A.Mattioli, L’egemonia culturale del Gabibbo

da IL GIORNALE

/07/2010 – IL CASO
L’egemonia culturale del Gabibbo

6. GABIBBO jpeg.jpeg

Il gabibbo è intervenuto giovedì sul Riformista per attaccare Panarari

Un libro di Panarari elegge gli intellettuali di oggi: Signorini e De Filippi Ed è subito rissa
ALBERTO MATTIOLI

Al dibattito mancava solo il contributo dell’unico intellettuale rosso rimasto in Italia: il Gabibbo. E puntualmente ieri l’altro il pupazzo vendicatore ha detto la sua in prima pagina sul Riformista: «Compagni, Drive in non si tocca». E giù una serqua di frustate sulla «cricchetta dei besughi» che fa discorsi «al livello di Fantocci».

Alt. Rewind. Cosa ha scatenato l’ira di Antonio Ricci per interposto Gabibbo? Tutto nasce da un saggio, L’egemonia sottoculturale. L’Italia da Gramsci al gossip, di impeccabili credenziali «di sinistra» perché pubblicato dall’Einaudi e firmato da Massimiliano Panarari, professore di Analisi del linguaggio politico e collaboratore di Repubblica. La tesi di Panarari è semplice: una volta c’era l’egemonia culturale gramsciana, oggi quella televisiva, lo strapotere «delle armi di distrazione di massa». Ma, attenzione, gestite con frivolezza apparente, in realtà con sottile acume egemonico dalle «emittenze grigie», gli intellettuali di riferimento del berlusconismo triumphans. Non certo dei professori o dei noiosi intellettuali, ma i volti di una «Weltanschauung pop» (nientemeno) che noi povere oche teledipendenti crediamo ci intrattenga o, in rari casi, ci diverta. E invece ci domina, arma segreta per gli immancabili destini elettorali del Cavaliere.

In particolare, Panarari mette sulla graticola cinque maître-à-penser dell’Italia del Duemila: Alfonso Signorini («intellettuale organico del nazionalgossip»), Antonio Ricci («situazionisti si nasce… e si rimane»), Maria De Filippi («arbitra elegantiarum della neo-Italia»), Simona Ventura (il «neorealitismo») e Bruno Vespa («la fine dell’opinione pubblica»).

Fin qui il libro (pagg. 148, e16,50), peraltro argomentato bene e meglio scritto. Ma quello che affascina sono le reazioni furibonde che ha scatenato, mentre presumibilmente all’Einaudi godono come ricci (con la minuscola) per il baccano suscitato. Intanto, le due prime recensioni, curiosamente uguali e contrarie. Repubblica ha fatto il pezzo scandalizzato da «professoresse democratiche» (copyright del compianto Edmondo Berselli) sulle malefatte della banda dei Cinque, deplorando per la tremilionesima volta la tivù formato tette & culi, la morte degli ideali, lo strapotere mediatico della destra e l’incapacità della sinistra a trovare un’alternativa: dunque, pollice verso anche per le comparsate di Fassino con la tata a C’è posta per te e di Bersani con i cantanti a Sanremo. Libero ha invece ripetuto per la quattromilionesima volta che la scelta di accendere la tivù o di comprare Chi è libera, che nelle aziende del leader massimo del Popolo della libertà (Einaudi compresa) è massima anche la libertà, che il popolo è sovrano e sceglie da solo se e come imbarbarirsi (e come votare) e comunque basta con questo culturame.

Però è interessante il passaggio successivo. Da destra, sul giornale del capo dell’opposizione, sì, insomma, sul Secolo d’Italia, l’ideologo di Fini, Luciano Lanna, apprezza il libro e ne approfitta per bastonare Sandro Bondi che continua a intonare la vecchia canzone dell’egemonia culturale della «nomenclatura» di sinistra, senza rendersi conto che «la vera discriminante non è quella definita dalle categorie ottocentesche di destra e di sinistra ma quella attuale e devastante tra politica e antipolitica» (e, verrebbe da aggiungere, se non riesce a fare una politica culturale di destra nemmeno il ministro di destra dei Beni culturali, allora chi deve farla? Il punto è che ogni volta che qualche amico di Bondi occupa, poniamo, un teatro, il massimo del nuovo che sa proporre è Zeffirelli…).

Da sinistra, sul Riformista, anche Luca Mastrantonio elogia il libro, perché «mette a fuoco il rapporto tra questa sottocultura e il potere», quindi nel Pd e dintorni si dovrebbe smetterla di sospirare sulla tivù bernabeiana educata ed educativa sì bella e perduta (e che infatti è rimpianta soprattutto a sinistra, vedi Fazio o il veterodemocristiano Baudo) e di usare «categorie desuete, vetero-gramsciane o da vintage Anni Sessanta e Settanta». Insomma: in perfetta simmetria, gli ortodossi delle due parti stroncano il libro, gli eretici lo approvano.

Finché deflagra la letteraccia del Gabibbo: «Sostenere che è tutta colpa del Drive in è come dire che se c’è la camorra la colpa è di Saviano». E giù mazzate, queste magari meno gradite nella sacre stanze di via Biancamano: «Il saggio dell’Einaudi è un classico esempio di come si sia ridotta la casa editrice nelle tremule mani dei berlusconiani. Giulio Einaudi non avrebbe mai pubblicato un saggio fast food, non privo di una certa carineria frou frou, ma facilmente smentibile». Curioso, però. Proprio Panarari, per deplorare il declino dei quotidiani, citava il saggio Massimo Fini («I giornali, quando chiedono un commento, non si rivolgono a Emanuale Severino ma ad Alba Parietti») rincarando pure la dose: «e perfino al Gabibbo di Striscia, si potrebbe aggiungere». Detto fatto.

A.Mattioli, L’egemonia culturale del Gabibboultima modifica: 2010-07-11T16:12:54+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo

2 pensieri su “A.Mattioli, L’egemonia culturale del Gabibbo

I commenti sono chiusi.