Roberto Bonuglia, Elio Vittorini e la nuova cultura

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14 Febbraio 1966: muore Elio Vittorini.

Sono passati, ormai, più di 40 anni dalla sua scomparsa, e il tempo trascorso non ha offuscato l’importanza dell’opera di uno dei più grandi intellettuali che l’Italia ha conosciuto nel Novecento. Davvero notevole, infatti, fu il valore storico della sua opera, e lo stesso dicasi per la funzione da essa esplicata nell’ambito della cultura (letteraria e non) dal periodo postbellico fino alla fine degli anni ‘60. La sua presenza, la sua influenza, superano i limiti ristretti, angusti, di un’attività puramente letteraria, per divenire esempio di un impegno integralmente ideologico e culturale, di lotta, cioè, per una cultura «non consolatoria», ma agganciata totalmente ai problemi reali dell’uomo contemporaneo.

Un impegno, dunque, quello di Vittorini contro «i vecchiumi della società letteraria» (G. Pampaloni) e della tradizione da essa rappresentata. Il che significò, di fatto, il superamento dell’esperienza carducciana, dannunziana, pascoliana e poi «vociana», «futurista» e «rondista» (cioè delle maggiori e più autorevoli riviste “con la erre maiuscola”) all’insegna di un concetto «responsabile», «moderno», civilmente «impegnato», di letteratura e di cultura.

Lo scrittore, in Vittorini, va di pari passo con l’agitatore di idee, con l’operatore politico, con – come ricorda giustamente Alfonso Berardinelli – elio1.jpgl’organizzatore culturale, e questo di lui è l’aspetto che più affascina ancora oggi chi lo legge e chi ancora scrive di lui: il letterato è inscindibile, insomma, dall’uomo intero, nella sua integrità e totalità…. Alla faccia degli “specialismi” oggi tanto di moda.
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Gli esordi narrativi di Vittorini (i racconti di Piccola borghesia del ‘31, di stampo ancora natural-verista) avvengono, infatti, in un clima letterario (quello degli anni ‘30) che aveva sperimentato da poco la soppressione, in nome di un malinteso «nazionalismo» culturale (il «genio italico», il «primato dell’Italia», «la gloria della stirpe»), qualsiasi legame col più vasto mondo della cultura europea: ma ad ospitare le prime prove di Vittorini è «Solaria», la rivista di Carocci, Ferrata, Bonsanti, nata a Firenze nel ‘26, che operò per una «sprovincializzazione» della letteratura italiana, riproponendo accanto ai nomi di Joyce, Mann e Proust, quelli di narratori come Kafka, e rivalutando i «nostri» Saba, Tozzi e Svevo (basti ricordare che «Solana» accolse le «prove» di scrittori quali Gadda, Montale, Quasimodo, Piovene, Pavese).

La narrativa di Vittorini, perciò, vuole essere una narrativa di «cose», di «contenuti», e non più di parole, di puri esercizi verbali, avvinta ai problemi reali del paese avente, quindi, non più una funzione meramente decorativa e accompagnatrice, ma conoscitiva, pedagogica, educatrice. In questo senso l’opera di Vittorini va considerata e inquadrata in quel fenomeno letterario che prende il nome di «neorealismo», pur con tutti i residui «ottocenteschi» (regionalismo, populismo, operaismo) che tale prospettiva storico-critica comporta: si pensi, infatti, a ciò che di «decadente» è presente ancora nella narrativa neorealista degli anni ‘30, dagli accenti idillico-elegiaci di Pratolini, a quelli favolistico sentimentali di Jovine, dal lirismo simbolico di Alvaro, alla problematica del «mito» in Pavese, alla descrizione moraviana della «condizione», straniata, alienata, della «borghesia» di allora. Si trattò, in realtà, di un’operazione storica decisiva; bisogna spezzare, una volta per tutte, la «mitologia» altisonante e oratoria del regime, accostandosi ad una realtà non più «unica» ed «inimitabile», ma diseroicizzata, grigia, volutamente in tono minore, espressa mirabilmente da Moravia ne Gli indifferenti e da Jovine in Un uomo provvisorio (che continua, in verità, quel filone narrativo degli «inetti», degli «incapaci» di vivere, ereditato da Svevo, Pirandello, e Borgese).
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D’altra parte il rifarsi (ed è un atteggiamento comune anche a Pavese, traduttore di Melville, Sherwood Anderson, etc.) ad una narrativa (quella americana degli Steinbeck, dei Faulkner, dei Caldwell, degli Hemingway) fortemente anti-intellettualistica, immediata, viva, capace di esprimere simbolicamente l’uomo nella sua integrità (si pensi al lavoro di traduttore di Vittorini e alla sua antologia «Americana»): era un’operazione (col suo «mito» di un’America forte, gagliarda, dinamica, di una società «primitiva», quasi «barbarica») che non poteva non apparire, col suo «internazionalismo», in stridente contrasto con quella «provincialistica», «nazionalistica», auspicata dal fascismo e dalla sua politica di nazionalizzazione letteraria e linguistica.

