Paolo Pagani, Che cosa significa pensare un presente?

da POLISCRITTURE

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Che cosa significa pensare un presente?
di Paolo Pagani

L’apparenza del presente

‘In the long run we are all dead’. Questa ben nota – ed incontestabile – sentenza di Keynes viene
spesso usata per incitare ad operare per il presente, magari fino ad un semplicistico carpe diem che
sembra non cogliere la paradossale contraddizione: il vuoto di senso di un presente per coloro che
tanto, presto o tardi, saranno tutti morti. L’adesione al presente, alla sua diretta immediatezza, che
come tale è solo semplice-presenza. Anche il Tao (Chuang-Tzu) raccomanda di ‘nutrire la vita’,
preservando la persona e giungendo alla fine dei propri anni: ma vivere del – e nel presente non è
ancora pensare il presente come consapevole tema degno di riflessione.
Proviamo ora a fare un passo in un’altra prospettiva. Marx chiamava comunismo ‘il movimento
reale che abolisce lo stato di cose presenti’. Qui l’accento, direzionandosi al futuro, sembra
posizionarsi , al di là di ogni manierismo hegeliano, sul superamento del presente.
In ambedue i casi il presente pare svanire, irriflesso in un caso, negato nell’altro. Ciò che vorrei
quindi suggerire, in queste brevi note, è che lo statuto del presente, soprattutto nella
contemporaneità, rende costitutiva la difficoltà di pensarlo, e dunque inevitabili i vicoli ciechi in cui
a mio parere si chiudono le due precedenti direzioni. A meno di trovare una terza prospettiva,
storicamente e politicamente irregolare.

Il presente che guarda al futuro

‘Non il più lontano, ma il più vicino è ancora il perfettamente oscuro’. Così Ernst Bloch nel
Principio Speranza. Se il carpe diem, il godimento spensierato, il seduttore di Kierkegaard
sfuggono all’autocomprensione; se l’enigma più difficile da cogliere è proprio il giorno, ‘l’Ora
dell’existere’, si tratta, per comprendersi, di rivolgersi invece al futuro: ecco dunque il fare fronte
alla direzione, la realtà dell’orizzonte, la vera genesi situata alla fine.
E’ l’intenzionalita: la cosciente tematizzazione del presente si realizza solo in un tendere-verso che
si apre sul futuro, il presente che non si sottrae perché guarda, consapevolmente, nella propria
direzione – nella propria tensione. Tensione verso uno scopo, telos. La lebenswelt non si estenua
nella fruizione istantanea, quando diventa anima del progetto per il mondo a-venire.

E quale avvenire?

Ma proprio qui si inceppa il meccanismo dell’intenzionalita, e proprio qui trova radici la mia
proiezione fortemente pessimistica, prima ancora che sul presente, sul futuro. C’è ancora un futuro
verso cui tendere? Sopravvivono le grandi narrazioni attraverso cui pro-gettarsi? Il dubbio si è già
da sempre insinuato nelle stesse correnti di pensiero che vorrebbero aderire al presente o salvarlo
col futuro. Non è l’intera tradizione orientale che ci ricorda l’impermanenza di tutto ciò che
costituisce la vita? e non è stato proprio Mao-tse-tung (in cui, detto per inciso, fortissima è
l’influenza della cultura orientale ed in particolare del taoismo) ad affermare che tutto dovrà avere
una fine, compreso lo stesso marxismo?
Ma la crisi del futuro emerge, in termini contingenti e più concreti, nelle riflessioni dei teorici della
decrescita. Per Serge Latouche siamo ormai prossimi al punto di non-ritorno. La nostra
sovracrescita economica e la nostra impronta ecologica non più sostenibile rendono difficile
pensare alla possibilità stessa di un futuro, o meglio di un futuro in cui il processo entropico, ed
antropico, distruttivo non finisca per minare le basi della stessa esistenza umana. E da ciò non ci
possono salvare le fantasie tecnologiche e produttivistiche, sia nella versione capitalistica, che in
quella marxista, ancora prigioniera dell’ambiguità con cui, criticando il capitalismo, accetta come
produttiva ‘la crescita delle forze che esso scatena’.
Non so quanto sia fondato il recupero di ottimismo su cui Latouche fonda la sua speranza in una
decrescita serena; ma, in ogni caso, l’accusa di utopismo che gli viene rivolta non pertanto
restituisce valore alle grandi narrazioni dello sviluppo. Anzi, non fa altro che mettere a nudo il
nostro vicolo cieco: se non ci salva la decrescita come ultima spiaggia (e potrebbe non riuscirci,
perché irrealizzabile, perché arrivata tardi, perché applicata superficialmente, perché troppo debole
rispetto all’inerzia e alla tremende forze ormai scatenate), non ci salva nulla. L’umanità apprendista
stregone forse riuscirà, a prezzo di grandi limitazioni, a rimettere questo diavolo nella bottiglia. O
altrimenti nessun modello di sviluppo ci salverà il futuro.

