Franco Bertossa.La Meditazione, alle origini del domandare

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La Meditazione, alle origini del domandare
di Franco Bertossa – 03/12/2010

Fonte: AssociazioneCulturale Asia

Ogni civiltà è caratterizzata dalla domanda fondamentale a cui cerca risposta.
La nostra, figlia di quella greca antica, si chiede fondamentalmente tì tò òn: cos’è ciò che è.
La scienza moderna ha ridotto i termini di questa domanda a due sottodomande: “Come si comporta? A che serve?”.
Una volta risposto a questo, siamo convinti di avere compreso l’essenza di quanto indaghiamo. Oggi ci chiediamo di noi stessi in termini di comportamento del cervello, dell’organismo e della società. Ogni disagio, anche quello “dell’anima”, viene affrontato riconducendolo alle due sottodomande suddette. Ne segue che, vigendo il paradigma scientifico-tecnico, il male esistenziale (Chi sono? Che senso ha l’esistenza?) viene letto come disfunzione e affrontato in laboratorio.
D’altronde, i tempi della metafisica nelle sue varie forme, in Italia sono finiti con l’uccisione di Giovanni Gentile; il dopoguerra ha portato a delegare alla scienza le risposte alle domande suddette.
Oggi si vive nella pseudo libertà da un “Dio morto” e nella luce, con pretese onnicomprensive, del “tribunale della ragione” e dell’oggettivismo scientifico. Ciò a molti non basta.
Come riaprire la questione?
Riesumando Dio?
No, non verrebbe accettato.
Dunque?
Occorre ripartire da sé.
Come?
Esattamente dal luogo dove questa stessa domanda, come ogni domanda, sorge, e questo non metaforicamente, ma in sede pratica, attraverso la meditazione.
La meditazione è proprio questo: ri-vedere e ri-domandare dall’origine di ogni esperienza.
Pratico la meditazione da oltre trent’anni. Attraverso di essa ho trovato le risposte che cercavo alle domande di identità profonda e di senso.
La dimensione della meditazione è quella di disciplina dell’indagine e in ciò ben si concilia con il bisogno critico che connota la mente occidentale. Al meditante vengono forniti mezzi per edificare atteggiamenti di osservazione nel silenzio interiore. Si risveglia un’altra mente, che la nostra vita ordinaria non conosce. Le intuizioni giungono con risonanza profonda e persuasiva, aprendosi al confronto da un lato con la tradizione, dall’altro con la contemporaneità. La meditazione offre una visuale sconosciuta all’occidentale: lo sguardo che scaturisce dall’origine di ogni pensare.
Questa Via è praticabile anche oggi.
Come ho scritto nella puntata precedente, ogni civiltà è caratterizzata dalla domanda fondamentale a cui cerca risposta. Qui aggiungo: e dai mezzi che adotta per cercare la risposta. I due aspetti sono interconnessi.
La meditazione mira alla conoscenza. Essa è uno dei mezzi che l’umanità ha affinato per la soluzione di una tensione al vero e all’autentico.
Qui presenterò tale mezzo, cioè le pratiche incentrate sull’immobile postura, il controllo delle “energie vitali” e l’attingimento a capacità intuitive non accessibili nella vita ordinaria. Tale mezzo corrisponde alla domanda che gli Indiani si sono posta: “Come uscire dal ciclo delle rinascite? Qual è l’essenza ultima di colui che vi è coinvolto?”. Non è una domanda bizzarra, è lo stesso che chiedersi “Perché esisto? Che senso ha che io continui a vivere parteggiando per una condizione che non ho in nessun modo scelto?”, ma in versione ancor più tragica, poiché gli Indiani hanno incentrato tale domanda sul continuum coscienziale che, in preda a ignoranza ontologica, da una semieternità si reincarna nel ciclo  delle vite pregne di sofferenza, il samsara.
La tradizione orientale ha trasmesso diverse forme di meditazione di cui evidenzierò tre categorie:
dhyana, la meditazione vera e propria in senso tradizionale, veicola la conoscenza attraverso il vedere e indaga nella natura ultima del soggetto “veggente”;
la bhakti, il “calore” del cuore, la contemplazione devozionale, è incentrata sull’aspirazione ad essere accolti dalla divinità fino all’unione con essa;
la meditazione incentrata sulla shunyata mira a realizzare la “inesistenza di essenza intrinseca” di ogni esperienza, incluso quella del soggetto esperente (anatman).
