Luca Doninelli, Le mosche del capitale

DA il giornale

 

doninelli .jpegLe mosche del capitale”: quando romanzo faceva rima con lavoro
di Luca Doninelli

Nel libro di Paolo Volponi, pubblicato nel 1989, l’industria era al centro della trama. Ora si scrive e si vive pigramente

Quando, ventun anni fa, uscì Le mosche del capitale di Paolo Volponi (oggi riproposto, con più di una ragione, da Einaudi) chi scrive era un giovane scrittore scalpitante per il prossimo esordio. Presuntuoso e smanioso quanto basta per essere infilato nel faldone dei Giovani Scrittori, anch’io mi godevo i miei astratti furori: ancora pochi mesi e la cultura, grazie anche a me, avrebbe cambiato faccia. C’era, nel 1989, un sentimento di storia che ricomincia, di Egloga IV, «et magni incipient procedere menses», di dissoluzione del vecchiume. Tra gli scrittori della vecchia generazione erano in pochi quelli che si salvavano da una sorta di febbre nichilista.

C’era però anche molta permanenza dell’antico. E non poteva essere altrimenti. C’era per esempio L’Unità che faceva da ponte tra le generazioni. I giovani scrittori di quell’area ideologica si interessarono ai vecchi della stessa area, anche se sovente i vecchi si sentivano ugualmente tagliati fuori, e forse volevano anche starsene fuori. La sinistra doveva modernizzarsi, ma per modernizzarsi era costretta a perdere dei pezzi per strada. Paolo Volponi fu uno di questi pezzi.
Pubblicato nel 1989, Le mosche del capitale è pieno di paure del 1989, di scricchiolii del 1989, di profezie del 1989, ma i suoi paesaggi, l’aria che vi si respira e soprattutto il pensiero – complesso e articolato – appartengono alla metà degli anni Settanta.

Il libro racconta, attraversando un gran numero di generi letterari come stratificazioni geologiche o qualcosa di simile, la vicenda di un qualunque Bruto Saraccini, uomo d’azienda geniale e dalle idee innovative, salito ai vertici dell’azienda fino al grado di amministratore delegato ma poi messo da parte in favore di un più grigio e ligio funzionario. Quasi tutto ambientato nel mondo dell’industria (si riconoscono distintamente la Olivetti, dove Volponi lavorò per molti anni, e la Fiat), il romanzo disegna un ritratto magistrale dell’industria e dei suoi giochi di potere come metafora, chiave di lettura dell’intero complesso della società industriale – o fordista, come si preferisce dire oggi.

Rileggendo questo grande libro, da me ignorato a quel tempo, provo vergogna per l’elementarità delle mie narrazioni di allora al confronto con tanta articolazione di pensiero (anche letterario) e di struttura. Mi colpisce però anche un’altra cosa: che, di fronte al nuovo che avanzava (nel 1989 si parlava molto di nuovo che avanza, e ci si credeva), uno scrittore sperimentale e quindi votato al nuovo come Paolo Volponi cercasse una chiave di lettura narrativa della complessità sociale guardando all’indietro, agli anni dello scontro frontale tra capitale e sindacalismo, tra padronato e proletariato, tra custodia dell’ordine e sovversione.

La metafora della fabbrica, con le sue trame e il suo istinto di conservazione capace di trasformare un manager innovatore (Saraccini) in un sospetto terrorista e un operaio in cerca di giustizia (Antonino Tecraso, protagonista-ombra del romanzo) in un sovversivo, ci presenta la società industriale all’inizio del suo sfacelo, quando il sogno di dare più ricchezza al mondo si trasforma in un labirinto in cui ciascuno combatte solo per sé stesso (sono loro, le mosche del capitale) e in cui l’uomo non conta più niente.

La dissoluzione del mondo industriale segnò la dissoluzione di due culture: quella politica, che vide a poco a poco spegnersi la fiducia nelle regole condivise ad opera dell’egoismo indiscriminato e dell’odio per qualsiasi portatore di una vera idea; e la cultura operaia, che aveva a molti intellettuali gli strumenti per la comprensione e l’analisi della società ma che finì abbandonata come un ferro vecchio senza essere sostituita da nulla. Infine, Volponi ci parla della crisi di un’epoca in cui comunismo e umanesimo avevano formulato un’idea della dignità del lavoro. Racconta il lavoro, ne evidenzia bellezza e contraddizione.

Ma la dissoluzione, che già si profila nelle pagine di Volponi, toglierà al lavoro ogni parola. Chi, oggi, in Italia, tra gli scrittori più quotati, sa ancora parlare di lavoro? Chi ha le categorie per affrontarne i nodi? Alla vecchia dottrina estetica marxiana del rispecchiamento si sono sostituiti l’affabulazione, l’intrattenimento e la ghettizzazione della letteratura nel pollaio dei divertimenti e del tempo libero. Si è sostituito un pensiero che pensa separatamente dal «fare», un pensiero del dopolavoro, sentimentale, senza strumenti davanti alla notte che avanza.

Luca Doninelli, Le mosche del capitaleultima modifica: 2010-07-06T17:35:19+02:00da mangano1
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Un pensiero su “Luca Doninelli, Le mosche del capitale

  1. Peccherei di presunzione se dicessi che io, da scrittore, voglio scrivere un libro “sul lavoro”. Perché io il lavoro di fabbrica o aziendale lo conosco per sentito dire, perché mio padre era un collaudatore della Fiat, perché tanti miei amici lavorano come operai nelle fabbriche o impiegati in qualche scadente azienda sull’orlo di una crisi di nervi e non solo. Da scrittore e musicista (ma la professione del musicista l’ho abbandonato mantenendo solo un personalissimo gruppo jazz) so parlare del mio mondo, ma stai sicuro che osservo, vedo, distinguo, ascolto le lamentele, individuo i soprusi. Devo pensarci… devo pensarci… e scriverò qualcosa dettata dalla fantasia e dall’esperienza. E comprerò il libro di Volponi. Ciao, Sergio

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