Alessio Lega,La letteratura secondo Michele Mari

http://venditordisassi.splinder.com/post/16969146

2.michele mari.jpeg

intervista a Michele Mari pubblicata su A/Parte n. 15

Qualcosa che seduca, qualcosa che perda, qualcosa che resti.
La letteratura secondo Michele Mari in un’intervista di Alessio Lega.

Michele Mari: Io sono convinto che la grande letteratura debba essere diseducativa. Cioè, che una delle idee che più abbiano fatto male alla letteratura è che la letteratura debba rendere migliori, che la letteratura sia pedagogica. Che letto un libro si è migliori…quest’idea manzoniana… quest’idea cattolica!
Io sono proprio dell’idea contraria: che i libri guastino, rovinino. Che i libri turbino. Seducano e perdano. In questo aveva ragione Dante quando – nel quinto canto dell’inferno – dice che Paolo e Francesca si sono rovinati perché hanno letto di Lancillotto, e che se non avessero letto di Lancillotto si sarebbero amati platonicamente… avendo letto di quel famoso bacio invece sono caduti nella passione e nella morte.

Alessio (a parte al lettore): cade spesso nella sua passione, parlandomi, il più grande scrittore italiano. Michele Mari.
Da vent’anni stimato fra i maggiori, ma mai veramente celeberrimo, rappresenta un caso isolato. Un caso letterario che nessuno può ingoiare, archiviare, obliterare. Michele Mari, sin dal suo esordio, ha spiazzato e seminato il panico presso gli editori che si sono onorati di metterlo in catalogo (Longanesi, Bompiani, Mondadori, Einaudi), senza in fondo aver mai ben chiaro il genere in cui collocarlo.
Troppo letterario per essere best seller. Troppo incandescente, a volte quasi osceno per la materia stessa del suo narrare, per essere uno scrittore di algida ricerca. Troppi nodi di sentimento e dolore e passione nei suoi libri, per poter assurgere allo stato di maître à penser, di tuttologo televisivo. Mari non sarà mai l’intellettuale organico a una qualche utilità, sulle cui opinioni costruirsi un sistema di indicazioni, una percezione univoca della realtà.
Michele Mari è la resistenza della ricerca letteraria, il rappresentante, cronologicamente più vicino a noi, del geniale soliloquio dei prosatori che hanno fatto il nostro ‘900: Gadda, Manganelli, Landolfi…
Eppure un nutrito nucleo di suoi libri – La stiva e l’abisso, molti racconti, quest’ultimo Verderame – sono figli, per linea diretta, di Stevenson, di London, di Melville, del dominio demiurgico della materia narrativa proprio dei romanzieri ottocenteschi.
Di questa doppia essenza si alimenta la grandezza e in qualche modo la definitività di questo scrittore, già classico nel suo e nostro tempo.
Questo è il resoconto di una lunga intervista che mi ha concesso, in occasione della pubblicazione di Verderame, uscito in settembre per Einaudi.

Mari: Ho sempre avuto una istintiva diffidenza verso tutto ciò che viene definito sperimentale, soprattutto nel caso dell’auto-definizione. Secondo me lo sperimentalismo, come la stranezza, la pazzia, è qualcosa di cui non ci si può rendere conto… nel ’500 i veri pazzi erano quelli come Piero di Cosimo, quelli che vivevano chiusi, segregati, i monomaniaci. Quelli che non sapevano di essere pazzi. Quelli che invece fanno la parte del pazzo non mi hanno mai convinto. Quelli che proclamano “io sono uno sperimentatore quindi rompo la metrica, rompo la sintassi, scandalizzo, associo le parole in modo a-logico” mi sono sempre sembrati dei superficiali dissacratori più che dei veri distruttori.
Lungi da ogni questione personale, io ho sempre nutrito una forte diffidenza nei confronti del gruppo ’63. Sono sicuro che nel ’63 mi sarei schierato dalla parte di Cassola, che quelli con disprezzo definivano Liala. Io, rispetto a un Balestrini che scrive Vogliamo tutto  e che è uno che ha delle idee, ma non ha penna, preferisco quella specie di Fogazzaro attardato che fu Cassola, chi insomma fa il suo onesto mestiere.