Presente impensabile

La crisi della progettabilità del futuro spalanca la crisi della pensabilità del presente. Io qui tenderei
a capovolgere l’immagine di un presente proiettato sul futuro. E’ piuttosto il futuro che si proietta
sul presente: vale a dire, solo progettando un futuro si può riflettere sul presente. Il presente è
impensabile se non è pensabile il futuro. E arretra ancora a semplice presenza, a nudo godimento
dell’attimo, a ‘banalità ante rem’, come teme Bloch. All’unilateralità del prendere il questo, das
diese nehmen, come diceva Hegel. 
L’Angelus Novus di Benjamin, l’angelo della storia, avrebbe bensì il viso rivolto al passato, ma una
tempesta dal paradiso, il progresso, lo spinge irresistibilmente nel futuro… E se questa tempesta
smettesse di soffiare? o se si confermasse solo un ciclone autodistruttivo? L’angelo continuerebbe a
vedere le catastrofi, passate e presenti della storia, ma da dove le guarderebbe, e a partire da quale
prospettiva potrebbe allontanarsene? D’altra parte il dubbio sul calendario messianico, sulla
concretezza dell’escatologia è da sempre presente nella coscienza ebraica. Come dice Jankélévitch,
la fine dei tempi è alla fine del tempo, cioè mai, essendo questo infinito. Per Jankélévitch non
sarebbe dunque il compimento materialistico e quantitativo di un progetto a dare un fine alla storia:
sarebbero i fini ideali, gli scopi ultimi, a rendere il futuro sempre presente. L’avvento del futuro nel
presente. Sempre che un qualche futuro possa esserci; e che la speranza, i valori ideali normativi
che noi ne riporteremmo nell’oggi (ma Jankélévitch parlava nel 1961, ricordando la liberazione dal
nazismo), da qualche parte ancora soffino. E che non si rischi un platonismo delle buone intenzioni.
Da quale futuro trarrebbero la forza? Se il futuro è impensabile, non c’è fine ideale pensabile – nel
presente. Per parafrasare una celebre battuta di Woody Allen (‘perché devo preoccuparmi dei
posteri? cosa hanno fatto i posteri per me?’) si potrebbe concludere che, se sino a ieri i posteri
hanno fatto qualcosa per noi, dandoci la direzione ideale di cui parla Jankélévitch, ora non possono
più fare nulla per noi.

Il passato che può opprimere

Una breve diversione: non vorrei comunicare la falsa impressione che si possa, come difesa del
presente, rinchiudersi in una santificazione, o una museificazione (Nietzsche ammonisce!) del
passato che lo riproponga per l’oggi. Come ricorda Adorno, un’etica anacronistica si impone sul
presente con la violenza: quando l’ethos collettivo del passato vuole conservare nel presente
un’apparenza di universalità. Il passato può essere oppressivo, nella misura in cui precostituisce,
con criteri già dati e appunto passati, le norme della comprensione del presente. Ed anche il ricorso
alla narrazione, come costitutiva della mia storia, può andare incontro allo stesso rischio: la mia
storia arriva sempre in ritardo, sottolinea Judith Butler, ‘sempre in medias res, quando molte cose
sono già dovute accadere per rendere me e la mia storia possibili nel linguaggio’.
D’altra parte, pur se la tematizziamo a partire dal passato, la prospettiva di immobilizzare un
presente puro è un’illusione impossibile. Impossibile, perché, come nota Derrida nelle sue
riflessioni su Artaud, il presente non è mai ripetibile, come non è ripetibile il già stato. Mandando
con ciò in crisi sia il progetto di rappresentazione teatrale sia, in ottica più vasta, quello di
rappresentanza politica. Non si può ri-presentare nulla, né presentarsi al posto di qualcuno in una
assemblea delegata, come già sapeva Rousseau.

