Franco Piperno, Modernità fuori tempo massimo

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Modernità fuori tempo massimo
25 agosto 2010

(di Franco Piperno da il Corriere del Mezzogiorno)

Marco Demarco, nell’articolo sul Corriere del Mezzogiorno di domenica scorsa, si interroga sul perché «non possiamo dirci contenti di Napoli»; ma per lo spettro delle domande poste, piuttosto che delle risposte offerte, non è esagerato affermare che finisce con l’affrontare non solo la questione napoletana ma quella meridionale nel suo complesso. Demarco scrive come delle note di viaggio nelle quali paragona Napoli ad altre grandi città europee di mare e di terra; la comparazione si risolve tutta a svantaggio di Napoli; e la scrittura tradisce il dolore che l’autore avverte per la disgraziata condizione in cui versa la sua città; il malessere, a sua volta, rende autentico e degno di lettura l’articolo, riscattandolo dalla ideologia, qualche po’ invecchiata e perfino irrigidita nella sua astrattezza, che pure lo attraversa da parte a parte. Questa ideologia è all’opera, sia pure in maniera inconsapevole, già nella scelta delle città con le quali dar luogo al confronto. Infatti, ha senso la comparazione tra ciò che è simile; dunque, poiché Napoli è mediterranea ed orientale, il confronto va fatto non con Lione o Pietroburgo bensì con Atene o Istanbul. In effetti, Demarco, come lui stesso dichiara, guarda la città con gli occhiali della tarda modernità che privilegia il futuro a danno del presente: il «nuovo» diviene il criterio salvifico, il farsi stesso della storia. Si noti: non già, come era accaduto agli inizi dell’epoca moderna, il nuovo in quanto scoperta del «vero» o promozione del «meglio», ma il «nuovo per il nuovo». Ora, poiché nessuno può amare ciò che non c’è, si tratta di mera ideologia nel senso di mancanza di sentimento-la sua rilevanza sociale sta nell’essere un sintomo, il sintomo di una condizione collettiva di noia accidiosa, d’incapacità di divenire ciò che già si è, di fiducia superstiziosa nel futuro.

Costringere Napoli nei canoni della modernità vuol dire stravolgerne il destino; così, la città, a ben vedere, è vittima, in primo luogo dei suoi stessi intellettuali; o meglio di quella separazione abissale tra intellettuali e moltitudine urbana che data almeno dalla fallita rivoluzione del ’99; fino a rendere i primi «begriffi» impotenti e rancorosi mentre ha accecato la potenza sovversiva della soggettività popolare.

Questa tragica separazione appare poi beffarda e paradossale sol che ci si ricordi che Napoli è la città di Gian Battista Vico, ovvero il luogo dove per tempo era stata elaborata la critica dell’astrattezza illuministica e delle «magnifiche sorti e progressive».

Non è un caso, a mio avviso, che lungo quel viaggio per le città europee, lo sguardo di Demarco si soffermi con favore sui grandi sventramenti urbani avvenuti negli ultimi decenni; che hanno lacerato non solo il tessuto architettonico ma soprattutto le relazioni sociali che avevano conferito senso comune a quel tessuto. Quella ricchezza di valori d’uso è stata distrutta per far posto a nuovi e nuovissimi temi monumentali, entropicamente disastrosi, vagamente minacciosi nel loro giganteggiare, sufficientemente volgari da catturare l’occhio distratto del turista, quasi sempre estranei alla storia ed alla vocazione dei luoghi, progettati per potersi collocare dovunque nel grande mercato omologato dei non-luoghi.

Detto per inciso, se non fosse nota la sensibilità estetica, a leggere l’articolo si potrebbe sospettare che l’autore, non contento di quei quattro grattacieli che deturpano il cielo di Napoli, si rammarichi che Renzo Piano non vi abbia costruito, magari a Santa Lucia, un Acquario, mostruoso e crudele come quello che ha ferito per sempre la linea,l’antica linea del porto di Genova. Per riassumere e dirla in breve, rischiando d’essere schematico, a me sembra che la causa prima del blocco di Napoli, nonché di altre città del Mezzogiorno, stia proprio in quella proposta di modernizzazione fuori tempo massimo che il ceto politico, con pigrizia pressoché unanime, propone e ripropone come universale ricetta per recuperare il ritardo passato ed assicurare un orizzonte futuro di crescita perpetua alla città.

