elementare, in quel dipinto nel cortile: un chewing-gum schiacciato e rimasto incollato, “inciso” con due nomi. “Wanda” e “Ivano”. Invece che sulla corteccia di un albero in un parco.

Uscendo sulla via, altre “opere” sui vetri di negozi in abbandono. Una in particolare, fra tanti scarabocchi: “sei la luce che illumina il cammino della mia vita!”. A dire il vero non avevo letto questa frase quando avevo chiesto a Franz di camminare sulla via in modo da sovrapporre le scritte alla sua immagine riflessa. Poi una pagina di rotocalco con una coppia in procinto di baciarsi, e sopra segni e parole, una “poesia visiva” [cfr. le cronache artistiche fra la seconda metà del XX secolo e la prima metà del ventunesimo]. Sempre più la creatività diventava anonima, alla portata di tutti, a parte il mercato e gli affari, il business del globo.

Venezia

La periferia del centro storico, Mestre, molto più abitata. Effettivamente stava diventando il centro di un triangolo i cui angoli erano, appunto, Venezia, Treviso, Padova. Strade e ferrovie. Forse era in progetto una sorta di metropolitana, detta anche metropolitana di superficie. Più in piccolo della regione di nome GE-MI-TO. Per ragioni misteriose ma poco romanzesche ci eravamo arrivati in autostrada, una deviazione del tutto assurda, almeno in apparenza, ma con motivazioni taciute, per procedere verso il Mare [l’Adriatico].

Rosolina Mare

Uno splendido primo giorno d’estate, una calda domenica che aveva spinto molti automobilisti a mettersi in coda a passo d’uomo sulla Strada Romea verso Chioggia, molto meno traffico dopo Sottomarina in direzione Rovigo. Secondo la nostra scaletta di marcia saremmo dovuti arrivare verso l’una, avevo detto: “Prendiamo qualcosa in un ristorantino che conosco, poi andiamo in spiaggia ma ci mettiamo all’ombra in pineta fino alle quattro e mezza/cinque”. Appena in tempo prima della chiusura pomeridiana. Gli “spaghetti allo scoglio” non erano molto buoni, troppo liquidume: “Ah, buoni!” avevo esclamato sottovoce, seduti su due panconi uno di fronte all’altro a un tavolo esterno. Con birra. E per finire un tiramisù, servito come si usava da quando era diventata di moda la nouvelle cuisine: un pezzo piccolo, finito in tre cucchiaiate, su un grande piatto adornato con filiformi ghirigori di cioccolata, che non si potevano nemmeno mangiare, la cameriera dell’Est [Europa] li aveva tracciati con impegno artistico, infatti facevano pensare a un’opera di […], a un dripping di innumerevoli epigoni.

Un certo sviluppo temporale nel mio non-romanzo: nel 2005 avevo già scritto qualche riga su quella località balneare [bugia: ne avevo già parlato molti ma molti anni prima, senza nominarla, ai posteri le ardue ricerche]. Ecco l’intero paragrafo:

“In maggio ho trascorso una breve vacanza in una località balneare del Veneto, di recente sviluppo, dagli anni cinquanta e sessanta, il mare Adriatico da una parte e belle lagune chiamate ‘valli’ dall’altra, una spiaggia di una decina di chilometri, dune, pinete. Sullla punta estrema un Giardino Botanico, litoraneo. Ricopio una didascalia di un opuscolo turistico: ‘tronchi calcinati e levigati dalla salsedine e dal vento sono cosparsi sulla spiaggia selvaggia di […]’. Ma vi si trovano varie immondizie abbandonate dalle navi che spesso si intravvedono al largo, soprattutto bottiglie e oggetti di plastica, e dai visitatori in relax. Zanzare e tafani. In una settimana mi sono imbattuto in tre biscie, una [nera] poteva avere più di un metro di lunghezza, non ne conosco il nome, le chiamo ‘serpenti’.

Era un periodo in cui credevo alla “ricostruzione del paradiso terrestre”, povero illuso. Tuttavia l’interesse per i giardini mi era rimasto, anche quelli minimi. In una chat di una community in un web site [notato?] avevo ricevuto alcune foto o pictures di un corrispondente [un pen friend dei tempi moderni] in cui era orgoglioso di mostrare la sua creatività pop nel creare mini-giardini con piante grasse sistemandovi oggetti trovati, da cassette della frutta a vecchi attrezzi da lavoro, da bottiglie a cascami di vari materiali. Subito avevo cercato di invitarlo a leggere e a cercare bibliografie, gli avevo segnalato “giardini, orti e labirinti [Electa, 2005], non ricordavo il nome dell’autrice.

