Giancarlo De Cataldo,New York, storia della Grande Mela

New York, storia della Grande Mela
costruita da malandrini e tagliagole

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di Giancarlo De Cataldo
ROMA (5 maggio) – «Le parole dei profeti sono scritte sui muri della metropolitana/ e negli androni dei caseggiati popolari». Così cantavano, dopo il black-out che nel 1965 lasciò per ore New York senza luce, Simon & Garfunkel. Come dire che la vera anima di una città è custodita, nel tempo e contro il tempo, dagli sbandati, dai poveri, dagli emarginati, dagli esclusi.

È la stessa tesi che circola nel densissimo saggio di Luc Sante sulla New York delle origini. Il titolo italiano, C’era una volta a New York. Storia e leggenda dei bassifondi (Alet, 352 pagine, 19 euro) riprende l’icastico originale Low Life. La Vita Bassa, o, meglio La Vita Sotterranea. È la storia, o, per meglio dire, la contro-storia della Grande Mela puntigliosamente ricostruita e reinterpretata alla luce dei segni (letterari, giornalistici, fotografici, musicali, teatrali) disseminati nell’arco di oltre un secolo, dal primo Ottocento al 1914, da quella vasta, pittoresca, davvero impressionante umanità marginale che inventò il Mito di New York e della quale, ancora oggi, la città porta i segni indelebili.

È la storia di una città nascosta, segreta, invisibile fatta di malandrini, ladri, attori, pugili, pompieri, sbirri, mignottine, ladruncoli, politicanti. E dei loro luoghi di ritrovo, delle loro dimore fatiscenti, dei club costituiti su base etnica che presto si organizzano in bande, e poi diventano soggetti politici attivi, e infine originano le mafie. È la storia degli epici scontri di strada fra le bande. La storia del vizio e della povertà che convivono fianco a fianco con la lussuria e la ricchezza: facce contrapposte della stessa medaglia, l’una e l’altra indissolubilmente legate, condannate a convivere, e a generare, nei rari momenti d’incontro e nei frequenti scontri, quell’unicità che è l’anomalia perdurante di New York.

Luc Sante è newyorkese come quelli che racconta: immigrati (Sante dal Belgio) in partenza, poi, once and forever, una volta e per sempre, newyorkesi. La quantità di informazioni che si possono ricavare da questo prezioso volume è enorme, persino esagerata. Non a caso Martin Scorsese (paisà del nostro Sud) volle Sante come consulente per le Gangs of New York, uno dei suoi film più riusciti e meno amati. E se ne comprende il motivo: come si fa ad amare uno che ti ricorda che la tua città non è nata dai diamanti ma dal letame, che Tammany Hall, praticamente la pietra fondante del moderno Partito democratico, era più o meno una congrega di tagliagole, che gli immigrati, per essere accettati dai nativi (spesso altri immigrati che avevano il solo pregio di essere sbarcati tre o quattro anni prima) hanno sostenuto epiche lotte, rimettendoci spesso la pelle?

A tutti (Sante lo nota acutamente) piacerebbe avere un Romolo o un Pericle nelle proprie origini: ma la verità è che New York è oggi così com’è, nel bene e nel male, molto più per merito (o per colpa) dei suoi “sotterranei” che dei suoi signori. Mafia inclusa, se è vero, come è vero, che l’albero genealogico dei vari Anastasia, Gotti, Gambino include antenati attivi nelle dalle gang di strada dell’Ottocento. È, soprattutto, la storia di una grande continuità: i caseggiati popolari della canzone di Simon & Garfunkel sono esattamente quei “tenements” di legno dove, vittime di una feroce speculazione edilizia, si ammassavano, cent’anni fa, i disperati che da tutte le parti del mondo partivano alla conquista della Grande Mela. Il nomignolo stesso, riletto alla luce del lavoro di Luc Sante, ha un che di beffardo. “Grande Mela” sa di speranza e di tenace buona volontà, di occasioni a portata di mano, di vita elettrica e febbricitante che non nega a nessuno una prima, e, perché no, una seconda e persino una terza chance.

Ma certi newyorkesi, diciamo quelli meno baciati dalla fortuna, (e Sante non manca di ricordarcelo) hanno un altro modo per definire la loro città. La chiamano “La Grande Cipolla”, perché come una cipolla puoi sbucciarla a strati sino a restare con un pugno di mosche in mano e il volto rigato di lacrime. Oppure, “La Grande Patacca”. In memoria, si può pensare, della sciagurata transazione per effetto della quale, il 24 maggio 1626, la tribù nativa dei Delaware (poi passata alla storia per le gesta di Pocahontas) cedette al governatore olandese l’isolotto di Manhattan. Prezzo della compravendita: sessanta fiorini, ossia venticinque dollari al cambio di oggi.

Mela, Cipolla o Patacca che sia, d’altronde, New York è, da almeno centocinquant’anni, indiscutibilmente “grande”. Una fabbrica inesauribile di mitologie e stili di vita, un laboratorio inesauribile di storie umane sensazionali, l’approdo agognato da legioni di sognatori, il centro irradiatore dell’ideologia dell’Impero Americano d’Occidente, la méta finale di chi ha fatto del successo la propria ragion d’essere. Essere il “numero uno” a New York, nella moda, nel costume, nello spettacolo, nello sport, nello showbiz così come nell’industria, in politica o in finanza, significa essere il “numero uno” nel mondo.

Questo, almeno, ai nostri occhi. “Loro”, se ci si prende un minimo la briga di indagare, ti racconteranno una storia leggermente diversa: quelli che non ci vivono e non l’amano sostengono che New York non è l’America. E quelli che ci vivono e la amano, o la detestano, ma non possono farne a meno, siano di origine italiana, coreana, somala o melanesiana, rivendicano uno status del tutto particolare: prima newyorkesi, poi americani, poi più niente.

Sante è impietoso con la New York-bomboniera di oggi, quasi nostalgico della metropoli in cui c’era spazio tanto per il lusso che per il degrado. È una visione che fa a cazzotti con la “vulgata” sulla sicurezza che ossessiona l’Occidente. Ma che del Mito di oggi il mondo sia tributario all’inconsapevole vergine irlandese che batteva a Five Points per pochi spiccioli o all’erculeo pugile che s’improvvisava attore negli sgangherati teatrini della Bowery, beh, è cosa che un po’ ci fa riflettere e un po’, ammettiamolo, ci fa sognare.

Giancarlo De Cataldo,New York, storia della Grande Melaultima modifica: 2010-05-07T15:36:29+02:00da mangano1
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