Alessio: Proprio tu mi dici questo? Ma tu sei – in larga parte – uno sperimentatore!

Mari: Mi rendo conto che se penso agli autori che amo di più, che più mi hanno entusiasmato nella mia infanzia, nella mia adolescenza  (che, come risulta dai miei libri, ritengo le età fondamentali, dopo le quali c’è poco da modificare) sono dei grandi ammaliatori, dei grandi affabulatori… i grandi costruttori di storie: uno su tutti, Jack London. Se dovessi portarmi nella tomba un libro solo, dell’intera produzione planetaria, sceglierei Il richiamo della foresta, che è il libro che più mi commuove. Oppure sceglierei Stevenson, sceglierei Melville…
Pensa che qualche anno fa ho letto Il conte di Montecristo, a cui mi sono accinto con un certo disdegno, con certi pregiudizi… e poi alla fine mi sono metaforicamente tolto il cappello venti volte di fronte a uno scrittore così.
Poi certo esiste anche il mio gusto adulto, un gusto più educato e raffinato, nato intorno ai vent’anni, che si è innestato nelle mie nevrosi, nelle mie storture mentali… e lì, più che essere un lettore, mi sono trovato infettato da Gadda, Celine, Gombrowicz, Kafka, Guimaraes Rosa, Borges, Bioy Casares… cioè autori molto capricciosi, ossessivi… però London lo leggo ancora con lo stesso trasporto con cui lo leggevo da ragazzino… E’ rimasta la sospensione dell’incredulità, per dirla con Coleridge. Non c’è stata crescita, non c’è stata abiura.
Forse posso indicarti in due miei capisaldi, Hoffmann e Poe, il punto di contatto… due autori che hanno l’affabulazione di Stevenson, ma, come in Baudelaire, l’aspetto contagioso, infetto, ossessivo della letteratura. Per merito di scrittori come loro non mi spingerò mai fino a trovare triviale – come suggeriva Manganelli – la trama. In me esistono tutti e due gli aspetti, e sono sempre venuti a compromesso.

Alessio: Eppure… insisto, tu sei uno scrittore barocco. Conscio della stupidità dei paragoni, potrei spingermi – per spiegarmi – a trovare in Bufalino uno scrittore in qualche modo tuo prossimo.

Mari: Io sento che quello che tu chiami barocco (cioè l’artificio, la complicazione, il divertimento culturale, la ricerca di un’espressione alta, non standard, non quotidiana) in modo per nulla sperimentale… in me è paradossalmente un fatto viscerale. È il mondo in cui sono nato, l’insieme dei libri in cui sono cresciuto, è il tipo di cultura che mi ha formato, quindi è il mio modo di restituirla… non c’è nulla di artificiale. Ma soprattutto sento che questa complicazione linguistica è funzionale alla storia, ne esalta i momenti di particolare pathos, di emozione, di raccapriccio. Di fronte ai momenti più intensi un innalzamento – come anche un brusco abbassamento – qualcosa che non sia la norma è fisiologicamente necessario.
Un tema piuttosto presente nei critici che mi hanno seguito, anche con simpatia, dai primi tempi, è che io sia un manierista, uno che ricava letteratura dalla letteratura… Ma come? Proprio il mio manierismo è la risposta più patologica a un eccesso di vitalità. Ci sono cose che sono troppo scabrose. Troppo imbarazzanti. Troppo storte. Cose che non si possono dire in modo normale, ma solo in modo stilizzato, eufemizzato, metaforizzato. Esistenzialmente parlando io sono tanto più autentico quanto più sono complicato nella forma.
La questione venne fuori alla pubblicazione della mia prima raccolta di racconti, Euridice aveva un cane. Al contrario di Tu, sanguinosa infanzia (la  seconda raccolta, scritta tutta nello stesso periodo, dunque con una maggiore unità stilistica oltre che tematica), i racconti di Euridice coprono dodici anni di produzione: ve ne sono di quasi naturalistici e di più barocchi. I critici sostenevano che i primi fossero quelli in cui ero più autentico, mentre io ero e sono convinto che le mie viscere e la mia anima si trovavano soprattutto nei secondi. È dentro quelle figure retoriche, è dentro quegli artifici che io mi sono nascosto… se non avessi assunto quella maschera non avrei avuto né ardire, né divertimento di dire tanto.