Né l’ontico né l’escatologico

Se non a partire dal futuro o dal passato, si può in qualche modo oggi fare ancora i conti col
presente? O meglio, rendere conto del presente, che sia il proprio o quello di una comunità? Per me
una risposta alla linea di confine costituita dalla domanda del presente, se pur ci sia, non può in ogni
caso essere cercata in un ricaduta al di qua o al di là di questa linea. Non può essere l’escatologia, il
rilancio oltre a delle finalità che sfuggono, come rischia di sfuggire lo stesso futuro cui esse
tenderebbero. Né un rientro al passato o, peggio ancora, l’appiattimento sul godimento di un
semplice presente dell’essere che sarebbe nulla più che un ritrarsi nell’ontico.
E dunque? Certo, mi verrebbe da fare appello alla memoria, alla narrazione del sé, al
riconoscimento nel presente di una propria storia (e delle storie, narrate uomini le vostre storie). Ma
come sottrarsi all’interdetto dell’irripetibilità? Come evitare di ricadere sotto la violenza del
passato? Latouche conclude con Oscar Wilde che, per una società della decrescita, ‘l’arte è inutile e
dunque essenziale’. Ecco, forse l’unico presente pensabile è quello della poesia. La memoria del
Noi che per Lautréamont parla nella poesia; di più, la memoria del già presente. Pre-etica, forse pre-
politica, certo non rappresentativa di cose o di istanze progettuali: oserei dire pre-categoriale. Che
si vive nel presente della creazione. Non le grandi narrazioni ideologiche come prefigurazioni
ideali, ma le’piccole’ narrazioni come trasfigurazione, questo sì. ‘Fermati, sei bello!’ dice all’attimo
il Faust di Goethe. L’attimo non si deve consumare onticamente, né si può rivivere, o programmare
verso il futuro. Ma, forse, accoglierlo consapevolmente, abitarlo creativamente – forse questo sì.
Che è anche un lasciar andare, fluire senza sublimazione. Come conclude ultimativamente, dopo la
discesa alle Madri, Rilke nella decima Elegia Duinese:

Ma se i morti infinitamente dovessero mai destare un 
simbolo in noi,
vedi che forse indicherebbero i penduli amenti
dei nocciòli spogli, oppure
la pioggia che cade su terra scura a primavera.

E noi che pensiamo la felicità
come un’ascesa, ne avremmo l’emozione
quasi sconcertante
di quando cosa ch’è felice, cade.

Nota bibliografica

Mi hanno accompagnato e sostenuto, in questa breve ma avventurosa passeggiata, fra gli altri i
seguenti testi:

– Chuang-Tzu, a cura di Fausto Tomassini, TEA, Milano 1999.
– Ernst Bloch, Il Principio Speranza, Garzanti, Milano 1994.
– Serge Latouche, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Boringhieri, Torino 2008.
– Walter Benjamin, Angelus Novus, Einaudi, Torino 1982.
– Vladimir Jankélévitch, La coscienza ebraica, Giuntina,  Firenze 1986.
– Judith Butler, Critica della violenza etica, Feltrinelli, Milano 2006.
– Jacques Derrida, La scrittura e la differenza, Einaudi, Torino 1971.
– Rainer Maria Rilke, Elegie duinesi, Einaudi, Torino 1978. traduzione di Enrico e Igea De Portu.

Paolo Pagani, Che cosa significa pensare un presente?ultima modifica: 2010-09-13T15:25:10+02:00da mangano1
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