In una successiva fase storica, quella in cui stavo scrivendo il presente libro di viaggio, gli avrei forse suggerito “zen” [Electa, 2008] [anche in questo caso avevo dimenticato la compilatrice] [quelle collane erano divulgative ma preziosissime, il secondo libro-dizionario vellicava la mia intermittente propensione per i temi religiosi. [comunque, sapevo benissimo che i titoli dovevano essere messi in corsivo e non fra virgolette, ai tempi delle vecchie macchine per scrivere dovevano essere sottolineati, poi i redattori avrebbero corretto] [almeno una cosa era certa: non aspiravo a inventare avventure da trasporre in un film]

Parcheggiata l’automobile nello spiazzo a Porto Caleri, prima della sbarra e del viottolo, gli avevo indicato l’orto botanico da una parte e la bella zona con flora protetta dalla parte di Albarella, con passerelle di legno grezzo, sentieri, ponticelli. Poi avevamo percorso le dune verso la pineta, entrati nella pineta nel punto che conoscevo, esattamente all’inizio, con una deviazione in terreno molto assolato. Infine l’ombra a cui aspiravamo: “Ci sentiremo qualche ragnatela sul viso”. Poi una sosta. Poi ancora in cammino fino al reticolato dell’ultimo campeggio. Infine, in ora non centrale della giornata, in mezzo ai bagnanti. L’acqua era davvero sozza, e la battigia strapiena di alghe sudicie, la spiaggia libera era disgustosa, si camminava nell’immondizia, di ritorno dalla passeggiata che gli avevo fatto fare: il dépliant turistico aveva raccontato bugie. Possibile che il Comune non potesse provvedere a pulire? [evidenti diatribe filosofiche]

Come in tutte le stazioni balneari, nelle città balneari, divieti a ruota libera. Anche quel campeggio grigio e trascurato e triste, che mi aveva sempre fatto pensare a un cosiddetto campo recintato di cosiddetti nomadi, aveva il suo nuovo ingresso dalla parte della spiaggia con buttafuori agguerrito che mentre ci avvicinavamo per chiedere di un ristorantino segnalatoci da qualcuno aveva allungato il braccio in modo da formare una barriera, un po’ barriera un po’ vigile urbano. Avremmo dovuto chiedere un pass. Meglio optare per il ristorante con terrazza, vista mare, dove poco prima avevamo preso un’acqua tonica che, aveva detto il gestore, faceva parte della catena “coca-cola”. Seduti a un tavolo all’aperto, all’ombra di un grande gazebo, avevo detto una frase che mi sembrava storica: “Il muretto intorno frena un po’ l’aria fresca”. Ma Franz mi aveva subito stroncato: “In compenso blocca la sabbia”. La passeggiata lungo il bagnasciuga, poi, aveva riconfermato una pulizia passabile nei settori di spiaggia privata [di campeggi e alberghi] e la sozzura dalla linea di demarcazione che indicava l’inizio della spiaggia libera. Immondizia d’ogni genere, tronchi d’albero, rami secchi, trovare il bello nel brutto, si sarebbe potuto trasportare qualche pezzo di vegetazione morta in qualche giardino [zen], i fiorai ne mettevano anche nelle vetrine. Attiravano gli insetti. Bisognava passare quei legni con una mano di vernice neutra.

Zevio

Una domenica mattina. Rinunciando alla via verso il lago di Garda, tutte strade intasate da automobili. Allora eravamo andati a fare acquisti al mercato. Magliette estive, un’anguria [ne eravamo entrambi, io e Franz, molto ghiotti, del resto entrambi avevamo lo stesso nome]. Di tre, due mi stavano strette, anche se la taglia era XXL [ovviamente provate a casa], d’accordo che le avevo comprate a tre euro l’una, il fatto è che per i cinesi che le avevano prodotte, mediamente bassi e snelli, erano misure spropositate. Una bella giornata, con macchina fotografica. A proposito, qualche foto avrebbe potuto servire, da inserire nel testo. Il sole a chiazze sul viso: non fare foto con il sole, meglio la mattina all’alba o al tramonto o con il cielo coperto. Ma insomma, era realtà anche quella, anche quello era realmente avvenuto, sì ma in una narrazione bisognava falsare qualcosa, in un’opera d’arte era necessario sofisticare [?]. Però, ormai, i difetti si potevano togliere con il PC, con il photoshop. Insomma, mi ero convertito alle foto-ricordo, che in passato avevo snobbato.