Alessio: E così sei arrivato al punto di scrivere Rondini sul filo, il tuo libro più incandescente, con lo stile di Céline… da una parte ti assumi il peso di mettere in piazza le tue ossessioni più inconfessabili, il nucleo di dolore che non puoi condividere con nessuno, quello che ti rende solo anche nella vita di coppia, dall’altro ti trovi a fare il verso a uno scrittore… a che terribile scrittore, poi.

Mari: Se non avessi assunto quella maschera… o anche un’altra – se non era Céline sarebbe stato un altro – non avrei potuto affrontare una materia così scabrosa, realmente vissuta con tanto di personaggi riconoscibilissimi in una Roma di oggi. Ho dovuto scriverlo come l’avrebbe scritto Céline. Ho voluto assumere Céline e metterlo come un golem dietro la mia pagina, ritirandomi dietro le quinte per fare di lui lo scrittore del mio personaggio, della mia vita. Era una condizione inevitabile, più ancora che funzionale, a quella storia. Da solo quel libro non l’avrei scritto, perché mi sarebbe sembrato di scrivere un diario, una lagna, una recriminazione… fatto sta che ne è uscita fuori un’opera che divide i miei lettori fra gente che lo adora, e lo considera il mio miglior libro, e altri che trovano che non avrei dovuto scriverlo, tanto è un pugno nello stomaco… con l’aggravante immorale di aver messo in piazza i fatti privati di tante persone.

Alessio: Rondini sul filo è un libro tremendo e, in questo senso, céliniano; pur avendolo amato alla follia, mi è assai difficile rileggerlo, tanto entra in una zona inviolabile dell’essere umano.

Mari: Immagino, immagino… io ritengo comunque che sia uno dei miei libri migliori… forse non il migliore, perchè quello a cui sono più legato – anche se questo può non dire molto – è Tu, sanguinosa infanzia.

Alessio: Quello per me fu il libro della rivelazione, quello che mi fece diventare il tuo profeta fra gli amici, che venivano sottoposti a estenuanti letture via telefono dei tuoi racconti… certo che poi… quando mi procurai quel romanzo capitale e definitivo che è La stiva e l’abisso…

Mari: E invece mentre Rondini sul filo ha avuto senz’altro una eco, La stiva e l’abisso è passato inosservato. I miei libri più conosciuti restano Euridice aveva un cane, Tu sanguinosa infanzia e Io venia pien d’angoscia a rimirarti… anche se su quest’ultimo ha avuto un peso l’essere entrato nel Campiello…

Alessio: Verderame – il tuo libro appena uscito – è in qualche modo un racconto lungo che viene ad aggiungersi a Tu sanguinosa infanzia, completando questa particolarissima lettura di quell’età, che va oltre l’ormai scontato rovesciamento dell’età dell’innocenza. Tu vedi nell’infanzia la radice, il cuore della tenebra delle più cupe ossessioni, con cui forse nell’età adulta si scenderà a patti?

