Gianni Cervetti, Milano da bere

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LeRagioni.it
Ieri 12 maggio 2010, 16.31.20
Milano da bere. Ma la politica è organizzare il consenso.

Ieri 12 maggio 2010, 16.31.20 | Speciali

di Gianni Cervetti (da Le Nuove Ragioni del Socialismo, Maggio 2010)

Nell’ultimo numero della nostra rivista, Riccardo Terzi ha pubblicato un ampio saggio su “Milano e la politica”. La rilevanza della questione, trattata peraltro con dovizia di argomentazioni nella sua dimensione storica e in alcuni suoi aspetti attuali, stimola e sollecita una discussione alla quale desidero partecipare. Scelgo, tra i tanti, tre temi che Terzi affronta con logica stringente e suggestiva, anche se a volte, muovendo da premesse non più che solide, può giungere – è solo un parere – a conclusioni non completamente certe e appieno convincenti.

1) Che Milano abbia una “morfologia sociale” particolarmente connotata, come sostiene giustamente Terzi, da una “struttura policentrica e differenziata, in cui agisce una pluralità complessa di soggetti sociali e di centri di potere” non può essere messo in dubbio. Vero è anche che “qui c’è il problema di proliferare delle funzioni intermedie, c’è un agglomerato composito e variegato di figure sociali non riconducibili al classico antagonismo di classe”. E sebbene non sia esatto concludere, come ha fatto un po’ schematicamente certa sociologia, e come sembra riproporre lo stesso Terzi, che “sul terreno politico”, a Milano, “non si riproduce mai una situazione egemonica” (non c’è bisogno di richiamare l’affermazione del fascismo e, poi, dell’antifascismo per contraddire quel mai), è altresì vero che di norma vige “un equilibrio sempre aperto, nel quale è stato a lungo preminente il ruolo delle forze intermedie, laico-socialiste”, e non solo di questo tipo (il cattolicesimo ambrosiano ha avuto espressioni “intermedie” non irrilevanti). Ma non è senz’altro o del tutto convincente che, pur avendo Milano “una politica locale” capace di “un’azione amministrativa equilibrata ed efficiente”, qui “la politica si ferma a questo livello”.

D’altro canto, se è vero che dalla “struttura policentrica e differenziata” della città ha potuto manifestarsi “dal punto di vista sociale” sostiene opportunamente Terzi richiamando l’esempio relativamente recente del populismo “una funzione anticipatrice di Milano che prepara il cammino per l’intera società nazionale”, non è altrettanto vero che la “città” abbia in tal modo esaurito il proprio ruolo senza mai assumere quello di “guida nazionale sul piano strettamente politico”.

Stiamo ai fatti. Se si guarda all’intero arco della storia unitaria e se ne considera la sua prima metà, quella del Regno, si potranno notare almeno tre eventi nei quali Milano ha giocato un ruolo nazionale, politico e di governo determinante.

Il passaggio del governo dalla Destra storica alla Sinistra storica (1876) ebbe come protagonista un pavese, Agostino Depretis. Ma chi permise e costruì l’operazione fu un “milanese”, Cesare Correnti, uomo dalla sorte politica travagliata, e tuttavia esponente, soprattutto in quel momento, di istanze e ceti politici e sociali non proprio secondari. Dall’altra parte, i governi della Sinistra storica che da allora si susseguirono, se non corrisposero alle speranze suscitate e, viceversa, provocarono non piccoli guasti e guai, un importante merito lo ebbero: costituirono l’humus politico su cui germogliò lo sviluppo economico-sociale di fine ottocento e di inizio novecento.

Questo sviluppo, a sua volta, rappresentò la base materiale su cui il socialismo maturò in movimento sociale e politico, superando la condizione dicotomica fatta, da un lato, di aspirazioni e di ribellioni delle “plebi” e, dall’altro, di elaborazioni di intellettuali. E tale maturazione sociale e politica ebbe il suo epicentro – ecco il secondo evento da rilevare – proprio a Milano.

Al terzo evento abbiamo già accennato. Il fascismo, che pure ebbe vari punti di origine, si formò come realtà politica a Milano. Lo testimonia il fatto, tra gli altri, che la gestazione del Partito Nazionale Fascista – cioè il fascismo come formazione politica atta a conquistare il potere nazionale e a divenire non solo forza egemonica ma dittatura e, poi, totalitarismo – si compì nella “Capitale del Nord” in tempi rapidi e con l’apporto decisivo di una parte, quantomeno, della borghesia.

