Luca Doninelli, Leopardiana

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martedì 10 febbraio 2009

LUCA DONINELLI,Quella misteriosa Natura che voleva tenere in vita Eluana

«Un esempio di quando la ragione è in contrasto colla natura. Questo malato è assolutamente sfidato e morrà di certo fra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo come richiede la malattia in questi giorni, si scomoderanno realmente nelle sostanze: essi ne soffriranno danno vero anche dopo morto il malato: e il malato non ne avrà nessun vantaggio e forse anche danno perchè soffrirà più tempo. Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l’alimenti. Che cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo non fai e non soffri il possibile. È da notare che la religione si mette dalla parte della natura» (G. Leopardi. Zibaldone, Luglio-Agosto 1817).

Il contesto da cui abbiamo tolto questo brano di Giacomo Leopardi è una riflessione sul contrasto che esiste tra la “ragione” (che Leopardi intende nell’accezione illuminista, “la nuda e secca ragione”) e la “natura”, che fra tutte le parole è la parola leopardiana per eccellenza.

Abbiamo scelto di presentarvi questo breve testo in giorni drammatici come quelli che stiamo vivendo non già perché desideriamo forzare le parole del grande poeta a un pensiero che non è il suo, ma perché il suo pensiero è interessante in sé.

È interessante, sommamente interessante innanzitutto perché è un pensiero ferito. A Leopardi non interessa produrre armonie, ossia discorsi in grado di dare a ogni cosa il suo posto. La frattura tra la nuda e secca ragione e la natura è insanabile. Bisogna accettare lo scandalo. Il grande genio accetta lo scacco, l’uomo modesto cerca sempre l’equilibrio, il riparo sotto l’ala del discorso giusto.

La natura è misteriosa, produce grandezza ma anche orrore, mentre la ragione nuda e secca rifugge il mistero e si limita a calcolare su quello che ha. Eppure non può non tener conto della forza della natura, pena il trasformarsi essa stessa in un sogno, il sogno delle magnifiche sorti e progressive.

La natura “è quella che spinge i grandi uomini alle grandi azioni”, scrive il grande poeta, ma al tempo stesso essa “ripugna… dall’utilità della fatica”, non solo, ma inclina anche “a moltissime altre (cose, n.d.r.) o dannose o inutili o proibite, illecite, e condannate dalla ragione”, fino “a danneggiare o a distrugger se stessa”.

Al tempo stesso, però, con grande acutezza, Leopardi osserva che “la religione si mette dalla parte della natura”, ossia di questa natura contraddittoria, intrattabile, irriducibile, che produce Aristotele e Alessandro Magno ma anche l’eruzione del Vesuvio. La religione, in altre parole, si mette dalla parte del mistero: sempre e comunque.

Mille “se”, mille “ma”, mille “però” sorgono a questo punto in noi. Se la natura si autodistrugge, cosa deve fare la religione? Accettare l’autodistruzione, o intervenire? E intervenire in nome di che? Della natura no di certo, della ragione men che meno.

Ma Leopardi a queste conseguenze non è interessato. Sono linee minori, conflitti interiori, problemi particolari. Tutti noi abbiamo però constatato la capacità di trasformazione dell’uomo che un evento tragico possiede. Tutti abbiamo visto uomini mediocri trasformarsi in giganti per l’effetto di un dolore inspiegabile, ingiusto e crudele. O, meglio: per l’effetto del “sì” detto a quel dolore, per quanto spropositato e incomprensibile. Un “sì” che rasenta la follia ma che, al tempo stesso, appare profondamente, abissalmente ragionevole.

Dopo diversi interventi, su questo o quel quotidiano, in merito al caso Eluana, una sola cosa io so: di essere pressoché una nullità. Di fronte a Eluana, di fronte a suo papà, di fronte a questa tragica vicenda, chi sono io? E chi sono io davanti a Leopardi? Nessuno. Io scrivo solo perché dico “sì” a questa circostanza in cui tante persone come me si trovano, e che domanda di parlare di Eluana. Accettando gli errori di valutazione, la superficialità, le intemperanze che sono, spesso, ben difficili da evitare.

C’è un destino che ci interpella, al quale la nuda e secca ragione non può dire di sì. Perché alimentare artificialmente questa persona? Perché impiegare personale ospedaliero quando potrebbe essere impiegato in altri casi, in cui forse la vita ha maggiori possibilità di essere salvata? La nuda e secca ragione è un “no” perenne, continuo, senza sosta, profondamente amaro. Questa ragione ha vinto ed Eluana non c’è più. La sentiremo tutti, l’amarezza, e sarà la stessa amarezza: la mia come quella di Beppino Englaro.