La prospettiva dello sviluppo esponenziale, dove tassi di aumento di appena il 2% l’anno comportano il raddoppio del monte delle merci nel giro di trent’anni circa, questa prospettiva faustiana si è definitivamente chiusa per tutto l’occidente, ovvero per quella parte del mondo che pure l’aveva inventata. Lo scenario dello sviluppo ininterrotto, sia pure attraverso convulsioni cicliche, è risultato praticabile fino a che il capitalismo è rimasta una formazione economico-sociale caratteristica di una parte del mondo, accanto ad altri modi di produzione ad esso estranei, impiantati accanto o altrove, che costituivano imercati potenziali, il futuro, il nuovo.

Ma quando il mercato mondiale è stato unificato da quel processo che si suole chiamare globalizzazione è del tutto evidente che la crescita esponenziale è destinata a divenire un fenomeno propriamente residuale in occidente; dal momento che, se la fabbrica di Torino non riesce a competere con quella di Shangai, figuriamoci quale possibilità possa mai offrirsi per Pomigliano o Melfi o Termini Imerese.

In questo scenario, è il ruolo stesso della esperienza urbana che va ridisegnata, con uno sforzo collettivo di pensiero. La città moderna è stata un nodo nella rete mercantile, individuata dai flussi produttivi in entrata ed uscita che la caratterizzavano; la città post-moderna riallaccia il filo rosso con quella premoderna e torna ad essere il luogo proprio non già del produrre merci bensì dell’abitare. La socialità urbana appare nuovamente come occasione per ciascuno di riconoscere il proprio demone e realizzare il personale destino; ovvero, per dirla con le parole di Aristotele, di menare una «buona vita» per il numero maggiore possibile di cittadini.

Se le cose stanno così, anche solo in prima approssimazione, ecco che quella resistenza sorda e anonima alla modernizzazione che ha segnato il Meridione dopo l’unità nazionale, quella diffusa preferenza per le manifatture di bucatini destinati all’alimentazione piuttosto che per le fabbriche di tondini per l’industria delle costruzioni; insomma quel ritardo epocale tante volte denunciato, quella disgrazia così spesso lamentata si rovescia in fortuna insperata.

In effetti, si può far leva su quel comune sentire, che ancor oggi, a differenza di quanto accade in altre città d’Europa, giace latente nella sentimentalità napoletana, per intraprendere l’esodo di massa dalla modernità ed il rientro in se stessi.

Due sembrano essere imezzi necessari per iniziare questo lungo ritorno; mezzi che sono, ad un tempo, fini, come sempre accade all’agire autentico.

In primo luogo, bisogna ripristinare la sovranità alimentare di Napoli; e questo comporta la ricostruzione del rapporto città-campagna, rapporto pressoché compromesso tanto dal mal uso del terreno agricolo quanto dalla globalizzazione mercantile. Val la pena osservare che qui non si tratta solo di abitudini alimentari ma di costellazioni di significati, di relazioni simboliche. L’agricoltura non è solo indispensabile in quanto produzione organica per la vita urbana; essa,come vuole l’etimo, è anche la prima cultura, ovvero la più importante produzione simbolica comune. Basti pensare al sentimento di autonomia e dignità collettiva che la sovranità alimentare del luogo conferisce al comune sentire.

Va da sé che l’agricoltura di cui qui è questione non è l’industria agricola della monocultura dove si produce per il mercato globale; piuttosto è la campagna nel senso, per dirla con Chayanov, della razionalità contadina che produce per la domanda locale; e colloca sul mercato solo le eccedenze, quando e nella misura in cui hanno luogo.

In secondo luogo, proprio perché questa ricostituzione del rapporto città-campagna non riguarda solo la riconversione dei consumi ma coinvolge le forme della vita urbana quindi l’interiorità comune, essa non avverrà per fascinazione di qualche figura carismatica o per l’opera di persuasione d’una «élite» illuminata. Una trasformazione di questa portata comporta una crescita enorme della coscienza civica che non potrà svolgersi senza la partecipazione dei cittadini alle decisioni che riguardano la vita quotidiana. Qui partecipazione va intesa non già alla maniera della mobilitazione plebiscitaria propria dell’America Latina e del Brasile in particolare; bensì nel senso specifico alle antiche città stato di epoca preromana così come ai comuni medievali; ovvero nel senso di democrazia diretta, di autogoverno.

