Maria Turchetto, Dall'”operaio massa” all'”imprenditorialità comune”

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Dall'”operaio massa”
all'”imprenditorialità comune”:
la sconcertante parabola dell’operaismo italiano

di Maria Turchetto

L’articolo rappresenta una versione ampliata della voce “operaismo” destinata al Dictionnaire Marx contemporain, a cura di J. Bidet e E. Kouvélakis, PUF, Paris, 2OO1

Non è difficile, almeno in Italia, trovare un accordo linguistico sul termine “operaismo”. Non ci sono dubbi sulle principali riviste intorno a cui si è formato questo filone di pensiero negli anni ’60 e ’70 (Quaderni Rossi, Classe Operaia, Potere Operaio), né sugli autori che ne sono i principali esponenti (Raniero Panzieri, Mario Tronti e Antonio Negri hanno senz’altro una posizione di spicco sui molti altri che hanno dato contributi anche molto importanti[1]). Soprattutto, è impossibile non riconoscere un “operaista”, se ne incontri uno: a quasi quarant’anni dalla sua nascita (che ritengo sia lecito far coincidere con la pubblicazione del primo numero di Quaderni Rossi, nel giugno del 1961), l'”operaismo” si è sedimentato in “mentalità”, atteggiamento, lessico.
In effetti, nonostante sviluppi, correzioni, svolte e varianti abbiano ormai prodotto al suo interno una varietà di posizioni, l'”operaismo” ha mantenuto, se non un’autentica coerenza teorica, almeno una marcata fisionomia. Alcuni assunti di fondo, diventati nel tempo veri atteggiamenti mentali, l’uso di certi passi di Marx (l’arcinoto frammento sulle macchine dei Grundrisse[2], citazione ormai rituale), alcune “parole chiave” (general intellect, composizione di classe, autonomia) funzionano ancora oggi come un forte dispositivo di riconoscimento. Dispositivo forse più linguistico che teorico, più evocativo che realmente propositivo, e che tuttavia serve da riferimento a vari spezzoni di quello che è stato il “movimento” (altra parola chiave) degli anni ’70.
Di fatto, oggi l'”operaismo” italiano è soprattutto questo riferimento impoverito, questa raccolta di parole che tiene il posto di una teoria e che regala unità e identità apparenti a posizioni confuse, ostaggio di volta in volta delle mode culturali o delle nostalgie. Tuttavia questa resistenza, questa capacità di sopravvivere e di offrire almeno l’evocazione di un pensiero diverso nei tempi bui del pensiero unico, segnalano una forza originaria che va presa sul serio.

Gli anni ’60: l'”operaio massa”.

Partiamo dunque dalle origini: dagli anni ’60, dall’esperienza dei Quaderni Rossi e dal gruppo di giovani teorici (Panzieri, Tronti, Alquati) che anima questa rivista.
Gli anni ’60 vedono le organizzazioni storiche della classe operaia ligie all’idea ortodossa del progressivo “sviluppo delle forze produttive”, motore del cammino dell’umanità verso il comunismo, provvisoriamente ostacolato dall'”anarchia del mercato” e distorto dall’iniqua distribuzione della ricchezza sociale che caratterizzano il capitalismo. Quest’idea, che intende il capitalismo come proprietà privata e mercato e gli contrappone un socialismo inteso come proprietà pubblica e pianificazione, comporta la sostanziale accettazione dell’organizzazione capitalistica della produzione. L’elaborazione di Raniero Panzieri pone alcune premesse teoriche decisive per una critica radicale di questa impostazione, mettendo seriamente in discussione la visione apologetica del progresso tecnico-scientifico caratteristica della tradizione marxista. In Plusvalore e pianificazione, egli scrive:

“Di fronte all’intreccio capitalistco di tecnica e potere la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può, evidentemente, fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (di proprietà), concepiti come involucro che a un certo grado di espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere semplicemente perché divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono ‘plasmate’ dal capitale”[3]