Ma, si dirà, si tratta fin qui di eventi antichi. Ebbene, pur sfiorando l’albero della retorica del “vento del Nord”, è impossibile sopravvalutare il contributo di Milano a fenomeni politici nazionali quali la Liberazione, la Repubblica e la Costituzione. Si potrebbe, inoltre, obiettare che la incapacità o la difficoltà a svolgere un ruolo politico nazionale sono state evidenti per un settore della sinistra e, in particolare, per il Partito comunista. In effetti, il Pci a Milano è stato per periodi non brevi influenzato da “operaismo”e “radicalismo” e fino agli anni ’70 è stato elettoralmente minoranza anche nei confronti delle altre forze che si richiamavano, in un modo o nell’altro, al socialismo. Il capovolgimento dei rapporti di forze avverrà solo nel 1972. Ciò ci fa dire che l’assunto circa la sua richiamata incapacità contiene una dose di verità. Ma non è tutta la verità. Ragionando della questione, veniamo allora al secondo tema di cui voglio discutere.

2) Nel 1975 si formò a Milano una giunta comunale di sinistra. Il ricordo che io ho delle posizioni e delle dinamiche, nazionale e locali, che precedettero, accompagnarono e portarono a quel risultato è in parte diverso da quello di Terzi. Brevemente: a livello nazionale non si espresse – nella dirigenza e nella segreteria comunista – solo la posizione secondo la quale “il Pci avrebbe dovuto, tutt’al più, accontentarsi di “un appoggio esterno”, secondo gli schemi previsti dalla politica di solidarietà democratica. Né, per altro verso, la soluzione trovata a Milano venne considerata a Roma -che io ricordi- come il frutto di un atto di disobbedienza dei comunisti milanesi rispetto a una precisa e  univoca indicazione nazionale. Se così si fosse giudicato, proprio la tradizione e la realtà della “della rigida disciplina centralizzata”presente nel Pci avrebbero potuto imprimere un altro corso agli avvenimenti. Ma lasciamo da parte i ricordi e stiamo, anche in questo caso, ai fatti. Primo. La giunta di sinistra, si basò, ovviamente, su comunisti e socialisti. Tuttavia, essa ebbe l’apporto-apporto determinante- di quattro consiglieri appena eletti da partiti di opposizione (due del Psdi e due della Dc), i quali per di più furono immediatamente nominati assessori. Secondo. Questo  sbocco non fu progettato dall’inizio. Subito dopo l’indubbio successo elettorale (il Pci risultò il primo partito con oltre il trenta per cento dei voti nella storia della città) si lavorò, sia in sede locale che nazionale, per una giunta di sinistra formata da socialisti e comunisti con l’astensione dei socialdemocratici che, in un secondo tempo, avrebbero garantito l’appoggio e sarebbero entrati nel governo della città. Questo lavoro produsse un accordo di massima, il quale però non si trasformò in patto siglato per varie ragioni e convenienze che non è qui il caso di esaminare. Piuttosto, è il caso di compiere un esame su un piano più strettamente politico per mettere in luce difficoltà e successi, ambiguità ed errori. Negli anni che precedettero le elezioni amministrative e la formazione della giunta di sinistra, vale a dire tra il ‘68-‘69 e il ’75, la città visse tra due dinamiche: da un lato, l’acuirsi delle tensioni sociali, il manifestarsi di estremismi, spesso opposti, di destra e di sinistra, l’imporsi della cosiddetta strategia della tensione con il suo corredo di bombe e di vittime, la ricerca della distensione, l’affermarsi della cosiddetta controffensiva democratica. Tale “controffensiva”, che si oppone appunto alla “strategia” della tensione, si basò su una consapevole azione unitaria dei comunisti milanesi volta a collegare forze sociali e politiche progressiste con forze sociali e politiche moderato-conservatrici per impedire l’unificazione di queste ultime con strati conservatori-reazionari. L’azione e la controffensiva ebbero sostanzialmente successo (ecco un altro caso in cui Milano svolse un ruolo politico nazionale!) e determinarono, via via, vari consensi al Pci e alla sinistra. Quando poi, nel congresso dei comunisti milanesi che si tenne pochi mesi prima delle elezioni del ’75, si trattò sia di dare una valutazione del cammino percorso, della situazione creatasi, sia di indicare una prospettiva politica accanto alla esposizione di molte considerazioni interessanti, si sintetizzò il tutto nella parola d’ordine: i comunisti al governo di Milano assieme a tutte le altre forze democratiche. Lo slogan, di cui mi assumo paternità e responsabilità perché a quel Congresso fui relatore, scimmiottava, almeno in parte, quello nazionale del “compromesso storico”, e, comunque, come questo, conteneva una ambiguità. Confondeva cioè due piani che non dovevano essere confusi: quello della difesa e dello sviluppo della democrazia e quello della costruzione e della partecipazione a una politica di governo con le relative, specifiche alleanze. Non confondere i due piani, e anzi, tenerli rigorosamente distinti, non era affatto facile data la concreta situazione sociale e politica del Paese. Ma andava senz’altro fatto. Paradossalmente, i modi con cui fu costruita la giunta di sinistra al Comune di Milano (la soluzione per la giunta provinciale fu qualitativamente diversa) non favorirono la suddetta distinzione perché crearono varie difficoltà alle forze democratico-moderate, diedero  viceversa fiato a quelle conservatrici a loro avverse (il successo personale di esponenti della “maggioranza silenziosa” nelle  elezioni del 1976 ne fu una spia), resero più arduo il rapporto di alleanza indispensabile sul piano “democratico”, e d’altro canto non “protessero” politicamente l’azione e il governo locali. Questi rappresentarono nella storia di Milano un indubbio successo grazie all’impegno innanzitutto amministrativo dei comunisti e dei socialisti, ma non garantirono alla città quel ruolo più generale e nazionale avuto in altre occasioni. Terzi ha ragione quando sostiene che allora e nei periodi immediatamente successivi è necessario ricercare le cause prime delle difficoltà e, poi, della caduta della sinistra e della stessa città (non solo, se si considerano le vicende nazionali) ma queste cause hanno un’origine nella linea e nei comportamenti politici.