Intanto, farne cancellandone molte, tenerne alcune, fra le quali procedere a una drastica selezione. Il castello [sede del Comune, se non ricordavo male], circondato dalle acque, con tartarughe e cigni, le tartarughe un po’ nuotavano un po’ si riposavano su assi a loro destinate.

Pistoia

in autostrada colpivano le numerose serre, vaste e folte, qualcuno ci lavorava ed era sabato mattina, in prossimità della città. in centro, molto traffico, e il navigatore continuava a portarci fuori strada, di sicuro era tutta colpa della diversa disposizione dei sensi unici e della viabilità riveduta e corretta. la vocina femminile era imperterrita e insisteva, il nostro ospite [l’organizzatore del meeting] ci aveva consigliato di parcheggiare al parcheggio “Pertini” o al parcheggio “Pacinotti”. “basta con quella sciagurata!”. epiteti poco lusinghieri verso la nostra famosa “navigatrice”, che avevamo fatto a pezzi, deposti in una tasca dell’automobile.

eravamo là per un convegno organizzato da un’associazione di scambio d’ospitalità, nonviolenta e pacifista, gruppo regionale. tutti noi viaggiatori, per lo più in paesi esotici, io e Franz solo in Europa. poi si sarebbe parlato anche di una nostra associata della Lombardia, uccisa in modo violento durante un viaggio Italia-Turchia, un autostop-performance [cfr. le cronache del primo decennio del XXI secolo], vestita da sposa italiana, un messaggio di pace da documentare e da esibire in una mostra. una nipote di Piero Manzoni, così avevano riferito i giornali, ma questo era un dettaglio irrilevante. si sarebbe discusso di una certa “questione morale”, ce n’era bisogno, la base rispecchiava il malcostume del vertice: “se i nostri governanti fanno leggi per evitare i processi in cui sono coinvolti anche noi popolo bue possiamo fare quello che vogliamo, evasione fiscale, furberie, corruzione, falso in bilancio, violenze condominiali e non condominiali [secessione condominiale], guida in stato d’ebbrezza con epilogo tragico, piccola criminalità, grande criminalità”. Così pensavamo, e non c’era nemmeno bisogno di nasconderlo, anzi, più lo si sbandierava più si era stimati. In quell’epoca era stata lanciata una nuova moda: ammazzare pedoni, ciclisti, motociclisti e altri automobilisti per divertirsi, solo per divertirsi, nemmeno un giorno di prigione o tutt’al più una piccola ammenda.

Un giro in città, in gruppo, in attesa di altri. Giorno di mercato, un mercato millenario, sì, d’accordo, però un problema fotografare la facciata del Duomo, a stento se ne vedevano i cassettoni in terracotta smaltata e il bassorilievo di Andrea della Robbia. Il centro storico. Pranzo, anche il giorno dopo, in un circolo ARCI [non ricordo il significato di questa sigla, mi sembra che fosse una rete di club inseriti in un’organizzazione di sinistra, forse vicina a un partito che si definiva “comunista”, roba del primo novecento: insomma PC, personal computer.

qualche passatista tentava di rifondarlo, mantenendo i vecchi simboli, attrezzi da lavoro, una falce e un martello, la “falce” non si sapeva più a che cosa servisse, il martello sì, abbastanza. ma perché non indicare sulla loro bandiera un computer e un cellulare?

una curiosità: dove alloggiavamo un po’ in periferia, in un appartamento con tre camere, una sorta di foresteria privata, al pianoterra di una villetta, il cancelletto era sempre aperto e nel giardinetto antistante [con rima] vi si trovava una bicicletta senza lucchetto, era là il giorno prima ed era là il giorno dopo al momento della nostra partenza.