Per questo la religione sta dalla parte della natura, dice “sì” (e ritiene questo “sì” molto più razionale del “no”) anche nell’imminenza di uno scandalo, di un’assurdità. Dice sì perché la grandezza sta dalla parte del mistero e, con la grandezza, la felicità, la riuscita della vita, il bene. Non è un problema di valori, né di risposte consolatorie. Agitare il valore dell’intangibilità della vita non c’interessa. C’interessa il grido del nostro cuore. Noi non comprendiamo, noi non sappiamo dare un posto a tutto, la realtà ci appare come fratturata. Eppure il nostro cuore continua a gridare perché non vuole morire, perché “il respiro della vita non abbia fine”.

Luca Doninelli, Leopardianaultima modifica: 2009-02-13T22:12:00+01:00da mangano1
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5 pensieri su “Luca Doninelli, Leopardiana

  1. Questo testo di Luca Doninelli è suscettibile di interpretazioni varie ed anche contrarie fra di loro. Ho già avuto modo di constatarlo in animate discussioni, private e di gruppo. Certo l’appartenenza religiosa dellì’autore (che mi pare, del resto, lui non sia qui a negare) potrebbe portare a credere, come mi è stato fatto notare, che la citaqzione leopardiana e la professione d’umiltà siano un semplice gioco retorico, sottile e mascherato, per far sentire cattolicamente in colpa coloro che premevano per lasciar morire Eluana, il padre per primo.

    Io però l’ho letto diversamente: l’ho letto come un grido che può dirsi, nella sua essenza, laico. Forse mi ha influenzato il fatto di essere decisamente laica io stessa, al contrario di Doninelli, e tuttavia di aver vissuto questa vicenda in preda ad uno scetticismo profondo su entrambi i fronti: uno sgomento al quale la mia ragione, o natura se preferiamo (le contrapposizioni sono sempre un po’ banali), mi avrebbe portato a rispondere che forse, in assenza di una volontà scritta e chiara, in presenza di una volontà soltanto presunta (e proprio per questo la legge sul testamento biologico è assolutamente urgente!!!!!) sia preferibile non lasciar dire alla morte l’ultima parola. Ho trovato, soprattutto, ingiustamente schematico il parere di chi (e mi riferisco alla quasi totalità dei giornalisti) voleva e vuole imbrigliare in comparti ideologici rigidi un dubbio irresolubile, di chi intende mortificare con classificazioni prefabbricate chi – pur immerso nel dubbio – preferisce comunque, nonostante tutto, stare “dalla parte della vita” (per quanto, vista la situazione – limite, questa parola suoni, come minimo, assai povera di certezze, e in generale non sia chiara in assoluto, come non lo è, o non lo è più, il concetto stesso di “natura”). Ho compreso le ragioni di chi voleva riattaccare il famigerato “sondino”, ho compreso e, lo confesso, ho condiviso: guai se mi sentissi bollata per questo, o giudicata la cattolica che non sono, o la berlusconiana che sono ancor meno!!! Ma se ho compreso, se ho condiviso nonostante tutto, non l’ho fatto certo per una convinzione netta, per un’ipoteca religiosa o morale, né tanto meno per un’adesione alle follie politiche strumentalizzanti, che mi hanno profondamente disgustato; l’ho fatto solo per aver ascoltato quell’imperativo categorico, quel grido interiore – eppure non meramente viscerale e soggettivo – che ci porta al di fuori dei calcoli, al di fuori delle argomentazioni strutturate e definitive.

    Un simile atteggiamento non è necessariamente cristiano, nè buddista, né avventista, né musulmano, né pagano, non è né di destra né di sinistra; è semplicemente, umanamente scettico, ed è forse, almeno secondo me, il più compatibile con la pietà, con il rispetto comunque sia per le decisioni prese, con l’accettare la realtà dei fatti, la loro difficoltà, la loro assurdità. Anche la ragione ha i suoi dubbi, e non sempre decide di risolverli con un”secco no”. Mi sembra che sia ciò che il testo di Doninelli fa, pur da un punto di vista totalmente diverso da quello laico: ma proprio questo dà l’idea della complessità estrema, della trasversalità estrema del problema. proprio quello che Jaspers avrebbe chiamato una situazione – limite.