E oggi? Terzi sostiene che “la forbice tra politica e società non è stata superata se non in apparenza”, aggiungendo che Berlusconi non è il portatore di una nuova sintesi politica, ma “è solo l’esposizione di spoliticizzazione (il corsivo è mio ndr) e di una crescente frammentazione sociale”. Coerentemente, forse, con la sua idea dell’incapacità di Milano di svolgere una funzione di guida -o comunque politica – più generale, Terzi sottolinea che “l’antipolitica è … la palla al piede di cui Milano deve riuscire a liberarsi”. Mi chiedo, però, se queste considerazioni non siano frutto di un equivoco, cioè di una concezione secondo cui la politica è sì “capacità di ‘fare sistema’, di intrecciare le competenze, gli interessi, le particolarità”, unendo però tout court, immediatamente, tutte le componenti e le forze della società. Ma la politica non è questo (o, se si vuole fare una concessione alle visioni integralistiche, non è soltanto questo). La politica è (o è anche) capacità di organizzare il consenso di una parte, possibilmente maggioritaria, della società per riuscire a guidare o a governare la società intera. Quando Berlusconi apparve sulla scena politica ( (la famosa “discesa in campo” preceduta a Milano dall’appoggio da lui fornito a “mani pulite” e alla candidatura a sindaco dell’allora leghista Formentini), furono in molti a pensare, e a dire, che il fenomeno non era politico. E se un simile giudizio poteva avere qualche giustificazione nella prima fase dell’azione politica di Berlusconi, in questa seconda fase, dopo la capacità dimostrata da Berlusconi di organizzare consenso, costruire alleanze e sconfiggere, magari non definitivamente, avversari interni ed esterni, non ne ha più. Naturalmente, tale capacità è complementare alla incapacità dell’avversario di sinistra o di centrosinistra. Ma questo è un altro discorso, che però non intacca la natura politica del fenomeno Berlusconi e del cosiddetto berlusconismo. Terzi ha ragione quando sottolinea che la “riflessione sugli anni ’80 (e noi aggiungiamo anche i 70, ndr), sui limiti e i fallimenti di quella stagione politica” può aiutare, Ma aiuta se non si dimentica di mettere quella riflessione in relazione con l’analisi, finora altrettanto carente, di Berlusconi come fenomeno politico, senza farsi fuorviare dalla (debolissima) categoria dell’antipolitica.

Gianni Cervetti, Milano da bereultima modifica: 2010-05-13T15:13:59+02:00da mangano1
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