In questa prospettiva, la scienza, la tecnica, l’organizzazione del lavoro venivano sottratti al limbo di uno “sviluppo delle forze produttive” in sé razionale e separato dalle determinazioni sociali, per configurarsi come luogo fondamentale del dominio “dispotico”[4] del capitale.
E’ bene sottolineare l’importanza teorica di questa critica: la sua originalità fa dell’operaismo italiano di quegli anni un punto alto dell’elaborazione marxista europea. Da un lato, infatti, si tratta di una vera “rivoluzione copernicana” rispetto al marxismo ufficiale di matrice terzinternazionalista; dall’altro, non segue le vie “filosofiche” (l'”umanesimo”, come dirà Althusser) della Scuola di Francoforte e del cosiddetto “marxismo occidentale”, fino ad allora uniche voci dissonanti dall’ortodossia nel panorama europeo, stringendo ben più stretti legami con le lotte operaie.
La svolta di Panzieri conduce innanzitutto a rivalutare alcune parti dell’analisi marxiana largamente trascurate dalla tradizione marxista: non solo il già citato frammento sulle macchine dei Grundrisse, destinato a diventare negli anni successivi il Testo per eccellenza[5]; ma anche (e soprattutto, in questa fase) le tematiche della IV sezione del Libro I del Capitale e il Capitolo VI inedito. Alcune fondamentali categorie utilizzate da Marx nell’analisi dell’industria meccanizzata (i concetti di sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale, l’idea dell’espropriazione “soggettiva” dei produttori rispetto alle “potenze mentali della produzione”, ecc.[6]) vengono recuperate e applicate allo studio del “neocapitalismo” e della fabbrica fordista. Si fa strada l’idea che l’espressione “modo di produzione” impiegata da Marx vada intesa assai più alla lettera di quanto non abbia fatto il marxismo tradizionale, che dunque le concrete modalità di erogazione del lavoro entro un’organizzazione finalizzata all’estrazione di plusvalore rappresentino il cuore del problema. Il capitalismo, dunque, non coincide più con la proprietà privata e con il mercato, ma è anzitutto un tipo di organizzazione del lavoro che trova espressione compiuta nei canoni del taylorismo e del fordismo.
Né si tratta soltanto di un “ritorno a Marx”, poiché la strumentazione analitica ritrovata nei testi marxiani serve innanzitutto a leggere i processi in atto in Italia – gli effetti dello sviluppo economico accelerato del dopoguerra e delle migrazioni dal Sud verso le capitali del Nord – e a sviluppare nuove e originali categorie interpretative. Nascono qui i concetti di “composizione di classe” e di “operaio massa”, destinati a diventare parole chiave nei successivi sviluppi dell’operaismo (ma anche ad essere ampiamente recepite non solo in ambito marxista) e già presenti in un saggio di Romano Alquati sulla forza-lavoro all’Olivetti di Ivrea[7]. L'”operaio massa” è il nuovo soggetto produttore del “neocapitalismo”, tecnicamente dequalificato rispetto alla precedente figura dell'”operaio di mestiere’: è dunque “soggettivamente espropriato” e “realmente subordinato” al capitale, e inoltre sradicato socialmente e politicamente privo di tradizioni, ma viene considerato portatore di una potenzialità conflittuale fortissima. La “composizione di classe”[8] vuole esprimere il nesso tra i connotati tecnici, oggettivi, che la forza-lavoro presenta in un dato momento storico per la sua collocazione entro l’organizzazione capitalistica del processo produttivo, e quelli che sono invece i suoi connotati politici, soggettivi: è appunto la sintesi di questi aspetti a determinare il potenziale di lotta della classe.
Questa elaborazione teorica trova un preciso referente nella pratica delle lotte di fabbrica degli anni ’60. Sono gli anni in cui si va formando una forte opposizione contro la linea sindacale ufficiale incentrata sulla difesa della “professionalità” operaia, linea che si era consolidata negli anni ’50 configurandosi come tentativo di difendere la forza contrattuale conquistata con le lotte del primo dopoguerra. I limiti di questa battaglia difensiva, che si basava su una non problematizzata identificazione della “professionalità” con le “qualifiche” dettate dall’organizzazione capitalistica del lavoro, emergono proprio quando quest’ultima viene pesantemente modificata dall’introduzione su larga scala dei metodi tayloristici e della catena di montaggio. Di fronte a queste trasformazioni, che si accompagnano all’inserimento nelle grandi fabbriche del Nord di migliaia di giovani meridionali inquadrati come operai comuni, la parola d’ordine della professionalità si trasforma in uno strumento che indebolisce e divide la classe operaia, difende posizioni acquisite in un assetto produttivo che non esiste più nei fatti, finisce addirittura con lo sposare le nuove filosofie aziendali che predicano la collaborazione tra lavoratori e imprenditori e l'”integrazione del lavoratore nell’azienda”. Come scrive Panzieri, nella posizione ufficiale del sindacato

“la sostanza dei processi di integrazione viene accettata, riconoscendo in essi una intrinseca necessità, che scaturirebbe fatalmente dal carattere della produzione ‘moderna’ […]. Non si sospetta neppure che il capitalismo possa servirsi delle nuove ‘basi tecniche’ offerte dal passaggio dagli stadi precedenti a quello di meccanizzazione spinta (e all’automazione) per perpetuare e consolidare la struttura autoritaria dell’organizzazione della fabbrica”[9].