    Può darsi che io sia troppo indulgente nei confronti di questo testo; può darsi che esso sottenda anche una sfumatura di esortazione al sacrificio e di esaltazione del senso di colpa, come più spesso abbiamo sentito fare, e assai poco onorevolmente, da parte di vari cattolici oltranzisti; io, ripeto, una simile tesi non la vedo, in questo caso specifico. Vedo un autore che s’interroga sulle proprie stesse ragioni, che mette a confronto il proprio pensiero con quello altrui, che cita un passo molto eloquente di Leopardi (pensatore, lo sappiamo, dalle mille sfumature egli stesso), ma senza utilizzarlo in modo improprio. Non vorrei che, appena si veda una firma molto schierata dall’una o dall’altra parte, si cadesse nel gioco di bocciare o promuovere tutto a priori; penso che faccia parte dell’esercizio del pensiero critico fare un po’ di epoché, leggere un testo per quello che ci dice e non per quello che vorremmo o non vorremmo ci dicesse.

    Parafrasando Pascal, potrei dire che anche la ragione ha un cuore. Non degradiamolo con etichette. Lasciamolo battere, almeno in noi stessi, perchè da questo palpito scaturisce il senso critico, la profondità di sentire, la capacità di sopportare l’enorme frustrazione del dubbio e del silenzio, quel silenzio che ci accompagna nelle solitudine estrema delle scelte più gravi; infine, l’intelligenza vera, che è sempre anche carnale, emotiva (quindi, come mi pare intenda l’autore, un “grido”).

    Alessandra Paganardi

  2. Questo testo di Luca Doninelli è suscettibile di interpretazioni varie ed anche contrarie fra di loro. Ho già avuto modo di constatarlo in animate discussioni, private e di gruppo. Certo l’appartenenza religiosa dellì’autore (che mi pare, del resto, lui non sia qui a negare) potrebbe portare a credere, come mi è stato fatto notare, che la citaqzione leopardiana e la professione d’umiltà siano un semplice gioco retorico, sottile e mascherato, per far sentire cattolicamente in colpa coloro che premevano per lasciar morire Eluana, il padre per primo.

    Io però l’ho letto diversamente: l’ho letto come un grido che può dirsi, nella sua essenza, laico. Forse mi ha influenzato il fatto di essere decisamente laica io stessa, al contrario di Doninelli, e tuttavia di aver vissuto questa vicenda in preda ad uno scetticismo profondo su entrambi i fronti: uno sgomento al quale la mia ragione, o natura se preferiamo (le contrapposizioni sono sempre un po’ banali), mi avrebbe portato a rispondere che forse, in assenza di una volontà scritta e chiara, sia preferibile non lasciar dire alla morte l’ultima parola. Ho trovato, soprattutto, ingiustamente schematico il parere di chi (e mi riferisco alla quasi totalità dei giornalisti) vuole imbrigliare in comparti ideologici rigidi un dubbio irresolubile, e mortificare con classificazioni prefabbricate chi – pur immerso nel dubbio – preferisce comunque, nonostante tutto, stare “dalla parte della vita” (per quanto, vista la situazione – limite, questa parola suoni, come minimo, assai povera di certezze, e in generale non sia chiara in assoluto, come non lo è, o non lo è più, il concetto stesso di “natura”). Ho compreso le ragioni di chi voleva riattaccare il famigerato “sondino”, ho compreso e ho persino condiviso: ma non per una convinzione netta, non per una precisa ipoteca religiosa o morale, tanto meno per un’adesione alle follie politiche strumentalizzanti, che mi hanno profondamente disgustato; ma per aver ascoltato quell’imperativo categorico, quel grido interiore – eppure non meramente viscerale e soggettivo – che ci porta al di fuori dei calcoli, al di fuori delle argomentazioni strutturate e definitive.

    Un simile atteggiamento non è necessariamente cristiano, nè buddista, né avventista, né musulmano, né pagano, non è né di destra né di sinistra; è semplicemente, umanamente scettico, ed è forse, almeno secondo me, il più compatibile con la pietà, con il rispetto comunque sia per le decisioni prese, con l’accettare la realtà dei fatti, la loro difficoltà, la loro assurdità. Anche la ragione ha i suoi dubbi, e non sempre decide di risolverli con un”secco no”. Mi sembra che sia ciò che il testo di Doninelli fa, pur da un punto di vista totalmente diverso da quello laico: ma proprio questo dà l’idea della complessità estrema, della trasversalità estrema del problema. proprio quello che Jaspers avrebbe chiamato una situazione – limite.

    Può darsi che io sia troppo indulgente nei confronti di questo testo; può darsi che esso sottenda anche una sfumatura di esortazione al sacrificio e di esaltazione del senso di colpa, come più spesso abbiamo sentito fare, e assai poco onorevolmente, da parte dei cattolici oltranzisti; io, ripeto, una simile tesi non la vedo, in questo caso specifico. Vedo un autore che s’interroga sulle proprie stesse ragioni, che mette a confronto il proprio pensiero con quello altrui, che cita un passo molto eloquente di Leopardi (pensatore, lo sappiamo, dalle mille sfumature egli stesso), ma senza utilizzarlo in modo improprio. Non vorrei che, appena si veda una firma molto schierata dall’una o dall’altra parte, si cadesse nel gioco di bocciare o promuovere tutto a priori; penso che faccia parte dell’esercizio del pensiero critico fare un po’ di epoché, leggere un testo per quello che ci dice e non per quello che vorremmo o non vorremmo ci dicesse.

