Nadia Urbinati, Post-it

POST-IT

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• da la Repubblica del 24 giugno 2010

di Nadia Urbinati

La battaglia politica per la difesa di una libertà civile fondamentale come quella di informazione si fisserà molto probabilmente nella memoria collettiva come la battaglia dei post-it: i foglietti adesivi gialli sono diventati il simbolo del movimento che si oppone alla legge-bavaglio. Compaiono nelle foto che i cittadini inviano per protesta nel web, gialli sono i cartelli quando si scende in piazza, anche Repubblica li ha fatti suoi, affiancandoli agli articoli sulle intercettazioni, e mettendone uno al centro della famosa prima pagina bianca che ha fatto il giro dei media mondiali. E’ straordinario come un semplice oggetto di cartoleria, nato per prendere appunti veloci, contrassegnare la pagina di un libro, utilizzato come memorandum, sia diventato un emblema. Il movimento civile – anche usando questa bandiera improvvisata – ha messo in comunicazione gli attori politici dentro e fuori le istituzioni, ha creato una corrente circolare di idee con lo scopo di mandare in corto circuito i piani della maggioranza. Si tratta di un caso esemplare di come la partecipazione opera nella democrazia rappresentativa, dove l’opinione ha un potere di influenza che può condizionare la stessa volontà politica. E questo fatto irrita la maggioranza, che quando non riesce a far valere la forza del numero grida al complotto; ma si tratta di argomenti capziosi o sbagliati, frutto di
un’incomprensione basilare del fatto che la democrazia vive di due forze altrettanto legittime pur nella loro diversa funzione: la volontà e l’opinione. Il movimento dei post-it è un esempio da manuale della forza legittima contenuta nella manifestazione libera e civile dell’opinione politica.
Non è la prima volta che un movimento crea i suoi simboli, usando ad esempio dei colori (il “popolo viola”, o quello “arcobaleno” ai tempi dell’Iraq) e una gestualità, che dà identità visiva a idee e proposte capaci di unire immediatamente numerosi cittadini; che usa cioè strategie di attenzione rispetto a un problema che, diversamente, o non sarebbe visto o potrebbe sfuggire di mano al controllo democratico.
In Italia, una decina di anni fa abbiamo avuto il movimento dei girotondi che ha inaugurato una nuova forma di partecipazione esterna ai partiti. Gli Stati Uniti sono la patria dei movimenti one issue, nati cioè intorno ad un unico tema: sono stati fondamentali quelli per i diritti civili o contro la guerra in Vietnam. E forse lo sarà il movimento dei tea party messo in moto lo scorso anno da cittadini di fede repubblicana, ma non necessariamente arruolati nel Partito repubblicano, per protestare contro il progetto federale di riforma sanitaria rispolverando temi cari agli americani fin dalla loro battaglia per l’indipendenza (iniziata appunto a Boston con la rivolta contro le tasse imposte dall’Inghilterra ai coloni senza concedere loro il diritto di voto): centralità del governo locale, contenimento del carico fiscale, libertà individuale e difesa della costituzione. Anche in questo caso, il partito politico è stato tirato per la giacca da forme spontanee di azione promosse da associazioni di cittadini. “Fuori dai partiti” non vuol però necessariamente dire contro i partiti. Semmai, “fuori dai partiti” può tradursi, e spesso si traduce, in una sveglia salutare ai rappresentanti in Parlamento, in una fonte di energia e di attivismo che la routine istituzionale non è in grado di generare da sola. E poi, occorre tener presente che questi movimenti nascono per raggiungere
uno scopo specifico, e solo quello, laddove i partiti politici tradizionali sono invece (ed è preferibile che siano) generalisti. Ma non meno dei partiti politici, la politica a tema, come è quella degli adesivi gialli, è peculiare alle democrazie perché cresce in una s o cietà civile molto sviluppata, articolata, e libera nelle sue forme espressive, e che soprattutto non si cura solo degli interessi privati ma ha anche una diretta attenzione al bene pubblico (alle libertà costituzionali), dalla preservazione del quale, del resto, dipende la sua forza.
Molte volte i partiti dimostrano insofferenza verso queste forme spontanee della cittadinanza attiva. Ma i movimenti civili hanno raramente la pretesa di (e la forza organizzativa per) sostituirsi ai partiti. La loro presenza è comunque un fatto positivo. Soprattutto in un tempo,come questo, nel quale la lentezza dei partiti politici a collegarsi alla società è indicativa di una vera e propria difficoltà a svolgere un’opposizione efficace, che è tale se e quando non è limitata al Parlamento. Del resto, i partiti servono appunto a far sì che sia possibile attivare i cittadini e tradurre in linguaggio politico le loro opinioni. Ad
essi, diventati sfortunatamente “liquidi” e poveri di apparato organizzativo, si affiancano così, e sempre più spesso, forme di azione civile, che è una azione di sveglia o di allarme, di sfiducia costruttiva si potrebbe dire, che è efficace solo perché ha come referente necessario i partiti che siedono in Parlamento.
L’attivismo civile ha dunque un significato positivo importante: ha la stessa funzione di un tonico rispetto a una società che tende a diventare passiva e docile, ad abituarsi con facilità alla depoliticizzazione attivamente promossa da chi tiene le fila dell’opinione della maggioranza. Ma è positiva anche per un’altra ragione, forse ancora più interessante: perché mette in evidenza la ricchezza immaginativa della quale è capace la cittadinanza democratica, che raramente si arrende unanime ai desideri di chi vorrebbe domarne la natura critica e recalcitrante verso i bavagli, e che si inventa forme sempre nuove di presenza pubblica, per essere vista e sentita, per contare oltre e dopo la conta dei voti.

Nadia Urbinati, Post-itultima modifica: 2010-06-24T20:23:55+02:00da mangano1
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