Questa puntata tratterà  di dhyana. Il termine deriva dalla radice dhi, “tenere la mente su…”, e la pratica della meditazione dhyana veicola la conoscenza attraverso il vedere; ‘vedere’ in senso lato, ma sempre un vedere, sia esso sensoriale che mentale.
In ultimo, il vedere in questione, sebbene possa sovrapporsi ai canali sensoriali, ne è indipendente: è il ‘vedere’ da parte della coscienza.
La sapienza incentrata sul vedere si riflette sia nel verbo greco eidéo (da cui idea) che nel termine sanscrito veda; entrambi stanno per il sapere derivante dall’avere ‘visto’.
Gli antichi saggi vedici erano i rishi, termine molto probabilmente derivato dalla radice sanscrita drś, ancora significante ‘vedere’. Ancora oggi, in India, un grande saggio è chiamato maha-rishi, così come l’a me carissimo Bhagavan Shri Ramana Maharshi, oppure il famosissimo Maharishi Mahesh Yogi, che fu il “guru dei Beatles”.
Gli indiani definiscono sei sensi, indriyas: i noti cinque più il senso mentale che è quello che usiamo per vedere ricordi, immaginazioni, ecc.
Vi propongo un esercizio.
Fate in modo di ritirarvi in un luogo veramente buio, come lo è una grotta dove dall’esterno non filtra neppure un fotone; naturalmente una stanza opportunamente oscurata andrà ugualmente bene.
Disponetevi in una posizione seduta comoda che possa essere mantenuta nella totale immobilità  per qualche minuto.

Quello che potrete notare è  che si ha lo stesso spettacolo (il buio) sia a occhi chiusi che a occhi aperti. Vedete il buio. Da dove? Qual è il punto di provenienza di quell’incontestabile vedere che non necessita di luce? Prendete sul serio l’indicazione che vi suggerisco… potreste avere sorprese interessanti.
Curiosità: per secoli adepti di sette yoga, indu, buddhiste e jainiste, hanno scelto di farsi murare in grotte buie per praticare a fondo l’ascesi della ‘mente fondamentale’ non più disturbata dai fenomeni visivi e sensoriali in genere. Io stesso ho potuto visitare tali luoghi sull’Himalaya, in Orissa e in Kerala.
Alla categoria della meditazione basata sul vedere appartengono i Veda, il Vedanta, lo Yoga e i Tantra – questi ultimi oggi grottescamente distorti in un mercato dell’eros “mistico”.
Il Vedanta può essere inteso come compiuta espansione delle premesse contenute nei Veda, i testi sapienziali più antichi, che qualcuno giunge a datare fino al 2000 a.C.
I Veda sono incentrati sul sacrificio e sulla ‘visione’, spesso indotta dal soma, succo di una pianta in qualche maniera alterante la coscienza ordinaria.
Viene da pensare che la meditazione, intesa come profondo assorbimento alle radici della coscienza veggente, possa essere stata ispirata da stati alterati indotti dall’assunzione di sostanze. Anche oggi, in India, molti sadhu, gli asceti delle foreste o delle montagne, fumano ritualmente il ganja (gàngia) e il chàras, derivati dalla cannabis. Purtroppo la cosa ha prodotto molti danni ai giovani occidentali che, dagli anni ’60 hanno cominciato ad intraprendere il “trip indiano” e ad abusare delle sostanze alteranti gli stati coscienza senza retroterra adeguato, ma solo come molto ingenua ricerca interiore o come esigenza di evasione. Spesso cadono vittime di veri e propri episodi psicotici. Ne scrivo perché in India ne ho visti e conosciuti in abbondanza e molti di loro non sono più tornati a casa, senza però diventare sadhu…
Il vedere è ben esemplificato nello Yogasutra di Patanjali, yogi e maharishi, la cui vita non è databile con precisione, riscontrandosi almeno due Patanjali autori di scritti famosi. Il primo è datato al III-II sec. a.C. ; il problema è che tra il primo e il secondo Patanjali corrono sei, sette secoli. Dal momento, però, che la sapienza in India è da sempre trasmessa principalmente per via orale, la redazione degli Yogasutra è solo un evento lungo il filo della trasmissione iniziato chissà quando.