Serravalle Pistoiese

Un sabato sera, quella sera di luglio, a una festa della CGIL, un’organizzazione sindacale dei tempi in cui esistevano molti lavoratori, prima dell’era del tempo libero permanente, disoccupazione e stipendio garantito a tutti fino alla pensione. Un delizioso paese su un colle, la mia guida sintetica non ne parlava, presumevo che fosse d’origine trecentesca [non ricordo se ci fosse anche un po’ di arte romanica, di arte gotica e di arte rinascimentale, era molto piccolo e non eravamo là per visitarlo]. L’atmosfera era tipica delle feste popolari, molte macchine parcheggiate, gente, stand-bar e stand-negozi, musica live, palcoscenico e sedie, il settore conferenze e libreria. E l’immancabile ristorante. Tutto da montare e smontare, su uno spiazzo fra mura e torri semidiroccate.

ne avevamo imparato una: nella nostra tavolata erano quasi tutti toscani, io e Franz nordici [o meglio, Franz e io, entrambi con lo stesso pseudonimo], avevamo ordinato una “bistecca di vitello” e ci avevano portato una braciola al sangue, con nostra grande sorpresa. “ma come?”. ci avevano spiegato che in Toscana la “braciola” corrisponde alla “bistecca”, e viceversa. sbagliando si impara, ecco a cosa servivano i viaggi, almeno fino a quando ci si limitava al globo terrestre.

Villafranca

La Pieve di S. Rocco, fotografata. In uno spiazzo asfaltato di fianco al Castello Scaligero due carabinieri strigliavano due cavalli, li vedevamo dall’alto della passeggiata dove, a un certo punto c’era per terra una mutanda sporca. Un paesone tenuto bene, ci eravamo recati per vedere il mercato d’antiquariato segnalato da un giornale locale, sospeso in luglio e agosto, quindi il giornalista aveva mentito. Una volta i cronisti andavano a cercare le notizie [vere], ora, invece, nel XXI secolo pubblicavano quello che giungeva in redazione dall’esterno, senza scomodarsi, e per routine ristampavano un po’ tutto, contava solo essere in linea con le direttive del direttore che ovviamente era pagato per essere in linea con le direttive dei proprietari delle testate, e tutto avveniva senza crederci, bastava dichiararsi liberi, bastava mettere in circolazione la pecunia, in quell’epoca sempre più virtuale. Nel nostro piccolo [io e Franz], avevamo riportato una notizia [vera] nel segnalare lo slip sporco [in modo indicibile] abbandonato sull’erba.

[Avevamo trascurato la villa dove era stato firmato un famoso armistizio nel 1859 tra Francia e Austria, molte biblioteche erano state distrutte, i professori non ne parlavano più, punti oscuri dell’epoca fra il XIX secolo e il XXI, e agli albori del 2200 si faceva fatica a documentarsi, a reperire informazioni e dati sicuri per una ricostruzione storica senza interpretazioni arbitrarie.]

Lido di Classe

la settimana di ferragosto, da domenica 10 a domenica 17, come non lasciarsi andare al relax balneare senza degnarsi di rivisitare Sant’Apollinare e la città di Ravenna, con i loro mosaici a pochi chilometri? Anche questa narrazione era un assemblaggio verbale, un falso romanzo a collage, in cui io e Franz, entrambi con lo stesso pseudonimo, eravamo alla ricerca dell’identità di un nostro lontano parente, un ricco homeless morto assassinato. I turisti e i vacanzieri erano avvertiti: là c’era la cultura, qua la vacanza. Rosolina Mare in provincia di Rovigo, nel Veneto [prima che le tradizionali regioni italiane scomparissero in un’unica nazione del nord], si trovava all’inizio del delta del Po, dalla parte di Venezia: al Lido di Classe eravamo ancora nella stessa area geografica, con paesaggi abbastanza simili, dalla parte opposta, a sud. vegetazioni, zone umide dette “valli”. Un opuscolo turistico esaltava la famosa pineta e l’opportunità di ammirare da vicino la grande varietà di “biotopi” del parco padano. il litorale [spiaggia libera], il morbido profilo delle dune, i ciuffi d’erba affioranti dalla sabbia, i pini marittimi e il fitto sottobosco di latifoglie, le lagune salmastre e le praterie incolte, un habitat ideale per l’avifauna acquatica. l’oasi incontaminata dove si incontravano aironi e garzette in cerca di cibo nell’acqua bassa.

