Giuseppe Muraca, Intervista a Carmine Abate

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Intervista a Carmine Abate: a cura di Giuseppe Muraca

Lo scrittore Carmine Abate è nato nel 1954 a Carfizzi, un piccolo paese di origine albanese in provincia di Crotone. Dopo lunghi periodi trascorsi in varie località del nostro Paese e in Germania, nel 1993 si è stabilito a Besenello, in provincia di Trento, dove insegna Lettere nella Scuola Media. Ha esordito a 23 anni con la raccolta di poesie dal titolo Nel labirinto della vita (Roma, 1977); sono poi uscite altre due sillogi (Dimore e Di Noi) confluite con altre liriche nel volume Terre di Andata (Lecce, Argo, 1996). Nel 1984 ha pubblicato in tedesco, introdotto da Norbert Elias, I germanesi (Francoforte, Campus Verlag), un’indagine sociologica sugli emigrati italiani in Germania condotta insieme alla studiosa tedesca Meike Behrmann. Sullo stesso tema ricordiamo la raccolta di racconti Il muro dei muri (Lecce, Argo, 1993), tradotto in tedesco. Con Il ballo tondo (Casale Monferrato, Marietti, 1991, nuova edizione riveduta, Roma, Fazi, 2000) e La moto di Scanderbeg (Roma, Fazi, 1999), tradotti in varie lingue, si è imposto come uno dei più importanti scrittori italiani dell’ultimo decennio.

Il primo romanzo è una storia corale in cui le vicende tormentate della famiglia di Costantino Avati s’intrecciano con quelle dell’intera comunità di Hora, un paesino immaginario di origine albanese situato nell’alto crotonese e segnato dalla miseria e dall’emigrazione. La narrazione è molto avvincente, sospesa tra il mito e la realtà, fra il passato e il presente, con singolari personaggi che sono immersi in un alone quasi leggendario. Sullo sfondo si staglia la figura eroica di Scanderberg, il grande condottiero albanese del “Tempo grande” che agli inizi del quattrocento difese l’Arberia dai ripetuti assalti dei Turchi. Questo passato glorioso e i valori tradizionali vengono rievocati e sentiti con un velo di nostalgia e di rimpianto ma anche con orgoglio, però senza alcuna retorica, cioè senza perdere di vista la realtà concreta (e se si tiene conto che la maggior parte degli scrittori italiani contemporanei costruisce le sue opere a tavolino questo dato assume un significato davvero particolare). Abate è uno scrittore cosmopolita: egli segue le vicende dei suoi personaggi dagli anni cinquanta agli settanta, cioè lungo un ventennio che segna il superamento della civiltà contadina, inserendole però in un contesto europeo e universale. Nel tessuto stilistico del libro egli è riuscito a fondere con rara armonia le diverse lingue della sua formazione culturale: l’arberesch dei suoi antenati, il dialetto calabrese della sua zona, l’italiano imparato a scuola e il tedesco assimilato nei lunghi periodi di emigrazione in Germania. Il romanzo è infatti disseminato di citazioni, di proverbi, di canti arbereshe, che rende la narrazione, dall’andamento ora allegro e ora malinconico, molto suggestiva e avvincente.

La moto di Scanderberg è invece un romanzo di formazione che ruota intorno alla figura tormentata e contraddittoria di Giovanni Alessi, un intellettuale sradicato di origine arberesh, alla continua ricerca della propria identità e diviso fra l’amore per la bella Giulia Camarda, che vive in una città tedesca, e il richiamo e il rimpianto delle proprie radici e della propria terra d’origine. Sullo sfondo c’è sempre il mito di Scanderberg che rivive nella figura quasi leggendaria del padre di Giovanni, uomo forte, generoso e ribelle che nell’immediato dopoguerra si pone alla testa dei contadini nella lotta per la giustizia sociale, correndo da un capo all’altro del marchesato sulla sua rombante Guzzi Dondolino. Dopo la morte di Scanderberg, che cade da una rupe per una stupida scommessa, la moto passa in eredità al figlio Giovanni rappresentando di fatto l’anello che lo collega strettamente alla memoria del padre e al proprio passato. La “storia” viene raccontata da diverse “voci” narranti: a pagine scritte in prima persona e di carattere diaristico, vengono infatti intercalate pagine scritte in terza persona o addirittura da un “noi” che corrisponde al gruppo degli amici di Giovanni. Quindi nel romanzo sono stati assemblati testi di diversa natura e ispirazione, ma che formano un mosaico armonico e pressocché perfetto, in cui passi di intenso e struggente lirismo s’intrecciano con passi di ispirazione autobiografica o di indagine sociale e antropologica. Impegno etico e politico e scavo interiore vengono così fusi in un’opera di alta resa stilistica e di rara efficacia letteraria.