Patanjali evidenzia la struttura base dell’esperienza cosciente nella bipolarità testimone veggente-spettacolo visto. Chiama l’origine drashtar , ossia “colui che vede”, dalla suddetta radice drś, vedere. Egli dice che “si ha lo stato di Yoga quando il veggente si reinstalla nel proprio originario stato”, e che “altrimenti si identifica con le modificazioni della mente”, cioè con pensieri, immagini, percezioni, emozioni, che chiama vritti, termine che richiama il nostro ‘vortice’.
Anche Shankara, il grande mistico e filosofo dell’advaita vedanta, si fonda sulla distinzione veggente-visto, mirando, però, superare in ultimo la dualità ed attingere all’atman, la suprema coscienza alla cui luce tutto è a-dva, non due. Celebre, a riguardo, è la sua opera Drg drshya viveka, la discriminazione tra veggente e visto.
Il ritorno in sé del soggetto veggente, grazie a diverse pratiche di autoreferenza, è  quindi la condizione verso la piena verità realizzata negli assorbimenti più profondi, i vari samadhi.
Altro esempio interessante è la definizione delle caratteristiche della “mente fondamentale di Chiara Luce”, menzionata nel Buddhismo tantrico, come ‘non ostruzione e sensibilità’; con ciò si intende che la mente fondamentale non ha ostacoli in sé, che è come spazio senziente. A tale mente fondamentale si perviene attraverso la costruzione di spettacoli visualizzati (mandala) nel campo mentale e poi con la loro eliminazione lasciandoli dissolvere nella stessa spazialità senziente che li ha originati. Riscontriamo anche qui la medesima struttura che abbiamo incontrata nello yoga e in Shankara.
I livelli raggiungibili sono estremamente profondi e rarefatti, eppur riconoscibili e vivibili con consapevolezza. Nell’analisi del processo di morte che si trova nel Libro tibetano dei morti, attribuito a Padmasambhava, mistico buddhista, apostolo del buddhismo in Tibet, si accenna allo stato di Chiara Luce della morte, esperienza riconoscibile solo al culmine del processo di riassorbimento degli elementi nella mente fondamentale, processo che chiamiamo ‘morte’.
L’assunto di base delle vie di meditazione incentrate sul vedere è che nel luogo sorgivo del vedere (non del visto) vi sia il vero, il non condizionato, la vera essenza, la verità che libera dalla sofferenza del ciclo delle rinascite, il samsara. Gli Indu la chiamano atman o purusha, certi Buddhisti la chiamano Chiara Luce o Natura di Buddha, i Giainisti, jiva.
Sottolineo che, in questa impostazione della meditazione, il polo importante è quello della provenienza del vedere.
Il passo importante consiste nella ritrazione dell’attenzione lungo i canali sensoriali, passo tematizzato, negli otto membri dello Ashtanga yoga, di Patanjali come pratyahara. In tale sezione di pratiche sono considerate precise tecniche, per ogni canale sensoriale, per ritrarre l’attenzione alla sua scaturigine coscienziale. Si possono risalire i canale dalla vista oculare, dell’udito, del gusto, del tatto, dell’olfatto e della vista interiore, il “sesto senso o terzo occhio”. Quest’ultimo canale è estremamente potente e ad esso, in qualche modo, afferiscono tutti gli altri canali. È, perciò, cruciale l’autoreferenza, il riassorbimento in sé del vedere coscienziale, come se l’occhio tentasse di vedersi, il che è impossibile, però con la coscienza qualche passo in più si può fare.
Il nostro viaggio continua affrontando un passaggio chiave della pratica: la conquista della postura seduta, asana, attraverso le pratiche energetiche.
Dhyana, tema affrontato nella puntata scorsa, va praticata in posizione seduta ‘stabile e comoda’, secondo la definizione di Patanjali.
Il pensatore occidentale non dà la minima importanza alla posizione del corpo durante l’indagine mentale. Sappiamo che D.T. Suzuki, che aveva alle spalle un importante percorso di meditazione zen, incontrò Heidegger. Durante il confronto, Suzuki chiese se Heidegger riconoscesse importanza  alla posizione del corpo nell’indagine dell’essere. Questi rispose che aveva notato come, la mattina, al risveglio, quando, nel letto, il corpo era rilassato e immobile, gli capitasse di avere profonde intuizioni. Credo questo succeda a molte persone inclini alla riflessione profonda, ma non è ancora ‘postura’ di meditazione.

