M.Cabona, Quell’Italia del ’45 che va in prima serata

Quell’Italia del ’45 che va in prima serata
di Maurizio Cabona – 30/05/2010

Fonte: secolo d’italia

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Domani e dopodomani, Osvaldo Valenti e Luisa Ferida rivivranno in Luca Zingaretti e Monica Bellucci su Raiuno (ore 21) in Sanguepazzo di Marco Tullio Giordana, film-tv in due parti che – presentato al Festival di Cannes del 2008 – reintegrò più o meno volontariamente i due divi italiani degli anni Trenta-Quaranta nella storia del cinema mondiale. Si noti che ciò avvenne per il solo merito di un regista proveniente dall’ultrasinistra, quindi antifascista (è lo stesso di due film come Maledetti vi amerò e La meglio gioventù), impostosi proprio a Cannes in un precedente Festival) e del suo direttore, Thierry Frémaux: lo stesso che è stato definito “comunista” per avere accolto Draquila e La nostra vita nell’ultimo Festival… Basterebbe questo dettaglio, se lo si conoscesse, a far riflettere sui percorsi reali dell’egemonia e della memoria storica in Italia. Ma torniamo a Sanguepazzo: essere un film importante per la storia d’Italia non lo rende comunque un gran film. Se va visto, o rivisto in tv, è solo per i destini che racconta. Pazienza se immagina la Milano dell’aprile del ’45 come fosse stata una città divisa in due zone: qui fascisti, lì partigiani. Pazienza se inserisce come comprimario della storia di Valenti e della Ferida un immaginario alter ego di Visconti (il gayo e smunto Golfiero di Alessio Boni), che con loro non ebbe proprio a che fare..

Giordana scrisse Sanguepazzo trent’anni fa, subito dopo l’analogo (e più riuscito) Notti e nebbie, tratto dal bel romanzo di Carlo Castellaneta (Rizzoli), storia di un commissario (Umberto Orsini) della squadra politica di Milano durante le Repubblica Sociale. E Giordana scrisse quella sceneggiatura con Enzo Ungari, che nel frattempo è morto. Che ci sia voluto tanto tempo per realizzare Sanguepazzo, che a produrlo sia stato Angelo Barbagallo, il produttore di Nanni Moretti, spiega i limiti di una memoria che tende a rispecchiarsi solo nelle ricostruzioni altrui. E ne deriva la nota schizofrenia. Comunque la Repubblica italiana concesse già mezzo secolo fa la pensione per le vittime di guerra alla madre di Luisa Ferida, escludendo ipso facto che l’attrice fosse responsabile di ciò di cui la accusarono i partigiani socialisti che l’uccisero con Valenti. Fu un delitto fra i tantissimi dell’epurazione selvaggia, che allora passò quasi inosservato. Ma i due cadaveri furono visti all’obitorio di Milano il 1 maggio 1945 da un capitano del Regio Esercito, appena giuntovi con un reparto americano. Dal novembre 1942 al settembre 1943 quell’ufficiale aveva comandato le isole di Lérins, proprio davanti a Cannes, e si chiamava Gualtiero Jacopetti. «Lei – mi raccontò il regista di Mondo cane e Africa addio – giaceva con una scarpa infilata per sfregio nel sesso, lui aveva un occhio uscito dall’orbita, che gli era stato posato sulla fronte»… Dalla “giustizia partigiana” Valenti e la Ferida erano stati condannati a morte per aver torturato prigionieri a Villa Triste (fra loro ci fu anche l’architetto Giuseppe Pagano, già fascista, poi deportato in Germania). L’accusa parve dubbia fin da allora e il film di Giordana la nega, come del resto il saggio di Odoardo Reggiani, Luisa Ferida e Osvaldo Valenti (con la notevole prefazione di Paolo Pillitteri), l’aveva già demolita. Ma quanti oggi leggono un libro su due attori di settant’anni fa, per giunta ammazzati e non “oscarizzati”? Dunque per la riabilitazione ci voleva forse un grosso film e che questo film passasse in tv in prima serata su una rete importante.

Sanguepazzo è un titolo che allode a un altro titolo, quello del film che Valenti/Zingaretti avrebbe girato e avrebbe tenuto con sé fino all’assassinio. Intento: raccontare la miscela di “sangue e merda” della storia italiana. La principale qualità del Sanguepazzo di Giordana è la credibilità nel ruolo di Luca Zingaretti, all’ennesima interpretazione di fascista o neofascista (Mio fratello è figlio unico di Daniele Luchetti, che era un film a sfondo missino. Nel ruolo di Valenti, Zingaretti è un anti-fascista che diventa fascista per ripicca, quando i tanti che avevano ossequiato Mussolini erano passati a insultarlo. La Bellucci è una butirrosa Ferida, angosciata del ruolo politico assunto dall’amante, ma incapace di staccarsene.

Certo, ci sono imprecisioni e sviste in Sanguepazzo. E poi, messa lì per garantire l’uscita del film anche in Francia, la Bellucci ha, all’inizio della storia, vent’anni più del suo personaggio. E alla fine continua ad averne dieci di più. Per giunta lei e lui si conoscono a Cinecittà nel 1936, quando quei teatri di posa aprirono nel 1937. E la dichiarazione di guerra, viene indicata come avvenuta in estate, quando il 10 giugno 1940 era primavera. In ambito neofascista l’esistenza non proprio morigerata di Valenti e della Ferida fece arricciare più di un naso, specie femminile. I due erano dissoluti in un’Italia che il fascismo aveva ricondotto in un ambito angustamente moralista. I due furono insomma “fascisti per caso”. Fu Valenti a diventarlo quando quasi tutti gli altri italiani erano divenuti antifascisti. E, nel suo andare contro gli altri, non scelse una milizia di partito, ma la Decima Mas, un corpo scelto senza altra ideologia che la fedeltà all’alleato. Proprio questo spirito di contraddizione ha reso Valenti e a rimorchio la Ferida oggetto di varie evocazioni. La prima raffigurazione, molto infedele, di Valenti fu affidata a un attore che l’aveva conosciuto proprio nel periodo milanese del 1944-45: Vittorio Gassman, che trent’anni dopo lo interpretò in Telefoni bianchi di Dino Risi. Poi venne il film-tv Gioco perverso di Italo Moscati (1991), dove Valenti era Fabio Testi e Luisa Ferida era Ida Di Benedetto.

E qui non solo appariva in uno dei suoi primi ruoli Alessio Boni, ma esordiva anche Claudia Gerini. Sempre Moscati, inoltre, è stato il regista di un documentario per la tv, Passioni nere, dove appaiono il reale Valenti e la reale Ferida. Non ci sono in questi film grandi motivi di nostalgia. Chi ricorda i due attori non li ricorda quasi mai per i loro film (La cena delle beffe di Alessandro Blasetti, per esempio) ma li ricorda quasi sempre per la loro morte. Del resto chi leggerebbe una riga di Mishima o di Brasillach, se fossero morti di Aids? Così è logico, quanto amaro, che certi film e certi libri siano girati, siano scritti da chi è curioso di vita, non di (cause di) morte.

M.Cabona, Quell’Italia del ’45 che va in prima serataultima modifica: 2010-05-31T16:48:48+02:00da mangano1
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