La demistificazione della parola d’ordine della professionalità, la ripresa dei temi dell’alienazione e della dequalificazione del lavoro, l’individuazione della omogeneizzazione della stratificazione operaia verso il basso che tali fenomeni comportano hanno dunque, in questa fase, un’evidente portata pratica. Lo strumento dell’inchiesta, cui il gruppo di Quaderni Rossi crede fortemente, aiuta a scavare in questa direzione e a coniugare l’elaborazione teorica con la ricerca sul campo.
Questo “operaismo” delle origini – in buona sostanza, l’elaborazione dei primi Quaderni Rossi – sembra avere le carte in regola per essere una buona teoria: una teoria che possiede una forte valenza critica, che produce strumenti analitici, che orienta la prassi.

Fabbrica e società.

L’ondata di lotte operaie che culmina nell'”autunno caldo” del 1969 sembra fornire alle premesse teoriche dell’operaismo una straordinaria conferma. L'”operaio massa” dà prova non solo la propria esistenza, ma anche dell’auspicata potenza conflittuale. E’ una figura socialmente reale e un soggetto politicamente forte, capace di porsi come punto di riferimento per gli altri movimenti che in quegli anni si esprimono nella società: potrebbe essere l’avanguardia di un movimento rivoluzionario italiano.
Sul nesso tra lotte di fabbrica e progetto rivoluzionario, per la verità, sono già sorte divisioni all’interno di Quaderni Rossi. Nel luglio 1963, Tronti, Negri, Alquati e altri escono dalla redazione di Quaderni Rossi per dar vita, l’anno successivo, alla rivista Classe operaia. A proposito di questa vicenda, con allusione critica alle posizioni di Tronti, Panzieri scrive:

“Un aspetto importante nella situazione di oggi è nel pericolo di scambiare in modo immediato la ‘feroce’ critica verso le organizzazioni implicita, e spesso esplicita, nei comportamenti operai […] per una immediata possibilità di sviluppo di una strategia rivoluzionaria globale, ignorando il problema dei contenuti specifici e degli strumenti necessari alla costruzione di tale strategia”[10].

La continuità istituita da Tronti tra lotte operaie e rivoluzione, contestata da Panzieri, si regge su due chiavi di volta: da un lato, la peculiare teoria del nesso tra fabbrica e società che questo autore propone già nel saggio La fabbrica e la società[11] e che rappresenta il nodo centrale di tutta la sua elaborazione; dall’altro, l’idea che la logica della fabbrica si estenda progressivamente all’intera società, idea almeno in parte presente anche in Panzieri e destinata ad essere condivisa, pur con varianti diverse, da tutti i successivi sviluppi dell’operaismo.
Secondo Tronti, tra fabbrica e società si pone innanzitutto un rapporto di opposizione: la vera contraddizione del capitalismo, per questo autore, non è quella tra “forze produttive” e “rapporti di produzione” teorizzata dal marxismo ortodosso, ma quella che oppone il “processo produttivo” che si svolge nella fabbrica al “processo di valorizzazione” che si svolge nella società[12]. Nella società la forza-lavoro si presenta come valore di scambio: in questo ruolo, il lavoratore è succube del mercato, atomizzato, inerme e passivo consumatore, incapace di sviluppare qualsiasi resistenza al capitale. Nella fabbrica, al contrario, la forza-lavoro è valore d’uso: in quanto tale, benché acquistata dal capitalista, non cessa di appartenere al lavoratore stesso che, su questa base, conserva la propria capacità antagonista e anzi, inserito nel meccanismo della produzione cooperativa, la sviluppa in forme di azione collettiva.
Solo la fabbrica, dunque, produce antagonismo. Se questo è vero, un problema di strategia rivoluzionaria più complessa rispetto alla spontaneità delle lotte di fabbrica, come quello prospettato da Panzieri nel passo precedentemente citato, non si pone nemmeno. Ad esempio, non si pone un problema di collegamento tra lotte operaie e altre forme di protesta emergenti nella società. Come nota Palano,

“lo schema di Tronti non lasciava alcuno spazio alla comunicazione reciproca delle lotte tra fabbrica e società: […] i conflitti che fuori dai settori della produzione immediata vedevano coinvolti soggetti non salariati – in primo luogo gli studenti – non potevano avere che un ruolo di semplice sostegno ideologico o di supporto organizzativo”[13].

