Hanna Arendt, Illuminismo e questione ebraica

Liberazione, 22 gennaio 2009, pp. 10-11
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Stralcio da “Illuminismo e questione ebraica” di Hannah Arendt in libreria da martedì prossimo per Cronopio editore in occasione della Giornata della memoria (pp. 48, euro 6)

a moderna questione ebraica nasce nell’illuminismo; è l’illuminismo, cioè il mondo non ebraico, che l’ha posta

La moderna questione ebraica nasce nell’illuminismo; è l’illuminismo, cioè il mondo non ebraico, che l’ha posta. I modi in cui è stata formulata e le risposte che essa ha avuto hanno determinato il comportamento degli ebrei, hanno determinato la loro assimilazione. Nella discussione sull’emancipazione ritornano continuamente gli argomenti che hanno avuto in Lessing il massimo rappresentante. A lui si devono la diffusione di concetti come umanità e tolleranza, come pure la distinzione fra verità di ragione e verità storiche. […] Nell’illuminismo la verità si perde o, meglio, nessuno la vuole più. Più importante della verità è l’uomo che la cerca: “Il valore dell’uomo non sta nella verità che qualcuno possiede… ma nel sincero sforzo che egli ha compiuto per raggiungere la verità”. L’uomo diventa più importante della verità e la verità è relativizzata a favore del “valore dell’uomo”. […] Se ciò che veramente conta sono l’incessante ricerca della verità e “l’ampliamento delle capacità”, allora per chi è tollerante, cioè per chi è veramente umano, tutte le confessioni sono solo le diverse denominazioni del medesimo uomo. […]

Le verità storiche sono “vere”, cioè universalmente convincenti e vincolanti, solo in quanto confermano verità di ragione. E’ pertanto la ragionehanna1.jpg che deve decidere della necessità della rivelazione e quindi della storia. La contingenza della storia può essere successivamente nobilitata dalla ragione; successivamente la ragione decide che la storia rivelata coincide con la ragione. La storia rivelata funge da educatrice del genere umano. […] Da queste parole non deriva alcun nuovo riconoscimento dell’autorità divina, ed esse vanno considerate nel contesto della principale tesi teologica di Lessing, secondo la quale la religione precede la Scrittura ed è indipendente da essa. L’essenziale non è la verità come tesi, come dogma o come bene salvifico, ma la religiosità. […] “Che cosa importano al cristiano le spiegazioni, le ipotesi e le dimostrazioni di costui? Per il cristiano, il cristianesimo semplicemente c’è, quel cristianesimo che egli sente così vero e nel quale si sente beato”. Ma nell’insistenza su questa interiorità inattaccabile c’è già la diffidenza dell’illuminismo nei confronti della Bibbia; si insiste sulla pura interiorità perché l’oggettività della rivelazione nella Scrittura non è più certa. La separazione fra religione e Bibbia è l’ultimo vano tentativo di salvare la religione. Vano perché questa separazione frantuma l’autorità della Bibbia e, con essa, l’autorità visibile e conoscibile di Dio sulla terra. […]

Per Mendelssohn la ricezione dell’illuminismo, la “formazione”, si compie ancora all’interno di un vincolo assoluto con la religione ebraica. Per far questo, gli serve l’assoluta autonomia della ragione che l’illuminismo ha affermato. […] Questa capacità di pensare da sé sta a fondamento dell’ideale della cultura in Mendelssohn; la vera cultura non si nutre della storia e dei suoi fatti, bensì li rende addirittura superflui. A dominare è l’autorità della ragione alla quale ciascuno può accedere da solo e autonomamente. Colui che pensa vive in un assoluto isolamento: egli trova indipendentemente da tutti gli altri la verità che dovrebbe essere comune a tutti. […] La religione ebraica, e soltanto essa, coincide per Mendelssohn con la religione della ragione, e questo in virtù delle sue “verità eterne”, le sole vincolanti anche in senso religioso. Le verità storiche dell’ebraismo, infatti, – così sostiene Mendelssohn – hanno avuto validità solo finché la religione mosaica era la religione di una nazione, e questo, dopo la distruzione del Tempio, non è più avvenuto. Solo le “verità eterne” sono quindi indipendenti da ogni Scrittura, intelligibili in ogni tempo. Su di esse si fonda la religione ebraica e ancora oggi esse vincolano gli ebrei alla religione dei padri. […] In Lessing la distinzione fra la storia e la religione aveva lo scopo di eliminare la religione come dogma. Mendelssohn, invece, cerca proprio con questa distinzione di salvare la religione ebraica sulla base del “suo contenuto eterno”, indipendentemente dal fatto che essa sia anche storicamente attestata. L’interesse teologico, che qui esclude la storia dalla ragione, esclude anche dalla storia chi cerca la verità. A tutto il reale – il mondo circostante, il prossimo, la storia – viene così a mancare la legittimazione della ragione. Questa eliminazione della realtà è strettamente connessa alla situazione di fatto dell’ebreo nel mondo. Il mondo lo interessa talmente poco che esso diventa per lui ciò che è assolutamente immutabile. La nuova libertà introdotta dalla cultura, la libertà della ragione e del pensare da sé, non cambia le cose. L’ebreo “colto” resta indifferente al mondo storico quanto l’oppresso del ghetto. […]