In realtà, pur muovendosi, in questo periodo, in una posizione che viene ricondotta, di solito, al cosiddetto «fascismo di sinistra» (fu un’illusione condivisa con Vittorini, da Bilenchi e Pratolini, nel voler attribuire al fascismo un approccio autenticamente «rivoluzionario», con uno sbocco «populistico» e «classista» l’attività dello scrittore siciliano presenta già, in nuce, i caratteri che si svilupperanno nell’opera futura: senso “mitico-magico” della realtà, lirismo, componente memoriale ed elegiaco-sentimentale, da una parte; impegno ideologico, diretto, concreto, nelle cose degli uomini, nella società e nel mondo, per trasformarli, volontà di rivolta, dall’altra. Un messaggio, quindi, (in questo, molto simile a Pavese) sospeso a metà fra mito, storia e realtà, tra ragione e carica sentimentale, trasfigurazione allusiva ed evasione: il che, in termini diretti di resa narrativa si traduceva in uno «stile» in bilico sempre tra realismo e simbolismo, tra descrizione particolareggiata, minuta, del reale, a sublimazione lirica, suo riscatto dalla «materia» che gli è propria, nella «parola» evocatrice.

Di questa poetica vittoriniana, attenta alla realtà, ma, beninteso, per cambiarla, impregnandola di simboli, sono testimonianza Il garofano rosso del ‘33-34 (uscito su «Solaria»; in volume nei ‘48: si ricordi che questo romanzo causò la soppressione della rivista fiorentina) col suo senso di rivolta anarchica contro le istituzioni, impersonate dalla famiglia e dalla società costituita; Sardegna come un’infanzia del ‘36, col suo mondo tragico ed eroico insieme; del ‘36 (uscito poi nel ‘56 insieme a La Garibaldina del ‘50) col suo «mito» barbarico e primitivo; Erica e i suoi fratelli e poi Conversazione in Sicilia del ‘38-39 (a puntate sulla rivista «Letteratura», poi in volume nel ‘41) che segna la svolta decisiva nella narrativa vittoriniana (seguita allo scoppio della guerra civile in Spagna nei ‘36), suo simbolo, puro, incontaminato, di una Sicilia-infanzia dello spirito, colla sua condizione misera, drammatica, ma epica, colla sua voglia disperata di riscatto; Uomini e no del ‘45, in cui il «romanzo della Resistenza», colla sua divisione degli uomini in buoni e cattivi, diviene specchio di una generica e mitizzante, simbologia universale della condizione umana; Il Sempione strizza gli occhi al Frejusdel ‘47, colla sua volontà, ma sempre liricizzata, di aggancio diretto alla cronaca, alle cose, con i suoi personaggi-emblemi, caratterizzanti una realtà al di fuori della storia; Le donne di Messina del ‘49, col loro «mito» di una società preistorica.

Questa produzione letteraria, come dicevamo prima, non può essere compresa totalmente se non va agganciata (e ne è sostanziata, arricchita, quasi condizionata) con l’attività di Vittorini in quanto organizzatore, operatore, ideologo della cultura: dal ‘45 al ‘47 dirige «Il Politecnico», con l’impegno, la lotta per una «nuova» cultura, per una più viva e diretta funzione politico-sociale della letteratura (si ricordino le inchieste sulla scuola, sull’Est, sulla Lucania, sull’IR.I., sugli U.S.A., sull’U.R.S.S. e la Cina): funzione etico-civile, dunque, volontà chiarificatrice dell’opposizione tra politica (cronaca) e cultura (storia).

Il vero scrittore, ammonisce, però, Vittorini, deve riuscire a «portare attraverso la sua opera esigenze rivoluzionarie» “diverse” da quelle che la politica pone esigenze interne, segrete, recondite dell’uomo ch’egli soltanto sa scorgere nell’uomo», ponendole «accanto» e «in più» a quelle che sa porre la politica. L’operosità ideologica e culturale di Vittorini non si ferma qui: dal ‘61 al ‘66, insieme a Calvino, dirige «Il Menabò», in cui si occupa del rapporto tra mondo industriale e letteratura, teorizzando, per così dire, più che una letteratura impregnata di temi e di contenuti che si disfacessero alla vita dell’industria, alla condizione operaia, un modello linguistico che rendesse la realtà alienante ed alienata della società neocapitalistica, quasi con intenti catartici e con finalità liberatorie. Vittorini, intravedeva, così l’unica, forse utopistica, possibilità di esistenza, di capacità d’azione, soprattutto etico-civile, per la letteratura nel mondo contemporaneo, ed è questo, tutto sommato, il «messaggio» più vivo che egli ci ha voluto lasciare in eredità e che orienta da sempre ogni nostra azione.

E con l’auspicio che questa eredità venga presto ripresa, concludiamo queste nostre modeste riflessioni su uno dei più grandi e completi autori italiani del secolo scorso invitandovi a conoscerlo, leggerlo, rileggerlo. Credeteci, ne abbiamo bisogno davvero.

Roberto Bonuglia, Elio Vittorini e la nuova culturaultima modifica: 2009-04-21T20:29:00+02:00da mangano1
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