Nell’impostazione trontiana, dicevamo, il problema del collegamento tra lotte di fabbrica e lotte sociali non si pone. Anzi: si risolve da solo. Lo sviluppo capitalistico, infatti, estende progressivamente la fabbrica alla società, “fabbrichizza”[14] la società, dunque l’iniziale opposizione di fabbrica e società è destinata a risolversi nel prevalere del primo termine sul secondo. Come aveva già detto Panzieri:

“Quanto più si sviluppa il capitalismo, tanto più l’organizzazione della produzione si estende a tutta intera l’organizzazione della società”[15].

Tronti ribadisce:

“Al livello più alto dello sviluppo capitalistico, il rapporto sociale diventa un momento del rapporto di produzione, la società intera diventa un’articolazione della produzione, cioè tutta la società intera vive in funzione della fabbrica e la fabbrica estende il suo dominio esclusivo su tutta la società”[16].

La somiglianza delle formulazioni citate nasconde, in realtà, differenze significative. Per Panzieri, l’estensione della logica della fabbrica alla società consiste fondamentalmente nella crescita degli aspetti di pianificazione economica che caratterizzano il “neocapitalismo” rispetto a precedenti fasi più “anarchiche”. Da questo punto di vista, Panzieri risulta piuttosto allineato al marxismo ortodosso che legge lo sviluppo storico del capitalismo come una successione di “stadi” in cui il primo, rappresentato dal capitalismo concorrenziale, è seguito da forme sempre più “regolate”: il capitalismo mono-oligopolistico prima, nell’epoca in cui lo teorizzarono Lenin e Kautsky; il “capitalismo pianificato” (concetto non dissimile da quello di “capitalismo monopolistico di Stato” impiegato dal marxismo ufficiale), nell’epoca contemporanea. L’unica critica, per altro abbastanza scontata in quegli anni, all’impostazione tradizionale consiste nel negare che, in questo sviluppo a stadi, si possa identificare uno “stadio ultimo”:

“La pianificazione autoritaria come espressione fondamentale della legge del plusvalore e la tendenza alla sua estensione alla produzione sociale complessiva sono intrinseche all’intero sviluppo capitalistico: nella fase attuale questo processo appare con maggiore evidenza, come tratto distintivo delle società capitalistiche, in forme che sono irreversibili. Ciò non significa, naturalmente, che oggi vada realizzandosi l”ultimo stadio’ del capitalismo, che è espressione priva di senso”[17].

In ogni caso,

“resta fondamentale […] la capacità del sistema capitalistico a reagire alle conseguenze distruttive del funzionamento di certe ‘leggi’, passando a uno stadio ‘superiore’, introducendo nuove leggi, destinate a garantire la sua continuità”[18].

Nell’impostazione di Tronti, l’idea della progressiva “fabbrichizzazione” della società ha, a ben vedere, un significato diverso: non designa tanto l’umentato ricorso a forme di regolazione e pianificazione, quanto piuttosto la crescente funzionalità di sfere dell’agire sociale diverse dalla produzione alla produzione stessa. I due autori, con formulazioni apparentemente simili, designano di fatto diverse fenomenologie: in Panzieri l’idea del “piano” che dalla fabbrica di estende alla società si riferisce, in sostanza, al fenomeno della crescente concentrazione capitalistica e ai suoi effetti[19] (con toni che evocano a volte il “superimperialismo” di kautskiana memoria); in Tronti l’idea dell’estensione della fabbrica allude invece principalmente al fenomeno della crescente terziarizzazione dell’economia. Contro l’interpretazione moderata corente, che legge la crescita del settore impiegatizio e dei servizi come aumento dei ceti medi e conseguente diminuzione della classe operaia, Tronti vede in tali processi la “riduzione di ogni lavoro a lavoro industriale”[20]: dunque la generalizzazione del rapporto di lavoro salariato, la proletarizzazione di vasti strati della popolazione, la sottomissione diretta alle esigenze della produzione di settori tradizionalmente considerati improduttivi.
Il fondamento teorico di questa analisi risiede in una lettura piuttosto “hegeliana” dell’indicazine contenuta nell’Introduzione del 1857 di Marx, secondo cui la produzione può essere considerata, da un lato, come momento “particolare” accanto agli altri momenti particolari del processo economico (distribuzione, scambio, consumo), dall’altro, come momento “generale” che “abbraccia e supera tento se stessa […] quanto gli altri momenti”[21]. Tronti la interpreta non come distinzione concettuale, ma come processo storico[22]: col procedere dello sviluppo capitalistico, la produzione ingloba progressivamente gli altri momenti del processo economico, da cui era originariamente distinta:

“quanto più avanza lo sviluppo capitalistico, cioè quanto più penetra e si estende la produzione del plusvalore relativo, tanto più necessariamente si conchiude il circolo produzione-distribuzione-scambio-consumo, tanto più, cioè, si fa organico il rapporto tra produzione capitalistica e società borghese, tra fabbrica e società, tra società e Stato”[23].