Nella coscienza storica della Germania si è verificato un mutamento che trova la sua espressione più caratteristica in Herder. Questi aveva cominciato con una critica della sua epoca, dell’epoca dell’illuminismo. Lo scritto Ancora una filosofia della storia per l’educazione dell’umanità appare nel 1774, in pieno illuminismo, e non ha alcun effetto sulla vecchia generazione. Ma tanto più forte e decisiva è la sua influenza sul nascente romanticismo. Esso si scaglia infatti contro l’onnipotenza della ragione e le sue insipide dottrine utilitaristiche. […] Abbiamo visto come Mendelssohn, riprendendo le idee di Lessing, avesse insistito soprattutto sull’isolamento del singolo che pensa da sé. Herder e dopo di lui il romanticismo (cioè quella tradizione tedesca che è maggiormente rilevante a proposito della questione ebraica) rifiutano proprio questo, proseguendo nella scoperta della storia già cominciata con Lessing. […] Se la ragione si storicizza come “risultato dell’esperienza”, il posto dell’uomo nello sviluppo del genere umano non è più determinato in maniera univoca: “Nessuna storia nel mondo si regge su fondamenti astratti a priori”. A una ragione unica e a una verità unica viene contrapposta l’infinità della storia. Per Herder, quindi, il rapporto fra la ragione e la storia si pone in maniera esattamente opposta: la ragione è sottomessa alla storia “perché l’astrazione non legifera sulla storia”. […] Alla convinzione del potere della storia sulla ragione si accompagna la polemica contro l’uguaglianza di tutti gli uomini. La vita si differenzia quanto più è penetrata dalla storia. La diversità si sviluppa da un’uguaglianza originaria. Quanto più un popolo è antico, tanto più si distingue da tutti gli altri. Sono le conseguenze dell’accadere a produrre le differenze fra gli uomini e fra i popoli. La diversità non sta nella disposizione, nel talento, nel carattere, ma piuttosto nell’irrevocabilità di tutto l’accadere umano, nel fatto che c’è un passato che non può essere modificato.

La scoperta dell’irrevocabilità di ogni accadere fa di Herder uno dei primi grandi interpreti della storia. E’ grazie a lui, quindi, che per la prima volta in Germania anche la storia degli ebrei diventa visibile come storia determinata essenzialmente dal possesso dell’Antico Testamento. […] Herder comprende la storia degli ebrei nello stesso modo in cui essi stessi l’hanno interpretata, come la storia del popolo eletto da Dio. La loro dispersione è per lui l’inizio e il presupposto della loro influenza sul genere umano. In tale prospettiva egli segue la storia degli ebrei fino al presente ed è attento a quel loro particolare sentimento di fedeltà al passato, che cerca di preservare il passato nel presente. Il loro lamento sulla Gerusalemme distrutta da tempo infinito, la loro speranza nel Messia sono per Herder segni del fatto che “le rovine di Gerusalemme sono state fondate per così dire nel cuore del tempo”. […] Herder non riconosce l’uguaglianza fra gli ebrei e tutti gli altri popoli – unico mezzo, secondo l’illuminismo, per farne degli uomini – ma ne sottolinea il carattere straniero. Questo, però, non significa affatto rinunciare all’assimilazione: anzi egli la esige in una maniera ancora più radicale, ma su un altro terreno. […] Per Herder l’assimilazione diventa un problema dell’emancipazione e quindi una questione politica. Proprio perché Herder prende sul serio la fedeltà “alla religione dei padri”, egli vede in essa il segno di un legame nazionale e la religione straniera diventa la religione di un’altra nazione. Il compito non è, quindi, né quello di tollerare un’altra religione, così come si è costretti a tollerare tanti pregiudizi, né quello di modificare una situazione socialmente dannosa, ma di incorporare nella Germania un’altra nazione. […] Fino a che punto una tale assimilazione sia compatibile con il mantenimento della legge ebraica è una questione politica, fino a che punto essa sia in generale possibile è invece una questione che concerne l’educazione e la cultura, cioè per Herder l’umanizzazione. […] Diventando “colti” nel senso di Herder, gli ebrei sono recuperati all’umanità, ma nella loro visione ciò significa cessare di essere il popolo eletto. “Abbandonati i vecchi e orgogliosi pregiudizi nazionali; respinti i costumi che non si addicono al nostro tempo, alla nostra costituzione né al nostro clima, essi non lavorano più come schiavi… ma come concittadini di popoli colti… La loro Palestina è allora dovunque essi vivano e agiscano nobilmente”. […] Così gli ebrei diventano nella storia i senza storia. La comprensione della storia di Herder ha sottratto loro il passato. Essi stanno di nuovo vis à vis de rien . All’interno di una realtà storica, all’interno del mondo europeo secolarizzato, essi sono costretti ad adattarsi in qualche maniera a quel mondo, a coltivarsi. Ma per loro cultura significa necessariamente tutto ciò che non è il mondo ebraico.

Stralcio da “Illuminismo e questione ebraica” di Hannah Arendt in libreria da martedì prossimo per Cronopio editore in occasione della Giornata della memoria (pp. 48, euro 6)

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