Da questo punto di vista la prossima campagna elettorale per il Comune permetterà di misurare il grado di consapevolezza del ceto politico napoletano della crisi del sistema rappresentativo basato sulla delega e la professionalizzazione dell’attività politica. Sarà interessante notare se e da chi verranno proposte per allargare, almeno a livello dei municipi di quartiere, il diritto alla partecipazione alla vita pubblica, che continua ad essere ridicolmente mutilato ridotto com’è alle tornate elettorali.

In fondo, a ben vedere, la fatica di vivere a Napoli, quella mancanza di senso civico ed abbondanza di furbizia amorale, che si manifesta tanto nel traffico caotico quanto nella sporcizia e nel degrado, non è che l’altra faccia di quella rigorosa estraneità alla vita civile nella quale è tenuta la stragrande maggioranza della cittadinanza napoletana.

2 Responses to Modernità fuori tempo massimo

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carmine villani on 26 agosto 2010 at 06:31
Gentile Prof. Piperno credo che e la società civile deve costringere il potere a dare l’esempio nel rispettare la legge:il senso civico è un prodotto della democrazia. In una Regione marchiata dalla gestione dei rifiuti i comportamenti della classe dirigente non sono evoluti e non hanno imparato il significato della parola democrazia. Nella periferia nord continua il processo industriale di incenerimento di rifiuti speciali per il recupero di materiali: a Napoli ha sede il maggior esportatore di rame riciclato. Un anno fa un’indagine di magistratura e polizia ha messo fine a Torino ad un traffico di materiali ricavati dai roghi che fruttava otto milioni di euro all’anno. A Napoli nonostante gli altissimi livelli di PM e di gas serra nell’atmosfera l’Autorità Portuale di Napoli non applica le sanzioni alle navi che in porto bruciano combustibile non a norma. La Direttiva 2005/33/CE obbliga le navi nei porti europei all’utilizzo dal primo Gennaio 2010 di combustibile contenente zolfo in misura non superiore allo 0,1% che è ancora cento volte superiore al contenuto in zolfo del combustibile per autotrazione. Il DLgs 205/2007 indica le sanzioni che dovrebbe applicare l’Autorità Portuale di Napoli, e quella di Salerno, che vanno da 15.000 a 150.000 euro per armatori e comandanti e anche per i grossisti che continuassero a vendere combustibile non più a norma. Allora cos’è la modernità a Napoli? Il potere degli armatori è sicuramente tanto da scoraggiare l’Autorità Portuale ad essere moderna? Il rispetto della legge è moderno? E’ democratico?
Carmine Villani
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mario bellizzi on 26 agosto 2010 at 13:12
IL TRISTE BALLO TONDO DELLE MERCI A GIOIA TAURO.
GOOD BYE PENSIERO MERIDIANO
C’è una rabbia civilizzatrice dell’era produttiva, una rabbia costruttiva dei bulldozer, delle autostrade, delle ‘infrastrutture’, rabbia di non lasciare improdotta nessuna particella, di segnare tutto con la produzione, senza nemmeno la speranza di un aumento di ricchezza. Produrre per segnare, produrre per riprodurre l’uomo segnato: individui intercambiabili e pur tuttavia indispensabili. Lo stesso processo di lavoro è diventato intercambiabile: struttura d’assistenza mobile, polivalente, intermittente, indifferente a qualsiasi obiettivo, indifferente allo stesso lavoro, destinata solo a localizzare ciascuno in un nesso sociale dove nulla converge in nessun luogo, se non nell’immanenza di questa distribuzione operativa. Così i luoghi: i luoghi sono svuotati delle storie, delle narrazioni, delle archeologie per essere con costrizione scientifica connessi fra loro, muti, ossequiosi, anche un po’ dispiaciuti di essere distanti e creare disturbi ai ‘boxes’, ai container, alle navi-cargo: Gioia Tauro connessa con Barcellona e Istambul e Shangai! Gioia taurina che lascia la nduja, i bergamotti, le strette calorose di mano, la sardina piccante al peperoncino, il pane di casa con il carbone attaccato alla scorza, il silenzio dell’Amendolea, che non dialoga con Guernica, le icone bizantine che sputano a Mirò, gli arbëreshë che guardano attoniti i paesi