Il mio maestro di Yoga, Gérard Blitz (1912 – 1990), che fu allievo di Shri Tirumalai Krishnamacharya (1888 – 1989), uno degli yogi più rinomati e stimati del ‘900, insegnava che il filo conduttore nella pratica portava da asana a dhyana, attraverso pranayama.
È oltremodo importante assaporare lo stato di lucidità ed evidenziazione del principio veggente a cui tale filo conduttore porta.

Blitz fece molte esperienze, tra cui quella zen, sia con Deshimaru roshi, pioniere dello Zen in Europa, che con altri. Prese anche voti religiosi laici e, quando morì, nella camera ardente vestiva il kesa, parte dei vestimenti religiosi del monaco zen.
Blitz ci raccontò di come, avendo preso i voti mahayana di beneficiare tutti gli esseri senzienti, e intrapreso l’insegnamento, si ponesse il problema di che strumento adottare per insegnare la meditazione agli occidentali. Egli aveva osservato quanto noi patissimo nell’essere “scaraventati” sul cuscino nero per la meditazione, zafu, nella posizione seduta secondo la tradizionale metodica pedagogica giapponese. In effetti può essere un’esperienza un po’ traumatizzante. Molti anni fa partecipai ad uno di questi ritiri zen. V’era una quantità di gente entusiasta di provare lo zazen. Via via che le sedute venivano intervallate dalla camminata kinhin, che serve a riposare le gambe e la schiena, e a fare la capatina in bagno, notavo ogni volta che il numero dei praticanti diminuiva. All’ultima seduta ci ritrovammo a malapena un quinto del numero che aveva iniziato… Noi non abbiamo dimestichezza alcuna con la posizione seduta immobile né la nostra tradizione ci motiva a mantenerla. Né il pensare né il meditare, in Occidente, sono considerati attività necessitanti di immobilità.
Blitz, forte dell’esperienza Yoga, si risolse ad usare tale Via per introdurre gli occidentali alla meditazione. In ciò fu un genio. Il suo metodo è quanto di più diretto ed efficace io conosca per introdurre la gente agli stati di assorbimento profondo.
Accade regolarmente che chi si avvicini allo Yoga, al termine di una sequenza di posture strutturate secondo il metodo trasmesso da Blitz, si trovi seduto immobile e assorto e vi resti per un’ora in uno stato psicofisico dove, come dice Patanjali, i dvandva, i fattori distraenti, sono totalmente neutralizzati; e ciò senza avere mai meditato prima. Il che è, viceversa, piuttosto inconsueto nell’introduzione ‘secca’ e tradizionale allo Zen.
Chi pratica le Vie orientali scopre un aspetto sconosciuto agli occidentali che viene genericamente denominato “energie sottili”, prana, ki, chi, a seconda del contesto tradizionale in cui si è sviluppata la specifica disciplina: Yoga, Aikido, Shiatsu, Tai Chi Chuan, Chi Kong…
Pratico le Vie dai primi anni ‘70, avendo iniziato col Judo, continuato con lo Yoga e l’Aikido, attraverso esperienze di Zen e di Buddhismo in generale e ho abbastanza esperienza da concludere che, sebbene il prana
Quello che gli orientali ci insegnano, è che il prana può essere “educato” e disciplinato, sia in via diretta, ossia dal prana verso gli stati mentali, che in via inversa, da questi ultimi al prana.
Come illustra Itsuo Tsuda in La scuola della respirazione, il ki,  termine con cui un giapponese chiama la forza vitale, è legato a quel che si può esprimere come un “andarne” negli eventi della vita. Il prana si muove con la disposizione morale di fondo, ossia “in che misura e modo ne va”. Esso è espressione del nostro rapporto con l’esistenza. Riflettiamo su come ci sentiremmo se venissimo forzatamente privati del cibo per una settimana: spossati fisicamente e svuotati moralmente, da ricovero. Al contrario, se decidessimo di digiunare per motivi salutistici o, soprattutto, spirituali, saremmo ritti e fieri di noi. Una mia allieva ha digiunato per ventuno giorni continuando l’attività ordinaria e conservando, anzi sviluppando una particolare luce negli occhi. Non c’è stato bisogno di alcuna assistenza medica e la sua salute era decisamente migliorata.
