GLuigi Beccaria,Se scavi nella lingua trovi la Storia

da LA STAMPA
CULTURA
11/10/2010 –
Se scavi nella lingua trovi la Storia
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Gian Luigi Beccaria

Un convegno sui problemi e le prospettive dei nuovi licei. Come fare appassionare i ragazzi allo studio dell’italiano
GIAN LUIGI BECCARIA

Il testo che pubblichiamo in questa pagina è uno stralcio della relazione che Gian Luigi Beccaria (foto), linguista e storico della lingua italiana, terrà oggi a Roma al convegno «Nuovi Licei: l’avventura della conoscenza» organizzato dalla Fondazione per la Scuola della Compagnia di San Paolo (Aula magna della Luiss, a partire dalle ore 10). L’obiettivo è guardare al futuro: cosa può ancora dare alla società italiana dei decenni a venire la licealità? Il problema sarà affrontato da diversi punti di vista: interverranno tra gli altri Walter Barberis, Luigi Luca Cavalli Sforza, Antonio Paolucci, Tommaso Ruggeri, Andrea Pontremoli. Concluderà i lavori il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini.

Indugiare a riflettere sulla lingua aiuta a rispondere a domande del tipo «Come siamo?», «Perché siamo così?», «Che cosa del passato è sopravvissuto nell’oggi?». Occuparsi delle origini di una lingua, della lingua italiana nel caso nostro, rilevare le correnti dotte e popolari che la solcano, vedere il rapporto della lingua coi dialetti, guardare a quest’Italia plurilingue, a un’Italia delle Regioni, guardare alle minoranze linguistiche, riflettere su sostrati e adstrati, fermarsi eventualmente sulla toponomastica e l’onomastica, sono altrettanti modi che ci permettono di vedere come in una lingua storia e cultura si intreccino in maniera evidente e inestricabile. Partendo dalle attestazioni presenti, è sempre possibile discendere verticalmente gli strati della lingua, calarci nel fondo delle radici. È appassionante compiere cammini a ritroso, tesi a una concreta ricostruzione storico-culturale, e che il ragazzo può anche verificare sul terreno. Riusciamo a trasformare le parole in una presenza quasi visibile del passato. […]

Ogni cultura, attraverso le parole, continua ad appartenerci, vive ogni giorno nel nostro presente, celata tra le pieghe delle parole. Dietro di esse si svelano le tracce della piccola e della grande Storia. Basterebbe riuscire a far cogliere le stratificazioni di rilevante interesse storico, i più evidenti sedimenti del tempo, le innovazioni e i sommovimenti depositati sui precedenti giacimenti, dei quali il nuovo costituisce un prolungamento, una variazione. E anche si può far vedere come coesistano nella sincronia del presente elementi arcaici che vivono fianco a fianco agli strati più moderni, come i sedimenti colti si affianchino ai sedimenti popolari.

Nessun paese della Romània è stato come il nostro solcato da così tanti e così profondi limiti, e sovrapposizioni anche di lingue diverse. Val la pena di illustrarlo ai giovani con esempi semplici e diretti. I nostri dialetti e la nostra lingua rendono testimonianza vistosa di mescolanze e sedimenti di epoche differenti, ciascuna col suo lascito. Se al Sud possiamo ancora oggi imbatterci a livello popolare in chi fa ricorso al sistema vigesimale della numerazione, per cui per indicare l’età, o per contare le uova, la frutta o altro, in Sicilia dicono ancora du vintini, du vintini e ddeci, idem in Lucania e nel Salento; in Abruzzo mezza ventina, che sta per «una decina», una ventina e mezza per «una trentina» di anni o altro, tutto ciò è dovuto ai normanni, che portarono con sé una tradizione linguistica francese: al loro influsso si deve, se non l’origine, certo la rinnovata circolazione di quest’uso, come riscontriamo in francese, dove ottanta è quatrevingt, e ciò dipende dal fatto che le popolazioni celtiche che abitavano la Francia prima della conquista romana usavano contare non a decine ma a ventine.

Stratificato in modo stupefacente è il nostro Mezzogiorno. Pensiamo a come, in Sicilia, arabo, mondo galloromanzo e iberoromanzo si abbraccino strettamente. In Sicilia sono giunti fenici (secolo IX a.C.), greci (VIII a.C.), romani (212 a.C.), quindi vandali, arabi (IX-XI d.C.), normanni (XI-XII), gli spagnoli vi si stanziano per quattro secoli e mezzo (1282-1713). Di conseguenza le parlate del Mezzogiorno hanno largamente accolto grecismi, arabismi, francesismi penetrati con normanni e angioini, e spagnolismi.

Francesismo di epoca normanna è il siciliano racina «uva». La volpe è in alcune zone chiamata rinaudu, rinauda, dal francese renard. Gallicismi evidenti ancora in Sicilia sono avantieri, «l’altroieri», accattare, «comprare». A Palermo e dintorni il macellaio era chiamato chiancheri, da chianca, il ceppo su cui si squartano le carni. Ma il suo nome era dapprima vucceri, bucceri, che è il francese boucher. Il francesismo vucceri è parola che ora copre l’area maggiore dell’isola (a Palermo la Vucciría è il grande mercato della città), e rappresenta lo strato più antico su cui si è sovrapposto, ma soltanto nei grandi centri, lo strato chiancheri. Vi è poi il terzo strato di carnizzeri, ispanismo (da carnicero) penetrato nel secolo XVI nella parlata dell’isola ai tempi della dominazione spagnola.

Sono constatazioni facili da trasmettere e da verificare, e non possono non suscitare curiosità e desiderio di ulteriori eventuali indagini, quelle che si possono fare benissimo a scuola, regione per regione, e che certamente appassionano, perché tra l’altro implicano eventuali inchieste familiari, tra i nonni, i vicini anziani. […]

Ogni età lascia in eredità i suoi memorabili segni verbali: ci rinvia a tempi in cui si giocava al saracino (o alla quintana) l’espressione cavarsela per il rotto della cuffia (i concorrenti in corsa contro la sagoma girevole non sempre venivano disarcionati, anche se colpiti nel copricapo di maglie di metallo, la «cuffia», sicché i giudici del campo giudicavano buono il colpo); e se diciamo «ma questo è un altro paio di maniche!» citiamo l’uso concreto (secoli XIV-XV) di mutar maniche degli abiti maschili e soprattutto femminili (per casa se ne tenevano di modeste, perché non si sciupassero nell’accudire alle faccende; per uscire s’indossavano invece paia di maniche ornate, cambiando dunque le maniche del vestito secondo il tipo di situazione da affrontare.

Anche mancia, siamo all’inizio del secolo XIV, ha a che vedere con le maniche; è un francesismo, dal francese antico manche, «manica», e rimanda all’antico uso simbolico di scambiarsi un paio di maniche come pegno di fedeltà d’amore, quando durante i tornei medievali le dame donavano ai cavalieri prediletti questa parte staccabile della veste: di qui donner la manche, «favorire qualcuno», italiano dare la mancia «dare un segno di simpatia – a un subalterno -, e in seguito «un importo di denaro, un compenso» – vedi anche essere nelle maniche, nella manica di qualcuno, «godere dei suoi favori, delle sue preferenze»). E si potrebbe continuare all’infinito spiegando origini e storia dei tanti modi di dire di cui la nostra lingua è particolarmente ricca.

GLuigi Beccaria,Se scavi nella lingua trovi la Storiaultima modifica: 2010-10-11T16:38:53+02:00da mangano1
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