baschi, le olive nerissime e l’olio biondo muti e reticenti con il riso di Shangai, le piazzette con campanile e municipio e stradine bianche incomunicanti con piazza Tienamen. Questo lo scenario che prospettano i nuovi sacerdoti del neo (l’ennesimo!) SVILUPPO. Gioia Tauro Genova Barcellona Shangai Istambul: luoghi di attracchi di navi merci con boxes e unità di misura, nuovi codici performantici e rituali, città svuotate di qualsiasi significato storico o lipidico, assorbite nel processo senza sviluppo, privo di senso, cifrato, senza il pathos della produzione, ultima ‘erezione’ impazzita, paranoica, ora detumescente nelle cifre (Nessuno ci crede più!).
Quali merci verranno a Gioia? Da dove vengono? Dove vanno? A che e a chi servono? Chi li produce e cosa pensa chi li produce? Chi li consumerà? Quali i significati delle merci? Domande tamarre, arretrate rispetto la vorticosa circolazione che la tecnologia dispiega! Anche il romantico esule Predrag ci dice che siamo arretrati qui (a Genova) perché per scaricare una nave impieghiamo 6 giorni mentre a Barcellona 6 ore!!!! Muoversi, essere più svelti, così non va!!! Tutto è simulazione, tutti i segni si scambiano ormai tra di loro senza scambiarsi più con qualcosa di reale (e non si scambiano bene, non si scambiano perfettamente tra di loro che a condizione di non scambiarsi più con qualcosa di reale).
S/terminazione dei reali di produzione, fine della produzione. Cosa scambiarsi nel cimitero di uliveti e aranceti di Gioia Tauro? Il pensiero meridiano avrebbe sfidato il Sistema con i doni:
zampogne con pelle di capra, organetti, chitarre battenti, processioni con lanci di fiori di ginestre, asce di ferro, quadri di Rotella e dei madonnari, icone e melurgie bizantine, sole, sole e poi boschi, e mare e pesci dai nomi arabi, e dolci, cuddure mandala a raggiera con l’uovo bollito al centro, mostaccioli, tonni sott’olio, sanguinaccio di porco, uva passa, nduja, voci recitanti favole balcaniche e grecaniche, tarantelle dionisiache tra le archeologie con fragole e finocchi e more selvatiche, gelsi rossi e api,….
tutto ciò che non si può riprodurre: Creare disordine simbolico nel codice!
Ciò che vorrebbero propinarci è la spettacolare amnesia da velocità di circolazione di merci, via mare, creazione di oggetti puri con cancellazione del suolo e riferimenti territoriali. Velocità, il trionfo dell’effetto sulla causa, dell’istantaneo sul tempo profondo, della superficie e dell’oggettualità pura sulla profondità del desiderio: cancellare le tracce! Trionfo dell’oblio sulla memoria.
Ma non è questo il Mediterraneo, il magnetico mediterraneo, forse è inutile voler inventare un altro, non ci sarà un altro Mediterraneo diverso da quello che ci è stato tramandato.
Di certo è che saremo sempre una palla al piede dello Sviluppo (degli altri), arretrati, cafoni, nostalgici, cocciuti, in una parola dalla parte degli imputati nel Tribunale della Storia. Qui la terra e l’entroterra, i suoi luoghi, anche se svuotati di cuori e teste, scavati, desertificati degli ulivi secolari, resi lisci e senza profumi di zagare, restano sempre delle armi improprie puntate contro il capitale, presidi della lentezza e della bellezza, specchi archimedei che bruciano quelle merci senza significato, gusci vuoti anche per i nostri porci. Le divinità ctonie sono state estromesse, sostituite dalla mistica della Tecnica, il ‘foglio di via’ viene sbattuto in faccia ai migranti che si affacciano alle coste del Mediterraneo, per sentire l’odore del pane delle nostre tavole, circolando nei container / ‘boxes’. L’assise pubblica di Thuri, la nuova Sybari della Magna Grecia, nel 379 a. C., attraverso un decreto diede la cittadinanza onoraria al dio Borea, una casa e un lotto di terreno … Fu la prima volta nella storia della civiltà umana che far parte di una cittadinanza, essere accettati da una comunità, era ritenuto un privilegio anche per le Divinità. Da allora, non si è fatta molta strada anzi.

Franco Piperno, Modernità fuori tempo massimoultima modifica: 2010-08-28T15:30:50+02:00da mangano1
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