Maria Teresa Carbone,Questioni DI GUSTO

da IL MANIFESTO

 

Maria Teresa Carbone
NEL CIBO UN CATALIZZATORE DELLE TRASFORMAZIONI SOCIALI
Questioni DI GUSTO

3. CIBO E STORIA jpeg.jpeg

 

Due saggi recenti, «Storia del cibo» di Felipe Fernández-Armesto e «Una storia commestibile dell’umanità» di Tom Standage, mostrano come l’alimentazione, riflettendo la mutevole identità della specie umana, vada studiata secondo una prospettiva globale
Siamo così abituati a far coincidere le nostre vicende di esseri umani con i cinquemila anni in cui abbiamo preso l’abitudine – neanche tutti, per la verità – di leggere e di scrivere, che spesso ci dimentichiamo di avere alle spalle una storia ben più lunga, fatta di incontri, viaggi e scoperte, di sofferenze e gioie, e naturalmente di cibo. Cibo conquistato a fatica per migliaia di secoli; cibo diventato tappa dopo tappa, dal controllo del fuoco alla «rivoluzione» della pastorizia e dell’agricoltura, sempre più simile a quello che conosciamo, e mangiamo; cibo per il quale si sono combattute guerre e si sono strette alleanze. Ricostruiscono questi passaggi, e quelli successivi, più vicini a noi, due libri affascinanti, usciti contemporaneamente, Una storia commestibile dell’umanità di Tom Standage (Codice) e Storia del cibo di Felipe Fernández-Armesto (Bruno Mondadori). Autori diversi tra loro, il primo giornalista all’«Economist», indagatore curioso del passato umano (un suo precedente libro, uscito anch’esso da Codice, si intitolava Una storia del mondo in sei bicchieri), storico il secondo, docente alla statunitense Tufts University e al Queen Mary College di Londra, studioso delle esplorazioni geografiche tra preistoria e evo moderno – ma mossi entrambi dal desiderio di «adottare una prospettiva autenticamente globale e considerare la storia del cibo come tema della storia universale, inseparabile dalle altre interazioni degli esseri umani tra loro e con il resto della natura» (Fernández-Armesto), di guardare al cibo come a «un catalizzatore della trasformazione sociale, dell’organizzazione della società, della competizione geopolitica, dello sviluppo industriale, del conflitto militare e dell’espansione economica» (Standage).
Gli esempi di quanto sia stata centrale l’alimentazione nell’evolversi della specie Homo sono così numerosi e precisi da costringerci a ripensare alla nostra storia, anche recente, da una prospettiva che conferma la labilità dei confini tra «natura» e «cultura». E non a caso i due libri si chiudono con un tentativo di capire «quello che verrà»: più duro Fernández-Armesto, sicuro che «abbiamo trasformato troppa parte del pianeta in troppo cibo, sprecando le risorse e minacciando l’esistenza delle specie», più possibilista Standage, secondo il quale «è troppo semplicistico suggerire che il mondo deve scegliere tra il fondamentalismo organico da una parte e la fede cieca nella biotecnologia dall’altra». Anche se è poi Standage a notare come lo Svalbard Global Seed Vault, la «banca dei semi» allestita sull’isola norvegese di Spitsbergen, abbia «uno scopo che riecheggia il Neolitico: tenere i semi al sicuro».
Che l’animale Homo continui, a modo suo, a essere affascinato dal cibo, oltre che come fonte di vita, come riflesso della sua mutevole identità, spiega anche il duraturo successo dei ricettari: i libri di cucina parlano infatti della vita, intesa come elementare sopravvivenza e come amorosa cura di sé e degli altri. E parlano, anche, del nostro passato, inserendoci in un flusso di continuità e dunque di speranza, perché, un po’ come le fiabe, quasi mai le ricette nascono da una «invenzione» ma sono l’ultimo (per ora) anello di una lunga catena di varianti. Su questi elementi fanno leva i libri di cucina, vuoi con immagini sapienti che attivano meccanismi complessi nel nostro cervello goloso, per citare il titolo di un bel saggio di André Holley (Bollati Boringhieri), vuoi con testi evocativi. «La domenica, oltre al brodo, mia madre faceva avanzare volentieri una tazza abbondante di ragù con la quale ci rincuorava il lunedì sera a cena…»: così Mario Picchi, fondatore del fiorentino ristorante Cibrèo, in Senza vizi e senza sprechi (Mondadori) ricorda i gusti della sua infanzia con toni vagamente proustiani – e Proust era un neuroscienziato si intitola il saggio di Jonas Lehrer (Codice), in cui si argomenta come lo scrittore, esplorando il rapporto tra memoria e sapori, abbia anticipato molte scoperte degli ultimi anni.