I due romanzi sono strettamente legati fra loro e quindi devono essere considerati un dittico, la cui importanza non dipende soltanto dalla loro pregnanza e dal loro valore letterario ma anche dal fatto che essi ci presentano un affresco abbastanza sincero, fedele e veritiero del mondo contadino e popolare del nostro mezzogiorno, le cui coralità e freschezza inventiva e rappresentativa ci ricordano I Malavoglia e alcune novelle di Giovanni Verga e, più di recente, Fontamara di Silone e Cristo si è fermato ad Eboli di Carlo Levi.        

1. Nella tua carriera letteraria sei passato attraverso diverse fasi ed esperienze: la poesia, l’inchiesta di carattere antropo-sociologico, il racconto e, infine, il romanzo… Mi puoi dire perché?
Il primo testo che ho scritto è stato un racconto lungo, a sedici anni. Poi ho scritto poesie e racconti, soprattutto quando vivevo in Germania perché mi sembrava che fossero le forme letterarie che meglio si prestassero a rappresentare il mondo composito dell’emigrazione, le sue mille storie. L’indagine socio-antropologica sull’emigrazione e sul mio paese d’origine è invece stata fondamentale per acquisire uno sguardo più distaccato e consapevole verso, anzi dentro,  tematiche su cui spesso si scrive in maniera retorica o piagnucolosa. Senza la ricerca sui germanesi, che mi ha consentito di conoscere la storia di Carfizzi, probabilmente non avrei mai scritto Il ballo tondo…
2. Com’è nata l’idea di scrivere Il ballo tondo?
E’ nata, come nascono tutti i miei libri, da un’immagine che mi ha inseguito per anni come se l’avessi realmente vissuta chissà quando e dovessi per forza raccontarla: un nonno e un nipote che vanno alla fiera della Marina. Durante il viaggio il bambino comincia a scoprire le radici mitiche del suo mondo attraverso le storie che gli racconta il nonno. Solo dopo ho avuto la consapevolezza che avevo scritto e pubblicato a livello nazionale il primo romanzo sugli arbëreshë e non potevo, non dovevo smettere…
3. Ne La moto di Scanderberg tu segui le diverse fasi della formazione di un intellettuale calabrese alla ricerca della propria identità, dal periodo dell’occupazione delle terre nell’immediato dopoguerra agli anni ottanta. Quanto di autobiografico c’è in questo tuo secondo romanzo?
Di autobiografico c’è il percorso del protagonista –  e di molti giovani della mia generazione –  costretti a lasciare la propria terra e andare a lavorare al Nord. Per il resto, io non scrivo romanzi autobiografici, anche se devo ammettere che qualche esperienza personale s’impiglia sempre nella pagina, mio malgrado.
4. Perché il problema delle radici e delle origini riveste così tanta importanza nella tua opera letteraria?
Beh, non potrebbe essere diversamente per uno scrittore come me, appartenente a una comunità trapiantata in Calabria cinque secoli fa e costretta, nel corso del Novecento e anche oggi, a ritrapiantarsi altrove. Io stesso ho avuto un nonno “mericano”, un padre germanese e poi è toccato a me… Devo dire però che col tempo tutto questo non l’ho vissuto come un dramma o come un’umiliazione, ma come una ricchezza: accanto alle mie radici originarie, irrinunciabili, ne ho visto crescere delle altre; attorno e dentro le antiche e nuove radici ho scoperto delle storie che mi affascinano e che cerco di trasmettere ai miei lettori…
5. Credo che il principale fattore che ti distingue dagli altri scrittori italiani della tua generazione sia il fatto che tu sei uno scrittore ben radicato nella realtà della nostra regione e, al tempo stesso, uno scrittore europeo, un dato che si riflette anche sul plurilinguismo delle tue narrazioni…
Ecco: il plurilinguismo delle mie storie è una delle ricchezze di cui ti accennavo. Io narro storie di luoghi e personaggi attraversati, in modo consapevole e non, dal plurilinguismo: il paese di Hora dei miei romanzi o i germanesi nella città di Amburgo dei racconti. Cioè narro dei microcosmi europei poco scandagliati e plurilinguistici, come già è e sarà sempre di più l’Europa del futuro. Forse per questo i miei libri vengono apprezzati anche in altri Paesi.
6. Diversi lettori hanno intravisto nella tua narrativa l’influenza di Garcia Marquez e di altri scrittori latino-americani; ma è proprio vero?