Questa interpretazione è decisiva per gli sviluppi dell’operaismo successivo. E’ da queste premesse, infatti, che nasce l’idea dell'”operaio sociale”, intuizione forte ma anche fonte di equivoci e soprattutto via di fuga dalla realtà negli esiti estremi. Se la fabbrica ingloba la società ed estende ovunque la propria logica, se l’intero processo sociale è ormai integrato in un unico e organico processo di produzione-riproduzione, allora tutti i membri subordinati della società fanno parte di un complessivo “operaio sociale” contrapposto a un capitale che incarna, di contro, ogni “comando”.

Gli anni ’70: l'”operaio sociale”

Non sarà Tronti, in ogni caso, a trarre queste conclusioni. La categoria dell'”operaio sociale” prende forma negli anni ’70, gli anni bui della crisi, della ristrutturazione e della repressione politica, ed è al centro soprattutto dell’elaborazione di Antonio Negri.
Vediamo, anzitutto, il nuovo contesto. Dopo il 1973, il ciclo di lotte operaie entra in una fase discendente. Lo spettro della recessione economica, che diventa palese con la crisi petrolifera, funziona da pesante arma di ricatto per far passare una nuova ristrutturazione produttiva. Le nuove tecnologie informatiche ed elettroniche non sono ancora all’orizzonte o spuntano appena, delle virtù del “modello giapponese” non si parla ancora: ciò che al momento si prospetta è una ristrutturazione intesa soprattutto come razionalizzazione e ridimensionamento delle strutture produttive esistenti, con un pesante prezzo da pagare, in termini di salario e occupazione, per la classe operaia. La ristrutturazione, tra l’altro, ridefinisce un sistema di mansioni e qualifiche (emblematico il cosiddetto Inquadramento Unico introdotto alla Fiat) che spiazza l’ugualitarismo delle lotte degli anni ’60 e ridà fiato alla vecchia linea sindacale della difesa della “professionalità”: quest’ultima, da una funzione difensiva passa a una valenza decisamente reazionaria, diventando il veicolo per far passare una nuova divisione operaia e soprattutto per ottenere la mobilità della forza-lavoro. Attraverso i processi che accompagnano la ristrutturazione – riorganizzazione dei reparti, mobilità, ricorso alla cassa integrazione, licenziamenti – passa naturalmente l’eliminazione dei quadri operai più attivi, la “normalizzazione” dei reparti turbolenti, in una parola quella che potremmo definire una cosciente “scomposizione di classe”: lo smantellamento tecnico dei vecchi assetti produttivi è al tempo stesso smantellamento politico della forza operaia conquistata nel precedente ciclo di lotte.
Sul piano politico più generale, le organizzazioni storiche della sinistra continuano ad essere fedeli alla vecchia idea ortodossa dello “sviluppo delle forze produttive”. Il proletariato, anzi, è chiamato a risollevare la bandiera della “produttività” lasciata cadere da una borghesia sempre più “parassitaria”. Il Pci di quegli anni spinge questa ideologia fino all’accettazione integrale delle compatibilità capitalistiche, fino alle parole d’ordine dell'”alleanza dei produttori” (classe operaia e “capitale produttivo” contro le sacche parassitarie del capitalismo), dell'”austerità” e della “linea dei sacrifici” che tanta responsabilità avranno nella pesante sconfitta operaia degli anni ’80[24]. Ancora più grave è la complicità del Pci nel disegno di criminalizzazione del dissenso che viene portato avanti alla fine degli anni ’70 attraverso le leggi speciali emanate in seguito al caso Moro. Il terrorismo è l’alibi per reprimere tutto ciò che si muove al di fuori della sinistra parlamentare. Potere Operaio e altri movimenti che si richiamano alle posizioni dell’operaismo sono senz’altro tra le vittime designate.
In questo clima, la compagine operaista si divide lungo due linee principali che, da tentativi di risposta alla crisi, diventano vere e proprie vie di fuga: inizialmente, fuga verso altre realtà, diverse dalla fabbrica; alla lunga, fuga dalla stessa realtà, verso dimensioni sempre più utopiche e immaginarie.
La prima linea è quella imboccata da Tronti: l'”autonomia del politico”. Di fronte alle crescenti difficoltà e al tendenziale arresto delle lotte operaie – le uniche possibili, lo ricordiamo, nell’ottica di questo autore – Tronti taglia il nodo gordiano del rapporto fabbrica-società attribuendo allo Stato un’imprevista “autonomia” rispetto alla società. Si tratta perciò di rivalutare l’azione politica rispetto a quella rivendicativa e di riguadagnare il terreno dello Stato dove il “partito operaio” (anch’esso “relativamente” autonomo rispetto alla classe di riferimento) poteva sancire a livello istituzionale le conquiste delle lotte di fabbrica. La linea dell'”autonomia del politico” abbe vita abbastanza breve, e servì soprattutto a traghettare una parte dei militanti e dei teorici operaisti (i vari Cacciari, Asor Rosa – tanto per fare i nomi più illustri) sui lidi sicuri della politica parlamentare e dell’accademia ufficiale. L’esito di questa trahison des clercs piuttosto massiccia fu l’estinzione, insieme alle velleità rivoluzionarie, di ogni originalità teorica.
La via imboccata da Negri, quella dell'”operaio sociale”, si rivela tutto sommato più vitale. La nascita di questa nuova categoria, destinata a soppiantare quella di “operaio massa”, viene fatta generalmente risalire al saggio Crisi dello Stato-piano del 1971[25], ma certamente l’idea va precisandosi soprattutto nella seconda metà degli anni ’70. Nonostante il termine “Stato-piano” evochi il “capitalismo pianificato” di Panzieri, in realtà l’eleborazione di Negri è assai più vicina a quella di Tronti in tema di fabbrica e società, precedente alla svolta dell'”autonomia del politico”: è soprattutto il fenomeno della terziarizzazione, infatti, ad essere tenuto presente.

