Giampaolo Pansa,Un’aula sorda e grigia

DA  il  riformista

 

Un’aula sorda e grigia
di Giampaolo Pansa
Vi ricordate che cosa disse Benito Mussolini, una ottantina di anni fa? Scrutando con occhi a biglia l’emiciclo di Montecitorio, ruggì: “Di quest’aula sorda e grigia farò il bivacco dei miei manipoli!”. Andò così. La Camera dei deputati smise di essere sorda e grigia per diventare un’assemblea in camicia nera. E con le orecchie ben aperte agli ordini dell’Uomo di Predappio.

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La faccenda dell’aula sorda e grigia mi è ritornata in mente venerdì 7 maggio leggendo che cos’era accaduto a Montecitorio il pomeriggio precedente. Dal banco del governo, il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, spiegava ai deputati quanto fosse grave la crisi scatenata dal crack della Grecia. Roba pesante, che riguardava la sorte dell’euro, dell’Europa comunitaria e dei nostri risparmi. Era un chiarimento aspettato da milioni di cittadini. Alle prese con una domanda angosciata: che cosa ci accadrà?

Tremonti parlava con la solita fredda perizia. Ma di fronte al deserto. Dei 630 deputati ne erano presenti meno del dieci per cento, ossia 60. Il gruppo più numeroso era quello democratico, una quarantina di parlamentari. Poi c’erano dieci dell’Udc. Due dell’Italia dei valori. Uno della Svp. La maggioranza era tutta assente, tranne cinque del Pdl e due della Lega.

Devo commentare? Assolutamente no. Se un ramo del Parlamento si sputtana da solo, che cosa può aggiungere il Bestiario? Può soltanto assistere, con grande melanconia, alla morte definitiva di una figura. Che per la mia generazione cresciuta nel primo dopoguerra era intoccabile e santa: l’Onorevole Deputato, il simbolo della democrazia repubblicana. Un’icona distrutta dagli stessi che oggi la incarnano. Gente che non ha vergogna di passare per fannullona e fancazzista.

Sono nato in una famiglia che ammirava il Deputato. Mio padre, operaio del telegrafo, desiderava che dopo la laurea diventassi funzionario della Camera, per vedermi lavorare al fianco di tante eccellenze. Quando riuscii a fare il giornalista, mi disse: va bene lo stesso, scriverai di loro e li vedrai da vicino. Infatti li conobbi bene e ne scrissi molto. All’inizio con rispetto. Perché nei primi trent’anni repubblicani, i parlamentari ne meritavano davvero tanto.

Per cominciare, erano vestiti modestamente. Gli elegantoni non mancavano nei palazzi della politica. Come i liberali di sinistra, dei quali si cantava: “Se non ci conoscete – guardateci i calzini – noi siamo i liberali del conte Carandini”. Il conte Niccolò Carandini, poi tra i fondatori del Partito radicale, era un signore splendido nel suo doppiopetto di sartoria. Lui portava il calzino lungo. Tutto l’opposto della massa parlamentare.

Per la massa valeva una regola: calzino corto, cravatta larga. Quasi tutti vestivano malissimo. Persino il doppiopetto di Palmiro Togliatti, reso celebre da Vittorio Gorresio, paragonato all’eleganza sfacciata dei peones 2010 era un abito sformato, che cadeva male da tutte le parti. E conferiva al leader del Pci l’aspetto strafugnato di un console sovietico, appena sbarcato da un viaggio in treno Mosca-Roma.
Qualche personaggio davvero elegante esisteva anche nella Dc. Per esempio Alcide De Gasperi, di una distinzione austera. O il giovane Emilio Colombo, che sembrava appena uscito dal sarto, dal barbiere e dalla manicure. Ma di solito i dicì non si curavano dell’estetica. Pantaloni abbondanti e corti. Calzette nere o grigiastre. Giacche che tiravano sulla pancia. Cravatte color topo che fugge. Però la cravatta i parlamentari maschi ce l’avevano tutti. Mica come succede oggi. E così Camera e Senato mostravano una bell’aria di mediocrità dignitosa, segno di rispetto per la funzione e per il luogo.

E le signore parlamentari? Alcune erano di una bellezza irraggiungibile. Ma di solito ricordavano le nostre madri nell’età adulta. Sempre affannate, inciccionite, in un perenne bagno di sudore, la permanente ormai svanita. Tuttavia nel loro povero look si leggeva lo scontro con il bigottismo maschilista delle rispettive parrocchie. La lotta per emergere in una politica dove gli uomini imperavano. Il puntiglio nel lavoro alla Camera o al Senato che le costringeva a trascurare la cura del corpo e l’eleganza. Alle signore del Parlamento non importava di sembrare la serva di Pilato: erano lì per rendersi utili al paese e agli elettori, non per farsi riprendere dai fotoreporter.

Anche le case dei politici di rango non differivano molto da quelle degli italiani di reddito medio. Al Nord odoravano spesso di minestrone, al Sud di spaghetti aglio, olio e peperoncino. M’imbattevo quasi sempre in alloggi vecchio stile. Dove non erano passati architetti, arredatori, antiquari. In più si trattava di case comprate con soldi onesti o con il mutuo. Allora non esistevano i grandi costruttori pronti a regalare nove o dieci vani al ministro birbone o al politico influente.

Pure le vacanze erano all’insegna della sobrietà. De Gasperi ritornava nel suo Trentino. Amintore Fanfani era aspettato nel borgo natio, a Pieve Santo Stefano, in provincia di Arezzo. Carlo Donat Cattin villeggiava a Finale Ligure dov’era venuto al mondo: la casa era di una semplicità austera, non si vedeva neanche il mare. Francesco De Martino affittava una villetta a Capo Miseno, davanti a Procida, e andava a far la spesa in bicicletta. Lo stesso faceva Pietro Nenni a Formia, senza scorta, in canottiera e su una bici da donna, con la moglie Carmen.

Ma allora è vero quanto pensano in molti: che andava meglio quando si stava peggio? Credo di sì. E m’incavolo.

Giampaolo Pansa,Un’aula sorda e grigiaultima modifica: 2010-05-11T15:09:20+02:00da mangano1
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