da AFFARI ITALIANI
Venerdí 02.04.2010 16:11
Diario zen, trascrizione felicemente occasionale di una quindicina d’anni guardati dall’oblò di una sensibilità vigile ma sempre corretta dalla razionalità e da un’ironia imperturbata, questa terza raccolta poetica di Paola Mastrocola ha una virtù rara: si legge come un racconto. E’ il racconto di una vita qualsiasi, dove la quotidianità non ambisce a diventare epos, né a trasformarsi in meditazione epocale, epifania di orfiche trascendenze, ma viene osservata con affettuosa ostinazione e una certa ritrosia, non di rado venata di sarcasmo (e questo avviene quando l’ironia deborda nell’indignazione): “Ci sono giorni ottusi che non puoi,/nemmeno tu che ti racconti/il falso, non accorgerti del male”.Se una disposizione di fondo persiste, vagamente gozzaniana nel suo accumulo: “Il vaso da riporre, le foto/di quattr’anni da comporre/per ordine di luogo, di data./Mi sento in mezzo a un mare, soffocata”, questa viene costantemente deviata dal gusto beffardo per l’epigramma, che chiude o apre la narrazione con un forte senso gnomico, che non esita a servirsi del motteggio in rima: “Gli amici pensano/soprattutto a sé./Il lavoro, la famiglia,/la palestra e la zia Nenné”. Opera di un moraliste, il libro non nasconde la vocazione (vedi la bella citazione di Rilke apposta alla sezione intitolata Sala di consultazione) a prendere le distanze, a rimanere beatamente inquieta in superficie: “Non mi lasciare, galleggiante./Voglio stare come te/sull’acqua/fluttuante, non scandagliare/le cause e le ragioni: stare/attaccata,/appagata di guardare/il mondo cangiante, e non andare/a fondo./A fondo c’è la sabbia e roccia,/piana o leggermente mossa:/nient’altro che ti possa riportare/a galla”, ma questo è, si direbbe, una necessità di chi ritrae la vita più che una forma d’impassibilità, e nemmeno vale come alibi per le sottili perfidie candidamente confessate, là dove l’identificazione con la placida marmotta svela lo scatto improvviso e il morso: “Scusate l’eccessiva superficie,/la morbidezza che nasconde/l’affondo dei denti;/la finzione del letargo/ (è lì che meglio si distende/il pensiero, si diffonde) e anche questo nostro indisponente/rodere continuo il legno/morto/della vostra mente”.
E ancora un animale del sottosuolo serve per completare la metafora (o l’apologo?): “La scrittura è una talpa scura,/l’animale senza gli occhi/che scava con le unghie il buio.// La scrittura è non aver paura/di ferire,/gli altri,// di morire”. Insieme all’istinto narrativo non va trascurata la cura per gli strumenti con cui tradurlo in poesia (abbondano non a caso i settenari e gli ottonari) e l’istinto sicuro per il gioco prosodico, condotto spesso con maestria come in questi versi, dove sembra di cogliere echi ungarettiani: “Invece qui, sulla battigia che declina/in onda, blanda, che dimentica/ di sé non batte, non arriva;/invece qui di nuovo ritornerà mattina,/un’alba luminescente/su un mare denso piatto/come la scia della lumaca sulla foglia/nascente”. E nel cuore di tutto il libro il mare, evocato nei paragoni, oggetto metaforico e al tempo stesso elemento morale, sfondo, paesaggio e insondabile rifugio, deserto d’acque dove sembra ancora possibile il romitaggio delle anime (“Noi invece appartiamoci sul mare”), a tal punto radicato in questa poesia da dettare una infinità di rime con i verbi all’infinito, come a fare da eco alla risacca, alla sua musica semplice, misura di un ordine cosmico.
Bruno Nacci
Dal sito di Samgha
Paola Mastrocola, La felicità del galleggiante, Milano, Guanda, 2010