Ho personalmente conosciuto un anacoreta russo, lo staretz Nicodim, morto nel 1984, che aveva vissuto a Karoulia, il ‘deserto verticale’ all’estremo sud della penisola del Monte Athos, il quale ogni anno passava i quaranta giorni della Quaresima in totale digiuno, solo bevendo tisane. Lo incontrai nel 1981, quando aveva più di novant’anni. I suoi capelli erano ancora scuri e i suoi occhi testimoniavano l’Infinito.
Commentai con un monaco serbo, anch’egli di Karoulia: “Lo staretz Nikodim ha digiunato come Gesù nel deserto…”
La risposta fu: “No, Gesù l’ha fatto una volta sola!”
Aggiungo una curiosità sullo staretz: si era ritirato al Monte Athos prima della rivoluzione d’ottobre del 1917, della vicenda sovietica non aveva nessuna esperienza!
Tutto dipende dal rapporto con cui intraprendiamo qualsiasi cosa. A seconda che ci sentiamo di subirla o, viceversa, di esserne protagonisti, il prana cambia completamente.
Alcune Vie iniziano contemplando “preliminari” etici e devozionali; nel sistema Yoga, yama e niyama sono i precetti rivolti al vivere sociale e quelli rivolti all’interiorità; nel Buddhismo tibetano, oltre a quelli, anche il Ngondro, il Guru Yoga, una pratica che può prendere diverse forme, tra cui famosa è quella delle prostrazioni. Di solito se ne eseguono 110.000. A Bodhgaya, il luogo dove il Buddha si illuminò, si vede quotidianamente una quantità di monaci e monache tibetani eseguire le prostrazioni da mattina a sera, oltre ad altre pratiche dello stesso tenore e significato come l’ “offerta del mandala” . Ciò serve a “purificare l’intenzione” di intraprendere pratiche meditative profonde.
Quando il cuore è “sincero”, unificato e sereno, allora si possono ricevere istruzioni più avanzate senza rischi psichici.
Il prana, quindi, è associato al nostro rapporto con ciò che viviamo.
Sulla base del cuore “sincero ed unificato” si affina il flusso energetico con la disciplina di movimenti e posture, come nello hatha yoga, del respiro, pranayama, dei mantra sonori o mentali, dei mudra, “sigilli”, cioè gesti ed espressioni, e delle visualizzazioni, yantra, mandala.
Sul terreno energetico adeguato può essere operata la ritrazione dei sensi, pratyahara e il principio veggente, di cui ho trattato nella precedente puntata, evidenziandosi in tutto il suo misterioso fulgore, può essere indagato. La meditazione può dare frutti.
Naturalmente, per esigenze di spazio, non posso affrontare in dettaglio l’iter delle varie tradizioni induiste e buddhiste, ma, in generale, la struttura vale per entrambe.
Più di tutto, vale la “sincera motivazione”, espressa come Ishvara pranidhana, l’abbandono a Dio, in Patanjali, e come bodhichitta, la mente che pratica per il bene di tutti gli esseri sofferenti, nel Buddhismo mahayana.
Ciò è connesso in modo essenziale al prana e alle condizioni di pratica. possa essere in parte studiato e spiegato fisiologicamente, esso non si esaurisca nella sola fisiologia; e che lo stesso valga per la coscienza e la radice della vita.

Una storia interessante: un monaco praticante di Tummo, uno dei “Sei yoga di Naropa”, fu imprigionato dai cinesi e patì umiliazioni e torture. Per l’interessamento di organizzazioni internazionali ottenne la libertà e fuggì in India dove incontrò il Dalai Lama. Questi si fece raccontare le vicende patite dal monaco e, verso la conclusione, gli chiese se avesse mai avuto paura. Il monaco rispose che sì, un paio di volte aveva avuto paura di iniziare ad odiare i suoi aguzzini!
L’accoglimento di un sentimento “impuro” come l’odio, uno dei cinque “difetti mentali” secondo il Buddhismo, avrebbe inficiato il suo voto mahayana di beneficiare tutti gli esseri sofferenti, cinesi inclusi, e con ciò la sua ascesi verso l’illuminazione. Il Tummo, il risveglio del calore interno, pratica pranica per eccellenza, esige un cuore pulito, direi innocente.

Franco Bertossa.La Meditazione, alle origini del domandareultima modifica: 2010-12-04T16:56:48+01:00da mangano1
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