Con minore lirismo ambientalistico, avevamo trascorso i primi giorni sul litorale procedendo a piedi dagli stabilimenti balneari verso le spiagge libere, mattina e pomeriggio, con pausa pranzo e siesta in albergo [a pensione completa]: non amava troppo camminare, così avevamo fatto una sorta di gioco [nei giorni delle Olimpiadi in Cina]: oggi fino a là, domani qualche metro in più, dopodomani battere il record, e così via, rientrando stanchi dopo la tintarella e i bagni in mare. Infine, volendo esplorare là in fondo, che, secondo me e la pianta presa all’ufficio informazioni, doveva essere la soluzione di continuità con il Lido di Dante, avevo continuato da solo in slip e con i piedi in acqua mentre il mio compagno di viaggio restava steso sulla sabbia, finché era apparso un delizioso paesaggio: la foce del torrente Bevano o Bocca Bevano. Si passava a guado per giungere sull’altro litorale a pochi metri, come facevano due o tre ciclisti in divisa da ciclisti, a bagno fino ai fianchi, mountain bike in spalla. una palizzata tratteneva la riva sabbiosa, da cui alcuni ragazzini si tuffavano o erano in procinto di tuffarsi: li avevo fotografati, memore di vecchie foto in b/n che avevano immortalato li regazzini in mutande [li regazzini, non i ragazzini, ok?] lungo il Tevere a Roma o lungo il Naviglio a Milano, ai tempi in cui non esisteva la psicosi della pedofilia. Avevo smesso subito, allontanandomi, in un flash mentale avevo perduto l’innocenza della mia intenzionalità.

Allora, più avanti lungo l’ansa del corso d’acqua che sembrava aprirsi in una palude dai bei colori, casupole tra i pini marittimi, barche, distese viola di lavanda, ciuffi d’erba dentro l’acqua e fuori, arbusti secchi sulla riva su cui erano state posteggiate molte biciclette [bellina l’immagine di quel groviglio naturale e artificiale]. Mentre fotografavo in lontananza due gabbiani reali pacificamente in sosta su un tronco d’albero sradicato, dall’altra parte, un signore completamente vestito [in tenuta cittadina ma informale] passando mi aveva detto: “Attenzione, ci sono le guardie forestali”. C’erano tre guardie forestali, infatti, che esaminavano attentamente la lavanda, pianta protetta, che avevo fotografato poco prima in macro, a distanza di venti centimentri ma senza nemmeno sfiorarla. I cronisti in TV e nei quotidiani cartacei parlavano degli innumerevoli divieti imposti dai sindaci di molte città italiane, a cominciare dalle spiagge. In certe località i bambini non potevano nemmeno fare i castelli di sabbia sulla battigia, come era sempre stato carino fare da tempi immemorabili, oltre che tenero guardarli [in quell’epoca osservarli era diventato pericoloso, un reato]. A Vicenza era stato multato un giovane che leggeva un libro restando steso su un prato del parco. Da quando aveva preso il potere un partito che si autodefiniva “partito delle libertà” erano stati moltiplicati i divieti d’ogni sorta [alcuni legittimi], tentando di imporre una moderna dittatura democratica o una democrazia dittatoriale, con un unico leader o un factotum-capo, ossia plenipotenziario in autodifesa giudiziaria, il papà di tutti, di cui avevo dimenticato il nome. Con la scusa di avvicinarsi a parole a un’idea rinnovata di paese moderno, in realtà si attuava un programma da Italietta retta dall’ipocrisia e da una mentalità non incline a osservare le stelle del firmamento, la bellezza del creato, un’eclisse di luna [in quei giorni, ma era parziale e semi-invisibile dall’inquinamento luminoso], nemmeno la salvaguardia e il miglioramento dello Stato Sociale.

L’opuscolo turistico affermava che la foce del Bevano era l’unica bocca fluviale nel ravennate lasciata a una evoluzione naturale: un’oasi incontaminata. Non diceva che in Italia era diventato più grave fotografare che sparare, almeno in varie parti [non dico al Lido di Classe]: osservare la fauna protetta era proibito, ucciderla a tradimento no. Amare la natura costituiva una forma di delinquenza, coprirla di cemento e seconde e terze case appariva un dovere. Forse avevo commesso un crimine raccogliendo piccole cortecce d’albero disseminate sulla spiaggia libera, su cui avrei scritto brevi testi con l’inchiostro di china, come haiku approssimativi, pagine di un libro, racchiuso in una scatola di plexiglas realizzata ad hoc, poi fotografato con un altro “elemento” o più di uno, per esempio un volume a stampa, diventando un’altra opera definita “assemblaggio effimero”, montata su alluminio. Una nuova pre-istoria. Segni e scritture su sassi, scoperti dagli archeologi di cinquemila anni dopo, e già eravamo nel 2108. Anche un’illuminazione redatta su una strana conchiglia trovata sulla strada del rientro in albergo. Tutto questo in barba all’industria editoriale che sfornava best-sellers finché c’erano guadagni, prima di scomparire, inabissata come Atlantide, rasa al suolo da Internet e dagli extra-terrestri.