Se saggi e romanzi compiono spesso incursioni in cucina, dai ricettari si può imparare la storia, la geografia, la letteratura: così, giusto per citare qualche esempio, Rivoluzione in cucina. A tavola con Stalin, a cura di Ljiljana Avirovic (Excelsior 1881) e La cucina totalitaria di Wladimir Kaminer (Guanda) ricostruiscono l’atmosfera dell’epoca sovietica tra ristrettezze e grandeur meglio di molti saggi; La cucina d’Armenia di Sonya Orfalian (Ponte alle Grazie) è un piccolo trattato sulle tradizioni di un paese antico e tormentato, conservate con tenacia anche lontano dalla terra di origine; e, per venire più vicino a noi, Cuore di Sicilia di Anna Tasca Lanza (Guido Tommasi) può diventare, letto in parallelo con il Gattopardo, una chiave per accostarsi alla cucina dei monzù, i cuochi che per secoli hanno lavorato per le grandi famiglie siciliane, e per capire da dentro la mentalità di una regione troppo legata a un’immagine stereotipata. Singolare e inatteso, infine, a proposito di letture parallele, è Leopardi a tavola di Domenico Pasquariello e Antonio Tubelli (Fausto Lupetti Editore) i quali, partendo da un cartiglio conservato alla Biblioteca nazionale di Napoli su cui il poeta elencò i suoi 49 piatti preferiti, propongono una passeggiata nell’Ottocento letterario partenopeo.
Del resto, i libri di cucina, come tutti i buoni libri, hanno il pregio di prestarsi a continui rimandi: guardando il ricettario di Picchi, il cui sottotitolo recita La virtù in cucina e la passione degli avanzi, o l’altrettanto recente Avanzi popolo di Letizia Nucciotti (Stampa alternativa), è difficile non pensare a un libro che ha circa un secolo, L’Arte di utilizzare gli avanzi della mensa, opera postuma (uscì nel 1918) del poeta Olindo Guerrini, che si firmò qui Lorenzo Stecchetti per alludere al suo magro stipendio di bibliotecario dell’università di Bologna – un ricettario che a sua volta dialoga, in parte parodizzandolo, con un testo classico coevo, La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene di Pellegrino Artusi (Vallardi ha riproposto l’anno scorso la ristampa anastatica dell’originale del 1907). Chi trovasse azzardata la parola «classico» per un libro di gastronomia, dovrebbe ricredersi sfogliando L’arte della cucina francese nel XIX secolo di Marie-Antoine Carême (Mattioli 1885), monumento alla haute cuisine il cui autore fu cuoco di Talleyrand, di Napoleone, dello zar Alessandro I. E ancora di «alta cucina» tratta Eugénie Brazier e le altre, di Alessandra Meldolesi (Le Lettere), la cui introduzione riporta, tra i testi in esergo, un brano di Nietzsche da Al di là del bene e del male: «La stupidità in cucina; la donna cuoca; la terribile sbadataggine con la quale si provvede al nutrimento della famiglia e del padrone di casa! La donna non capisce cosa significhino i cibi e vuole essere cuoca!». Citazione ironica, visto che il volume rivisita l’opera di alcune «grandi madri» della cucina francese, a partire dalla «santa dei gastronomi», Eugénie Brazier. A dimostrazione che, quando si parla di cibo, ogni iperbole rischia di naufragare nel ridicolo – forse perché il gusto si evolve, e lo testimoniano i «piatti di cucina meticcia» raccolti in Ricette scorrette da Andrea Perin tra una trentina di immigrati in Italia (Elèuthera), forse perché, come scrive Sapo Matteucci nel suo bel «prontuario di cucina quotidiana» q.b. La cucina quanto basta (Laterza) «ai fornelli non si può essere mai sicuri di sé fino in fondo». Gli fa eco Paola Mazzarelli introducendo Banco n. 2, che porta la firma di Beppe Gallina, «storico» venditore di pesce al torinese mercato di Porta Palazzo (Edizioni Blu): «Quanto ai consigli e alle ricette, qualcuno troverà che manca questo e quello. In tutti i libri manca qualcosa. In compenso però, c’è sempre qualcosa che non vi aspettavate di trovarci». È il bello dei libri, e della cucina.

Maria Teresa Carbone,Questioni DI GUSTOultima modifica: 2010-05-25T14:32:27+02:00da mangano1
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