Mari:  In Verderame si tratta di un’adolescenza un po’ precoce, ma, tutto sommato, sì… c’è questa compatibilità…

Alessio: Verderame gioca – in maniera straletteraria da un lato, e completamente introversa dall’altro – con i generi letterari: il noir, in particolare quel tipo di noir che affonda le radici nel passato, la fantascienza e l’horror lovecraftiano… tanto che in copertina c’èun’illustrazione di Karel Thole – storico copertinista dell’Urania – già quasi una citazione… Ebbene, oggi in Italia si pubblicano moltissimi noir e  gialli, solo che questa letteratura sembra aver rinunciato alla sua vocazione cupa e disperata per diventare tranquillizzante e diversiva…

Mari: Tanto più tranquillizzante perché stereotipata: cose alla maniera dei film poliziotteschi anni ’70 – Roma uccide, Milano spara – o le solite storie di serial killer… e chissà perché poi, in controtendenza rispetto ai
classici del genere – Chandler, Cain, Hammet, che scrivevano capolavori di cento pagine – si producono tomi enormi… polpettoni!
Comunque io non li leggo… tanto per cominciare perché sono un lettore pigro… poi perché quando scrivo non leggo perché non voglio interferenze. In ultimo perché continuo a saltare fra letteratura medievale, classici dell’ottocento e qualche libro contemporaneo, che però, appunto, càpita… e poi a me, come per i film, piace essere poco aggiornato, scoprire le cose con un po’ di ritardo.

Alessio: Ciò che a me dispiace nella degenerazione della letteratura popolare, è la rinuncia alla vocazione di dialogare con un lettore che è anche un cittadino, una figura attiva nel suo tempo e nella sua realtà.
Quella vocazione che ha in Zola un capostipite e nel nostro Sciascia un caposaldo. Una letteratura che forse non rende migliore il mondo, ma che cerca di rendere più smaliziati i lettori, e che a ciò si adopera assumendo le forme della letteratura popolare, del feuilleton, del giallo.

Mari: Non vorrei nemmeno essere frainteso col mio discorso sul potere negativo della letteratura… il mio era un discorso innanzi tutto reattivo.
Poi, se mio figlio che ha dodici anni, anziché passare le giornate al game-boy (quest’estate abbiamo lottato a lungo su questa questione) legge Zanna bianca io sono ben contento! Non perché Zanna bianca debba necessariamente dare una visione del mondo migliore di quella del game-boy, ma perché allena la testa ad essere più reattiva, più critica, analitica… mentre quell’altro è solo una specie di droga… meno ancora, una specie di ipnosi narcolettica.
La lettura, se non altro, insegna a parlar meglio e scriver meglio, e poi ti dà una duttilità. La letteratura fornisce un’esperienza del mondo prima dell’esperienza.
Io sono uno che ha incominciato a vivere tardi… ho fatto tutto tardi: rapporti personali, rapporti sessuali, rapporti di amicizia, sport… tutto ciò che è vita estroversa, tutto, l’ho fatto con anni e anni di ritardo!
Però mi ero avvantaggiato attraverso i libri. Non avessi letto sarei stato una specie di Forrest Gump in balia del vento… se non altro, pur nella mia inesperienza, avevo tutta una serie di strutture mentali che mi hanno fortificato.

Alessio: E però questa è ancora un’utilità generale, del tutto extratestuale… invece volevo proprio chiederti se pensi che ci possa essere una vocazione della letteratura che, oltre che al lettore, si rivolga al cittadino per comunicare una riflessione sulla società in cui vive.

Mari: Per come sono fatto io ci sono effettivamente un po’ di problemi… ma trovando il lettore empatico, sensibile, questa comunicazione può attivarsi. Credo di aver scritto delle cose eticamente civili in alcuni libri… in Rondini sul filo per esempio… quando, come nei film di Dino Risi, si additano al ludibrio queste figure di costruttori, di nuovi ricchi, questa gente tipo Briatore… io a un certo punto dico una cosa politicamente molto scorretta – e me l’hanno fatta notare.