Per mostrare a Franz la bellezza rischiosa di quella “riserva naturale statale” detta “duna costiera ravennate e foce del torrente Bevano”, il giorno dopo avevamo noleggiato un paio di biciclette e ci eravamo messi sul viottolo che attraversava tutta la pineta, parallelamente al litorale: per trovarlo avevamo chiesto a una guardia forestale [in compagnia di un collega e di una collega], in sosta al limite del centro abitato. Ce lo avevano indicato sorridendo anche se all’ingresso delimitato da una sbarra metallica un pannello indicava un accesso vietato ai velocipedi oltre al più ovvio divieto di appiccare incendi.

Gli ammirevoli pannelli rustici con tettoietta stretta piantati ogni tanto fra la pineta e il litorale, a cura della guardia forestale dello stato – ufficio per la biodiversità, facevano sperare che qualcosa sarebbe cambiato in Italia, e non intendevo parlare di un cambiamento qualsiasi, bensì di un cambiamento in meglio, nel senso di una civiltà risvegliata dal torpore dell’ottusità e dell’arroganza. Veniva in mente la famosa incisione di Goya: “il sonno della ragione genera mostri”. Per esempio, lo sapevate che là si trovavano il ravastrello marittimo e la nappola e la gramigna delle spiagge e l’erba medica e la carota spinosa e lo sparto pungente e il villucchio e l’euforbia e la silene colorata e la calcatreppola? Mentre, nel settore fauna, vi alloggiavano il bovoletto, il granchio comune, lo scarabeo semipuntato, la cicindela, rospi e lucertole [nella mia fotografia scattata come promemoria i nomi scientifici erano nascosti dalla sella di una bicicletta, se l’avessi spostata mi avrebbero denunciato, se l’avessi rubata l’avrei fatta franca], inoltre la beccaccia di mare, il fratino, il fraticello, il gabbiano reale. [Il gabbiano reale lo conoscevo già, ne avevo fotografati due appollaiati su un tronco, di nascosto, ricordate?].

Così potevamo dire di conoscere tutto il litorale del Lido di Classe, dalla foce del Bevano a quella che chiamavamo la “spiaggia dei cani”, una spiaggetta libera a ridosso della foce del fiume Savio, al di qua del lido di Savio. Perché? Ci eravamo andati una sola volta e ne avevamo notati molti, con i loro padroni, tutti bagnanti. Sapevano nuotare in modo istintivo, anche se facevano la pipì sulla battigia [una frase illogica]. Un signore in acqua gettava una pallina, il quadrupede andava a prenderla e ritornava, quando era ritornato restava abbracciato al suo protettore che lo baciava sul muso facendosi slinguare il viso. Di solito questa scena era girata con le signore protagoniste. Comunque, non c’era da scandalizzarsi se una bella cagnolina si accovacciava a orinare sulla sabbia umida calpestata dagli umani: in realtà lo facevano anche i bambini molto piccoli, tutti nudi, assistiti dalle madri, e alcuni di sera mentre passeggiavano godendosi la brezza del mare al chiaro di luna, con le folate di musiche sudamericane provenienti dai locali degli stabilimenti balneari.

La nostra camera al primo piano dava su una Sala Giochi infernale, a circa dieci metri di distanza, frequentatissima da bambini e adolescenti o comunque tutti rigidamente minorenni, fino alle due di notte e oltre. Un inquinamento acustico che ci impediva di sentire le notizie in televisione [fra cui l’invasione della Russia in Georgia, una guerra imperialistica, passata sotto silenzio dal governo italiano e dall’opposizione, tutti al mare a mostrare le chiappe chiare, come diceva una vecchia canzonetta], a parte il sonno.