Più che di influenza si è parlato del cosiddetto “realismo magico” che mi accomunerebbe agli scrittori latino-americani. Questo paragone nasce dal fatto che anche nei miei libri vengono narrate delle storie in qualche modo magiche e fantastiche. Ma il motivo di fondo ha poco a che fare con Marquez: questi elementi magici e fantastici fanno parte del mondo che narro. Io non faccio altro che attingerne a piene mani. Del resto, quando ho scritto Il ballo tondo, Marquez non l’avevo ancora letto.

7. Un problema che tu poni con tanta insistenza è quello della tua diversità ed estraneità rispetto ai vari contesti socio-culturali. Perché?
Vorrei precisare: non della mia diversità ed estraneità, ma di quella dei miei personaggi. Ed è un problema che volente o nolente si presenta quando si narrano storie di minoranze. Una scintilla da cui scaturiscono contraddizioni, sofferenze, conflitti, ma anche amori tenaci tra due persone, tra due e più culture. Voglio dire: questo problema è a volte il punto di partenza di un personaggio e di una storia, che poi si sviluppano in maniera imprevedibile, come vogliono loro; raramente come mi sono sviluppato io.
8. Secondo te, esiste veramente una questione arbëreshe? E che cosa pensi dell’attuale condizione delle minoranze etnico-linguistiche meridionali e calabresi?
Se esiste una questione arbëreshe, essa è inglobata nella più ampia questione meridionale, sia sul piano economico e sociale, sia su quello politico. Non possiamo fare, oggi, il discorso della minoranza “pura”, sarebbe anacronistico e improduttivo, ridicolo. La nostra storia è ormai da secoli intrecciata con quella meridionale, come anch’io ho spesso raccontato nei miei romanzi (occupazione delle terre, emigrazione, disoccupazione…). Resta però la peculiarità linguistica e in parte culturale: questa non la si può e non la si deve negare. E mi pare che gli arbëreshë siano consapevoli di tutto questo. Recentemente ho fatto un viaggio tra i paesi arbereshe della Calabria per conto di RAI3 e ho trovato, oltre che una maggiore presa di coscienza della gente, una grande vitalità culturale che fa ben sperare per il futuro, soprattutto se la nuova legge di tutela delle minoranze verrà applicata veramente e seguendo il buon senso.
9. So che stai scrivendo un nuovo romanzo. Ci vuoi anticipare qualcosa?

Beh, a dire il vero il romanzo l’ho già finito da un anno e mezzo. In questo periodo lo sto rivedendo. Non parlo mai di un romanzo prima che venga pubblicato, soprattutto perché rischierei di contraddirmi: tra la prima e l’ultima stesura a volte rimane appena un terzo della storia, per non parlare dei tagli consistenti e delle trasformazioni che subisce la lingua. Posso solo dire che è ancora ambientato in Calabria ma no

Giuseppe Muraca, Intervista a Carmine Abateultima modifica: 2010-05-27T14:09:17+02:00da mangano1
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