Alessio (a parte al lettore): a casa poi me la son ritrovata testualmente la citazione da Rondini sul filo a pagina 308.
(…) gente antica, senza carte di credito, ragiono come Pasolini qui, preciso…invece quando vedo sta folla di culi grassi, viziati fin da bambini, mafiosi nel DNA, ambiziosi ma resi mediocri dal voler piacere…essere a posto, approvati…deodorati di fuori e di dentro, brillanti…gente che non cena prima delle nove per il terrore di passare per contadini, non c’è pericolo! che un contadino solo ne vale venti, di bocconiani! trentotto di laureati del DAMS! (…) mi viene dato del fascista per la centesima volta, la verità è che sono talmente  a sinistra, talmente! che faccio tutto il giro e risbuco di là, saran poi fatti miei come cacchio mi muovo…purtroppo il nodo è insolvibile, lo illustro! finisco di rovinarmi, pazienza! un aneddoto, via Appia tratto Re di Roma – Ponte Lungo, nel traffico veniamo affiancati da un’Alfa Romeo rutilante di novità, la guida un essere arcaico, ferino diremmo, un autentico bruto…vederlo in un campo agitare la marra ne rimarrei incantato! un antico! uno vero, feroce! fisionomia da primate, bellissimo quanto! ma lì, dentro l’Alfa, coi cerchi in lega e l’air-bag…era osceno, non la macchina, lui! che non poteva, ma c’era! come una stortura nel cosmo, una contaminazione di ere…allora le fo sto commento, che era molto triste essere stati comunisti e aver creduto nella democrazia se poi sto bel risultato la democrazia, consentire a quello di comprarsi una macchina tale! erano mica a sto fine le manifestazioni contro Scelba-Tambroni! Fanfani-Rumor mica li abbiamo fischiati per questo! ecco l’aneddoto spiega, se il fine era questo meglio l’ancien régime, quando i cazzoni erano concentrati a Versaille, chiusi dentro come un manicomio. (…)
fine della citazione.

Mari: Meglio allora l’ancien régime, dico, dove almeno gli stronzi erano pochi, tutti ghettizzati a Versailles e stavano lì e non offendevano l’occhio, mentre oggi ti volti e vedi tanti piccoli Berlusconi… allora, se uccidere il re significa fare tante piccole caricature del re, meglio che ce ne sia uno solo, stronzo, enorme… So che pare un discorso un po’ estetizzante…
Oppure – altra mia battaglia di retroguardia – quando io faccio l’elogio della conservazione, contro questa smania dell’ammodernamento, del portoncino con l’alluminio zincato, del praticello all’inglese… dico, ma perché non ci teniamo le nostre vecchie cascine così come sono? Perché tutto dev’essere rileccato, oppure finto vecchio? Perché non è possibile andare per due anni di fila nello stesso negozio senza trovarlo tutto rinnovato, marmorizzato? Perché devo veder scritto La boutique del pane o Non solo pane, laddove c’era Panettiere o Prestinaio? Lì io metterei le bombe! Per me quella è l’ignoranza profonda.

Alessio (a parte al lettore): a questo punto discettiamo sulla filologia del termine milanese di prestinaio per panettiere… Mari propone la derivazione da presto, cioè colui che presto si deve levare per fare il pane, ma poi consultando dizionari specifici, finisce per trovare pistrinum, ovvero la radice latina del verbo Impastare… l’impastatore, il prestinaio… così, tanto per dire come si vaghi deliziosamente in casa Mari.

Alessio: Certo per idiosincrasie come le tue Milano è una città perfida, con una rara tendenza a rinnegarsi, a disumanizzarsi, e inevitabilmente a diventare più volgare e affarista.

Mari: Noto con dolore che anche Roma si sta milanesizzando: tanti vecchi negozi scompaiono, tanti affitti sono disdetti, tante ristrutturazioni, tanti sampietrini levati per far posto all’asfalto.

Alessio: Di resistenza in resistenza, ho notato come in questo Verderame si affacci il tema mitico della resistenza al nazifascismo…

Mari: Certo… anche per reazione. La zona in cui l’ho ambientato, tra Laveno e Luino, quindi vicinissimo a Gemonio, il paese di Bossi… è una zona particolarmente filistea, la culla della Lega.

Alessio: A proposito, visto che buona parte delle battute di uno dei due protagonisti del romanzo sono in milanese, i tuoi editor non son scoppiati a piangere?