Insomma, era proprio vero che sulla Riviera Romagnola ci si divertiva. La sera di ferragosto i gestori del nostro albergo avevano organizzato un vero e proprio cenone, con varie portate, per festeggiare in compagnia e per intrattenere gli ospiti, per lo più famigliole e pensionati, qualche single [da solo o in coppia].

Montefiore Conca

prevedendo un pomeriggio piovoso o quantomeno di tempo brutto, pensavamo di andare da una coppia di amici con una seconda casa a Montefiore Conca, provincia di Rimini, e infatti ci eravamo andati, in automobile, era dopo Morciano, a una ventina di chilometri su di Riccione o Cattolica. un rustico restaurato che dava su una parte del Montefeltro, su valli e monti, fino alla repubblica di San Marino, molto fuori dal paese. ma avvicinandosi all’abitato si vedevano scorci della riviera romagnola, da Rimini al promontorio di Gabicce Mare. Greta e Franz ci andavano ogni tanto, da Milano. […]

Palazzolo

un delizioso paesino, con una torre […], provincia di Verona, frazione di Sona […], in collina fra altre colline, con vigneti e “strade dei vini”. dalla terrazza di Franz, sul tetto, si vedevano molto bene la vallata di Bussolengo, i monti e l’autostrada del Brennero.

ognuno di noi è un buddha… “un bud[d]ino” aveva detto Franz. a volte eravamo disillusi: non speravamo più nella scoperta dell’identità del nostro parente homeless, morto assassinato. o forse il viaggio sarebbe continuato a lungo. clausura con aperture all’esterno. tesi, antitesi, sintesi. una crisi, la critica, il grado zero del riconoscimento, l’appiattimento del rinascimento.

Bussolengo

A dire il vero, in estrema periferia, sulla statale fra Verona e Peschiera del Garda, in un ristorante, al rientro dalle ferie, non essendoci niente o poco in frigorifero, avevamo deciso di cenare fuori. Poco reclamizzato da insegne sulla via, aveva un vasto cortile-giardino interno, in un rustico ristrutturato. Colpiti da un’aiuola piena di bambù. Poiché stavo leggendo un libro sullo zen, sapevo da profano che il mondo vegetale ha molta importanza in quella religione [nel linguaggio testuale, nei riti, nell’iconografia]: alcuni elementi, in particolare, esprimevano una forte valenza simbolica. Il bambù, per esempio, rappresentava l’integrità, la resistenza e la flessibilità, la capacità di fronteggiare le avversità con spirito indomito. Il vuoto all’interno del fusto rimandava al vuoto da fare dentro di sé per arrivare al Risveglio. Non molti pensavano che quella pianta, che cresceva robusta anche nel gelo invernale, aveva moltissime foglie, semplici ed eleganti, creando fitti cespugli maestosi, un tema ricorrente in molti letterati-pittori cinesi e giapponesi. Ero anch’io un letterato-pittore [?], a modo mio, in modo sbracato, all’occidentale, per questo stavo scrivendo un falso romanzo, per rendere nota la mia visione con parole.

qualche giorno dopo, durante una passeggiata, una coppia di contadini [lui con il trattore], chiacchierando mi aveva fatto notare che quella pianta che gli indicavo dicendo “quello è un bambù”, in realtà era un semplice canneto, e ne aveva spezzato un ramo con estrema facilità.

* * *
da allora avevo scritto solo questa poesia [in settembre mi trovavo a Parigi, e la ripetevo nella mia mente senza trascriverla, in nessuna tecnica]: “sul fiore della felicità stagna una rugiada scura”. poi, qualche mese dopo: “il sole tossico scioglie il vapore acqueo sul vetro fosco: resta l’amore chiaro”

Giancarlo Pavanello, Viaggioultima modifica: 2009-01-21T18:54:00+01:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo

Un pensiero su “Giancarlo Pavanello, Viaggio

  1. non per fare un’auto-recensione. solo una perplessità o, meglio, un chiarimento. nel caso in cui io mi decida a pubblicare in un volume cartaceo questo testo [con altri], quale data dovrei indicare assieme alla fonte? ossia, per quanto tempo appare in questo blog? e, se scompaio dalla posta quotidiana, resta comunque in archivio per quanto tempo? puoi darmi delucidazioni private, utilizzando la mia e-mail.

I commenti sono chiusi.