“Dinnanzi alle imponenti modificazioni provocate – o in via di essere determinate – dalla ristrutturazione, il corpo di classe operaia si distende e si articola in corpo di classe sociale […]. Dopo che il proletariato si era fatto operaio, ora il processo è inverso: l’operaio si fa operaio terziario, operaio sociale, operaio proletario, proletario”[26].

Oltre all’ispirazione trontiana, altre elaborazioni confluiscono nella tematica dell'”operaio sociale”: da un lato, le ricerche sociologiche di Alquati, che utilizza il termine per designare un nuovo soggetto politico, altamente scolarizzato e dunque assai diverso dall'”operaio massa” dequalificato, frutto dei processi di proletarizzazione e massificazione del lavoro intellettuale[27]; dall’altro lato, gli studi di carattere storico condotti dal Collettivo di Scienze Politiche dell’Università di Padova (di cui fanno parte tra gli altri, oltre allo stesso Negri, Sergio Bologna, Luciano Ferrari Bravo, Ferruccio Gambino) e che conducono a una nuova visione dello sviluppo capitalistico e dei suoi “stadi”, destinata a diventare un cardine del pensiero operaista.
L’idea che emerge da questi studi è quella di uno sviluppo capitalistico spinto non tanto dalla logica del profitto quanto dalle lotte operaie. Taylorismo e fordismo, in quest’ottica, rispondono alla necessità, per il capitale, di liberarsi dell'”operaio di mestiere” che trovava nella propria professionalità la leva per sviluppare un forte potenziale antagonista[28]. D’altra parte l'”operaio massa” che subentra all'”operaio di mestiere”, se inizialmente rappresenta una soluzione del problema (i suoi caratteri di dequalificazione e sradicamento politico e sociale gli impediscono di proseguire e sviluppare il conflitto nelle forme organizzative del ciclo di lotte precedente), successivamente si mostra capace di esprimere una propria e specifica capacità di resistenza, adeguata alla nuova organizzazione del lavoro, più collettiva ed egualitarista e per questi aspetti ancora più pericolosa per il capitale. La ristrutturazione degli anni ’70, di conseguenza, viene interpretata come necessità, per il capitale, di liberarsi dell'”operaio massa”: mossa momentaneamente riuscita, visto l’arresto della conflittualità di fabbrica, ma certamente i nuovi assetti produttivi faranno emergere un nuovo soggetto antagonista. E’ l'”operaio sociale”: già dedotto teoricamente, prefigurato a tavolino, non resta che attendere messianicamente la sua concreta manifestazione.
Negri porta a conseguenze estreme il determinismo implicito in questa catena di “stadi” rovesciata, in cui è la classe operaia a incalzare il capitalismo nello sviluppo della tecnica. Vi aggiunge uno stadio ultimo: quello profetizzato da Marx nel famoso frammento sulle macchine (è a partire da Negri che la citazione diventa rituale). Con l’enorme sviluppo tecnico e scientifico,

“il furto del tempo di lavoro altrui, su cui poggia la ricchezza odierna, si presenta come una base miserabile rispetto a questa nuova base che si è sviluppata nel frattempo e che è stata creata dalla grande industria stessa […]. Con ciò la produzione basata sul valore di scambio crolla”[29].