    Parafrasando Pascal, potrei dire che anche la ragione ha un cuore. Non degradiamolo con etichette. Lasciamolo battere, almeno in noi stessi, perchè da questo palpito scaturisce il senso critico, la profondità di sentire, la capacità di sopportare l’enorme frustrazione del dubbio e del silenzio, quel silenzio che ci accompagna nelle solitudine estrema delle scelte più gravi; infine, l’intelligenza vera, che è sempre anche carnale, emotiva (quindi, come mi pare intenda l’autore, grido).

    Alessandra Paganardi

  3. Non condivido nulla del tortuoso discorso del Doninelli che finisce in una retorica esaltata di un sì ad astrazioni e allucinazioni, che è un no arrogante alla volontà esplicita di Eluana di non essere costretta violentata stuprata per 17 anni dalla religione e dal potere della repressione e della mortificazione.
    ‘Eppure il nostro cuore continua a gridare che non vuole morire, perché “il respiro della vita non abbia fine.”‘ Orsù. Doninelli, che nostro? lei sa che non parla per Eluana né per il padre né per me; parli per sé e stia attento che sta bestemmiando, perché nella sua credenza la morte è un dono di dio. Mentre l’uomo libero e cosciente si realizza proprio assumendo la costruzione della sua vita in piena responsabilità e anche, al culmine del suo valore di uomo, nella scelta del come e quando morire, senza capitolare in questo passo né alle necessità della natura né ai capricci del caso né alla prepotenza di un dio tragicamente assente, se non inesistente.

  4. Egregio Gughi, è giusto rispettare la sua antipatia per un linguaggio che non appartiene neppure a me; ma del quale io, diversamente da Lei, ho apprezzato certi tratti e certe problematiche poste, al di là del fatto di cronaca su cui troppo è già stato detto, e su cui non vorrei tornare più. Provo a spiegarmi. Non tutto ciò che non ci appartiene è follia, bestemmia, orrore ed allucinazione; io credo che il dialogo incominci proprio da una sorta di pacata epoché, dallo spogliare il linguaggio – il nostro e l’altrui – dalle sovrastrutture che opacizzano, per così dire, la comunicazione. E’ un discorso terribilmente complesso, non può certamente essere fatto qui. Ma personalmente continuerò a mantenere con ciò che leggo, persino con ciò che ascolto (cosa ancor meno facile) un approccio il più possibile aperto e critico. Cerco, insomma, di far valere in modo non del tutto distruttivo la “scuola del sospetto”. Dio è inesistente, con ogni probabilità. Questo rende tutto terribilmente più complicato. Questo ci fa sentire certamente più soli, più dubbiosi, ma per fortuna – per quanto mi riguarda – non ci fa sentire più disperati. Forse ci costringe a cercare dove stiano “davvero” i nostri limiti, che sono squisitamente individuali, che nessuno può tracciare totalmente per noi -anzi, che siamo noi stessi a tracciare, scommettendo ogni giorno e spesso perdendo. Doninelli crede di vedere un limite netto fra natura e non natura: buon per lui. Ho il sospetto che non sia così, non più, da tempo. Ma il testo, per chi lo legge senza troppe “passioni tristi”, ha proprio questo merito: porre il problema se tali confini, da qualche parte, esistano o possano esistere ancora. Non è affatto detto – e in ogni caso non è la mia letttura – che si debba rispondere con una mappa analoga a quella dell’autore dell’articolo. Chi ci riesce, tuttavia, non bestemmia: utilizza semplicemente una mappa favorevole al proprio percorso. Alessandra.

  5. Ratzinger dichiara che ha il dovere di rifiutare il dialogo perché lui -IO-DIO- non solo possiede, ma è la verità. Una posizione egolatrica molto diffusa tra i cattolici che amministrano il loro panteismo partendo dal loro IO.
    A un uomo senza etichette come me, antiteticamente, non è proibito ma impossibile il dialogo con loro. Nessuno perde nessuno vince. Non amici prima, non dopo. Ciascuno dichiari il proprio pensiero e rispetti la libertà dell’altro. Bene. Non è così. In questo momento è in corso una guerra di religione cattolica per togliere a tutti gli italiani il diritto di scegliere come vivere e come morire.
    Il resto è autocontemplazione ed esibizione di misteri cuori amori etc.

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