Mari: No, no… anche perché l’Einaudi già pubblica Niffoi e Fois che hanno molti passaggi in sardo… anzi direi che tranne la mia ex-moglie che è romana – e dunque ha una chiusura a priori nei confronti della Lombardia, e in particolare della Brianza  –  nessuno in Italia ha trovato particolare difficoltà. Poi le battute sono sempre in contraltare con quelle in italiano dell’altro personaggio, per cui quel poco che dovesse sfuggire lo si ricostruisce dal botta e risposta.

Alessio: Verderame mi sembra un tuo punto d’arrivo, nel senso che qui i due generi che scrivi, quello autobiografico e il romanzo avventuroso, si fondono… dobbiamo trarne un’indicazione per i tuoi libri futuri?

Mari: Questo proprio non lo so… non per fare il prezioso, ma perché lascio passare almeno un anno tra la fine di un libro e l’idea stessa del successivo, e poi non so se sarà un romanzo lungo… se sarà un racconto…non lo so…So di preciso che non so scrivere su commissione, e tante volte ho anche perso dei bei quattrini per questo!
Il fatto di avere un tema dato e una scadenza mi raffredda ogni estro. Ora ad esempio mi hanno offerto di scrivere una Guida sentimentale di Milano. “Guardate che io odio Milano” ho risposto, e quelli “Meglio!”…
Però…già il fatto di dover scegliere dei luoghi, lavorare con un fotografo, mi mette addosso un’ansia… che proprio non so se ce la faccio!

Alessio: Pensa te… e io che ti facevo uno scrittore che nel rapporto con la pagina era completamente freddo, ingegneristico, attento alla struttura…amante del lavoro di lima.

Mari: No, no… io scrivo sempre senza rete. Mi butto e scrivo, poi verso metà libro – ma non prima – comincio a pormi dei problemi di equilibrio e vedo se è il caso di spostare qualcosa, di interpolare capitoli.
Non ho mai, te lo dico con certezza letterale, scritto una scaletta per nessuno dei miei libri, ma nemmeno di una pagina. Magari ho fatto e rifatto un passaggio che non mi veniva. L’aspetto progettuale m’ha sempre aduggiato…
Una fase del mio lavoro che proprio non mi riesce di amare è quella in cui, finito il libro, me lo rileggo per correggere le incongruenze. Mi metto lì, come una specie di redattore di me stesso per aggiustare…

Alessio: A rischio di sfiorare la piaggeria devo dirti allora che tu devi avere talmente interiorizzato il senso della struttura che ti escono fuori, accanto a flussi di coscienza come Rondini sul filo, dei romanzi perfettamente ingegneristici quali Tutto il ferro della Torre Eiffel.

Mari: Quello è stato scritto proprio per accumulo, sull’onda della contemporanea ed entusiasta rilettura di Céline e di Benjamin…

Alessio: Così contrapponi al genio malefico di Céline quello buono di Benjamin, pensatore ebreo morto in modo così tragico mentre fuggiva dai nazisti.
A proposito, tu come concili l’ammirazione per Céline con la sua adesione alla persecuzione antisemita?

Mari: Ho letto tanti libri che si sono interrogati sul fattaccio…
Beh, innanzi tutto c’è una questione generale che è la bravura… chi può preferire leggere una schifezza di un brav’uomo al capolavoro di un criminale?
Se a un certo punto viene fuori che Bach è un ammazzabambini che fai? Non ti piace più la sua musica? Certo c’è gente che non la pensa così, però io non posso essere una banderuola in mano alla cronaca, voglio trovare nella bellezza qualcosa di oggettivo, di matematico.
Di Céline come uomo si può dire che lui – che faceva il dottore – continuò sempre a curare gratuitamente anche i pazienti ebrei e mai e poi mai ne denunciò alcuno. Certo… meglio se quei pamphlet non li avesse scritti, ma – sarà per l’ammirazione – non riesco a trovarlo un personaggio così orrendo. Lo trovo psicotico, diviso, scisso… era un uomo straordinario in tutto, anche nel creare situazioni malate, morbose… però il suo essere un grande scrittore è proprio anche questo.