Negri non ha dubbi, la profezia di Marx è già realizzata: a creare ricchezza non è più il lavoro, ma la scienza e la tecnica, il general intellect che non risiede nella fabbrica ma nella società. Il capitalismo è già estinto, superato dal suo stesso sviluppo, economicamente inutile; sopravvive come pura volontà di dominio, mera coercizione “politica”, ormai sganciata dall’obbiettivo della valorizzazione.
Il risultato è paradossale, in quanto conduce a un completo rovesciamento delle posizioni originarie dell’operaismo. Da un lato, la vecchia idea ortodossa dello “sviluppo delle forze produttive” che muove la storia verso il comunismo, oggetto principale delle critiche sviluppate dai Quaderni Rossi, viene ripristinata: con l’unica differenza che, nell’impostazione di Negri, sono le lotte operaie (anziché “la legge del plusvalore”, come avrebbe detto Panzieri[30]) a costringere il capitale lungo le vie dell’innovazione tecnologica. Dall’altro lato, la resistenza al capitale, originariamente collocata nella sfera della produzione e ritenuta impraticabile negli ambiti della circolazione delle merci e del consumo, viene spostata nelle “pratiche della riproduzione della forza-lavoro”, categoria che comprende l’insieme dei comportamenti operai esterni alla fabbrica (dal consumo, alla scolarizzazione, all’organizzazione del tempo libero)[31], ritenuti dotati di “autonomia” e investiti di un’immediata valenza anticapitalistica.

