da LA STAMPA 9/2/2009
marco belpoliti, dove ti porta il marciapiede
Meno male che ci sono i marciapiedi. Durante queste giornate di cattivo tempo invernale mi sorprendo a riflettere sulla bontà dei marciapiedi, sul fatto che si possa camminare su spazi riservati ai pedoni, sopraelevati quanto basta dal piano della strada dove scorrono implacabili le automobili. Certo, in queste giornate non tutti i marciapiedi sono tenuti sgombri dalla neve, non dappertutto qualcuno si è preoccupato di gettare il sale per sciogliere il ghiaccio, ma, a parte questo dettaglio, la loro esistenza è decisiva. A quanto mi risulta, sono un’innovazione urbanistica introdotta nel Settecento, per salvaguardare i pedoni dal pericolo delle carrozze. Il secolo dei marciapiedi è l’Ottocento. Ma anche il Novecento non è stato da meno.
Secondo Jane Jacobs, la giornalista canadese che ha scritto i più bei libri di architettura degli ultimi trent’anni (Vita e morte delle città, Edizioni di Comunità), in se stesso un marciapiede non significa niente, è un’astrazione: «Significa qualcosa solo in relazione agli edifici e agli altri usi esistenti lungo di esso o lungo altri marciapiedi immediatamente prossimi». Eppure i marciapiedi, al pari delle strade, senza le quali non esisterebbero neppure, sono i più importanti luoghi pubblici di una città, i suoi organi più vitali, dice Jane Jacobs. Camminando lungo i marciapiedi della città in cui vivo ho constatato, sia durante la brutta sia nella bella stagione, che sono i marciapiedi, più ancora della strada percorsa dagli autoveicoli a rendere la città interessante. Se si abita in città circoscrivendo alla sola cerchia privata delle proprie amicizie lo spazio del contatto umano, non ha poi tanto senso vivere nell’agglomerato urbano; meglio starsene in campagna. I marciapiedi di città sono pieni di gente interessante, curiosa, strana, bizzarra, anonima. La fiducia nasce sui marciapiedi; lì, osserva Jane Jacobs, si realizza un’infinità di piccoli contatti che rendono vivibile la città stessa, come fermarsi a bere un caffè in un bar all’aperto, chiedere informazioni ai passanti, guardare la gente che passeggia, sbirciare le vetrine, o altro ancora. Sul marciapiede si gioca la sicurezza della vita in comune, si stabiliscono contatti umani – seppur fuggevoli – e s’integrano le differenti culture, abitudini e consuetudini.
Un semiologo, Paolo Bertetti, in uno studio recente sui marciapiedi («Il senso calpestato», in Linguaggi della città, Meltemi), sostiene che le strade sono diventati dei non-luoghi in quanto costituiscono lo spazio urbano in cui si addensano i veicoli e non sono percorribili dai pedoni. Il marciapiede, al contrario, è un «luogo»: funziona come spazio in cui il pubblico e il privato si connettono tra loro. Svolgono la funzione che un tempo era affidata ai portici: mettere in comunicazione lo spazio privato della casa e lo spazio pubblico della strada. Una prova possibile per chi abita in città: uscire di casa durante una bella giornata e andare verso la periferia seguendo i marciapiedi, sino a quando questi non scompaiono del tutto. Lì, in quel punto, finisce davvero la città. Va’ dove ti porta il marciapiede.