Alessio: La tua operazione che mi è rimasta meno chiara è stata la Filologia dell’anfibio, uno strano romanzo, quasi un libro intenzionalmente comico, una satira antimilitarista scritta col tuo stile alto.

Mari: Beh, strano romanzo certo, visto che non è un romanzo! È un diario, a tutti gli effetti, per quanto atipico, visto che la sua scrittura è sfasata rispetto agli avvenimenti. Mentre mi capitavano le cose orrende, o semplicemente surreali, che attengono al mio servizio militare (’79/’80), mi veniva voglia di scriverle. Poi lì… sporchi, sudati, senza un tavolo, senza luce… senza le condizioni per scrivere, vi rinunciai. Un lustro dopo, visto che i ricordi erano sedimentati in me, e prima di perderne l’esattezza, ne feci un libro, che però riguarda il solo CAR, la fase più traumatica. Lo spirito con cui l’ho scritto non era comico, ma loico-aristotelico. Fu il mio modo di esorcizzare tutto quel tempo buttato.

Alessio: Altro tuo strano libro è il libro di poesie, uscito recentemente per la prestigiosa collana bianca dell’Einaudi Cento poesia d’amore a Lady Hawke…lì io mi aspettavo un poetare complesso: forme chiuse, sonetti, invece mi son trovato di fronte al tuo libro più immediato, epigrammatico…una storia d’amore.

Mari: Quelle sono vere poesie d’amore a una vera destinataria.
Ho vissuto per trent’anni un amore platonico, non solo non corrisposto, ma nemmeno rivelato, per una compagna di classe, con cui mi rivedevo a cena ogni dieci anni. Lei ha preteso di non aver mai capito, così che quando io, ormai rotto alle cose della vita, le ho detto in modo scherzoso di questa mia pazzesca fedeltà, è cascata dalle nuvole.
Ma come caschi dalle nuvole? ho detto…allora ci siamo scambiati nel giro di pochi mesi 500 e-mail a testa, in cui, con mio grande compiacimento, le ho visto fare il percorso sentimentale che io avevo fatto in trent’anni.
Però, non avendo alcuna volontà di rivoluzionare la sua vita, mi ha detto di voler andare avanti così, su dimensioni parallele. Benissimo!
Io già vivevo da trent’anni quest’amore in maniera solipsistica… ora sapevo – dalle sua mail appassionate – di essere persino ricambiato… grasso che cola, come suol dirsi!
Però, a un certo punto, lei non ce l’ha fatta comunque più ad andare avanti nemmeno così, temeva di perdere il controllo sulla vita reale; io invece sono un esperto di vite dissociate. Faccio lo scrittore, ho sempre avuto due o tre vite senza alcun problema…che non fosse pratico!
Quindi siamo arrivati a un punto morto, parlare non si poteva più – parlare può essere scivoloso, vischioso, imbarazzante – così ho cominciato a mandarle delle poesie. Quelle poesie dunque sono state scritte per un’interlocutrice reale, non particolarmente letterata, come avrei potuto lavorare su forme chiuse, su modi ermetici? La prima istanza era pratica: comunicare per mezzo di un linguaggio che lei percepisse altra cosa dalla sua vita reale. Ha funzionato: la poesia, per lei, veniva da un altro mondo, quasi noi fossimo davvero i personaggi di una favola, la favola di Ladyhawke. Così ogni giorno io le mandavo una poesia, e se per un giorno tardavo lei sollecitava…
Anche questo gioco però ha finito per spaventarla, non riusciva più a dormire, aveva paura di nominarmi la notte… insomma, abbiamo chiuso. Io però ho deciso di pubblicare le poesie… mi son detto: almeno resti qualcosa di concreto di quest’amore platonico, come fosse un figlio. Un figlio di carta e d’inchiostro.

Qualcosa resti delle nostre storie!

(intervista raccolta a Milano il 18 settembre 2007)

Alessio Lega,La letteratura secondo Michele Mariultima modifica: 2010-09-09T15:19:16+02:00da mangano1
Reposta per primo quest’articolo