Gli anni ’80: le utopie tecnologiche

Il ripristinato determinismo tecnologico, insieme alla fuga dalla fabbrica che la linea dell'”autonomia della riproduzione” configura, formano un terreno estremamente favorevole alla recezione del grande battage pubblicitario che, negli anni ’80, accompagna la prima grande ondata di diffusione delle tecnologie basate sull’informatica e sull’elettronica. Le vie di fuga imboccate hanno evidentemente spuntato le “armi della critica”, e le novità tecnologiche vengono prese per buone, con tutto l’apparato propagandistico che le accompagna, e che pure non era poi così difficile da smascherare.
La letteratura che negli anni ’80 accompagna l’avvento delle nuove tecnologie[32], in effetti, è apologetica in modo addirittura clamoroso: ottimista, carica di belle promesse, orientata – come ogni pubblicità che si rispetti – all’immaginario collettivo più che alla produzione di conoscenze. Raramente la scienza che di questi problemi si occupa è stata così vicina alla fantascienza. E’ tutto un rincorrersi di futurologie e fantasociologie, che alla fine convergono nel mostrare una tecnologia onnipotente di fronte a una società totalmente malleabile. Onnipotente e buona, la tecnologia farà ciò che i grandi movimenti sociali non hanno saputo fare: si incaricherà di raddrizzare i torti del capitalismo, quantomeno quelli più gravi perpetrati contro l’umanità e la natura. Non a caso, le nuove tecnologie vengono descritte mediante una contrapposizione sistematica ai danni causati dal vecchio modello produttivo: si insiste sul fatto che sono “pulite” (mentre il vecchio modello produceva inquinamento), orientate al risparmio energetico (contro gli “sprechi” del vecchio modello), capaci di operare decentramento (al contrario del vecchio modello, responsabile dei problemi di inurbamento e concentrazione industriale). Generalizzando queste caratteristiche, si finisce col vedere nelle nuove tecnologie un rimedio definitivo ai difetti non soltanto del modello di sviluppo di questo dopoguerra, ma dell’industrialismo tout court.
Prende così forma il mito della “società post-industriale” prossima ventura, vero leit motif degli anni ’80, che sviluppa l’idea del “piccolo è bello” fino alla fantasia della società totalmente atomizzata – in cui le città sono scomparse e gli individui vivono in un’arcadia disinquinata connessi dai terminali con cui comunicano, lavorano, si istruiscono e fanno la spesa – e la coniuga con quella della “produzione immateriale”. L’altro mito degli anni ’80 è quello della “fine del lavoro”: mito in realtà vecchio quanto il mondo, o meglio quanto l’industria meccanizzata, l’idea della “fine del lavoro” si basa sulla generalizzazione di due fatti – certamente correlati, ma non in modo meccanico, e meno che mai identici – che accompagnano le fasi di ristrutturazione tecnologica: il fatto che molte delle nuove tecnologie sono tecnologie di automazione, e dunque comportano la sostituzione di lavoro umano, da un lato; dall’altro, il fatto che le ristrutturazioni si accompagnano sempre a vasti processi di espulsione di mano d’opera (in realtà assai più estesi di quelli dovuti all’automazione). Uniti all’idea – del tutto arbitraria – che il lavoro sia una sorta di “fondo” esauribile, qualcosa di dato una volta per tutte, sia come quantità che come tipi di attività svolta, i fenomeni dell’automazione e dell’espulsione di mano d’opera vengono letti come segni di un esaurimento prossimo o addirittura già attuale della necessità del lavoro.
Questi miti piacciono agli operaisti. Piace l’idea della “società post-industriale”, che sembra confermare la vecchia idea della fabbrica che si diffonde e si diluisce nella società fino a scomparire. Piace, naturalmente, il mito della “fine del lavoro”: l’idea della inutilità del comando capitalistico – nel senso precedentemente considerato – si sposa felicemente con quella di un’automazione totale che si ritiene già praticabile, e rinviata soltanto per una perversa volontà di prolungare oltre i limiti della necessità storica la struttura di potere esistente. Il comando capitalistico, in quest’ottica, è sempre più simbolico, sempre più sganciato dalla produzione materiale e dalla fabbrica. E’, alla fine, soltanto un modo di pensare, di rappresentare la realtà, di produrre senso e regole linguistiche, diffuso ovunque e interiorizzato da tutti: operai “intelligenti” della fabbrica integrata, ingegneri elettronici, manager, intellettuali. Siamo tutti allo stesso titolo “forza lavoro cognitiva” di questo sistema, finché lo accettiamo; ma tutti ugualmente “intellettualità di massa” capace di sottrarsi ad esso, nel momento in cui scegliamo l’esodo di cui parla, ad esempio, Paolo Virno[33]. Piacciono, in generale, le parole che alimentano i nuovi miti e che vengono usate per immaginare futuri soggetti antagonisti da far seguire all'”operaio di mestiere”, all'”operaio massa”, allo stesso “operaio sociale” che – ahimé – non si è mai manifestato.
Questo esercizio di immaginazione, questo tentativo di evocare a furia di parole nuove soggetti salvifici che non hanno mai il buon gusto di esistere, conclude la parabola dell’operaismo negli anni ’90. Dall'”intellettuale massa”, che conosce una breve fortuna durante l’effimero movimento studentesco del 1990[34], al “lavoratore immateriale”[35], agli “Immaterial Workers of the World” che dovrebbero fondare un nuovo “sindacalismo rivoluzionario” e trasformare i “centri sociali” in “camere del lavoro postfordiste”[36], l’operaismo naufraga in questa rincorsa di nuovi lessici e vecchie parole d’ordine, succube delle mode culturali e, attraverso queste, delle peggiori politiche neoliberiste. In questa fuga, Negri è ancora in prima linea: sposa la globalizzazione, l’Europa, il federalismo con formulazioni sempre più deliranti (“federalismo nomadico” come “programma dei proletari europei” per la “riappropriazione proletaria di spazi amministrativi”[37]); a proposito del Veneto, parla addirittura di “imprenditorialità comune”:

“Questo nostro paese veneto è ricco e la sua ricchezza è stata prodotta da una comune imprenditorialità. Gli eroi di questa trasformazione produttiva non sono certo solamente i padroni e i padroncini che oggi la vantano: sono tutti i lavoratori veneti, tutti coloro che hanno messo al servizio del comune, fatica ed intellettualità, forza-lavoro e forza-invenzione; essi hanno investito ed accumulato professionalità e cooperazione in reti comuni, attraverso le quali l’intera vita delle popolazioni è divenuta produttiva”[38].

Una nuova “alleanza dei produttori”, come quella che predicava il Pci negli anni di piombo? O dobbiamo credere che l'”imprenditore massa” sarà il nuovo soggetto rivoluzionario del terzo millennio?
Certo in questo percorso l’operaismo è diventato una cattiva teoria: un pensiero bloccato che non produce critica né illumina i fatti, un’ideologia consolatoria se non una vera e propria allucinazione che impedisce di vedere ciò che non è conforme ai desideri.

Maria Turchetto, Dall'”operaio massa” all'”imprenditorialità comune”ultima modifica: 2011-01-28T15:54:52+01:00da mangano1
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