Lucciole Pordenone, Bunga bunga

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by materialiresistenti (03/02/2011 – 16:03)

Puttanamente
Manifesto per un godimento polimorfico costituente

PRIS

Qualche giorno fa mi è stato descritto un po’ meglio che cosa dovrebbe essere questo bunga bunga dei festini del basso impero berlusconiano. Poi mi sono fatta un giro su internet incappando in una definizione dell’Urban Dictionary (che è il dizionario digitale dei termini slang): “Brutale stupro anale, inflitto come forma di punizione a chi oltrepassa i territori di fittizie tribù africane”.

Preludio. Noi saremo tutto!… scusate noi chi?
Lasciamo perdere la destra, i suoi rappresentanti, i suoi giornali, non è il caso, evidentemente, di prenderli in considerazione. Ma l’immaginario coloniale e sessista che evoca il bunga bunga riguarda una dimensione che attraversa la gran parte della società italiana maschile e femminile, nel suo insieme e che passa anche per una sinistra in parte bigotta (che sente l’offesa verso le donne, madri mogli perbene), in parte ammiccante e compiaciuta che si incontra in lungo e largo nel web. Da notare, tra gli altri, ad esempio, le playlist musicali sul tema che diventano cult: vengono sfoderate dal quotidiano la Repubblica che le indica come la playlist di Ruby (e non di Berlusconi badate bene) sul tema del momento, “Il Bunga Italia”. Oppure le brillanti battute su Ruby rubacuori – rigorosamente da omettere – in giro un po’ ovunque, anche sul blog satirico www.spinoza.it. Non entro nel merito della raccolta delle firme delle donne del PD che si dichiarano scandalizzate delle condizioni di vita/lavoro delle giovani solo in occasioni delle campagne antiberlusconiane (come se il problema fosse poi solo il potente orco blu, e non il sistema di potere che lo nutre – seppure il premier sia da considerare, in effetti, un essere veramente ripugnante). Mi interessa la dimensione polisemica di questa narrazione che comporta interrogazioni più profonde su cosa vogliamo essere e su cosa vogliamo divenire. Durante una recente assemblea qualcuno ha pensato di fare battuta gradita rivendicando, all’interno di un ipotetico nuovo sistema di welfare, oltre al reddito anche il bunga bunga garantito, e questo mi ha particolarmente illuminato, riconsegnandomi un modo per dipanare l’ordine del discorso.
La narrazione del bunga bunga è dunque pervasivamente incominciata, adattandosi alle forme del vivere, del dialogare, del pensare, del progettare il mondo. A questo punto si impone una decostruzione, o meglio se il bunga bunga è un sito polisemantico proviamo a costruire una nuova narrazione che ponga le basi della crisi stessa del bunga bunga e che, a questo punto, possiamo definire (scegliendo tra molteplici possibilità) in tre modi (tra loro intrecciati oppure no): 1) un rituale performativo che evidenzia (se ce ne fosse stato ancora bisogno) la natura fallocratica della governance berlusconiana; 2)una forma – tra le altre – di ricatto nell’era della precarietà del biocapitalismo; 3)un commercio che prevede prestazioni sessuali in cambio di denaro e beni (il sesso è una merce come la comunicazione) dentro la società capitalista, e che ha a che fare con dei clienti e delle lavoratrici/ori; 4) una pratica sessuale dove entrano in scena (ipotetici?) rapporti asimmetrici di potere.

Primo itinerario
Bunga bunga as ritual power. Forme della resistenza

Il potere punta continuamente a fabbricare “corpi docili”. Il culto del denaro, la spettacolarizzazione, la notorietà, il successo, il merito, il sacrificio sono – e lo sono particolarmente nell’era berlusconiana- alcune delle armi che mette in campo: il regime disciplinare si attiva con sempre novelle pratiche di dominio. Il bunga bunga come rituale performativo ci parla delle pratiche di assoggettamento e della produzione di corpi “femminili” subalterni e “reificati” per il consumo sessuale.  Tali pratiche (di cui il bunga bunga rappresenta la versione del nudo sovrano) si sono intrecciate per decenni alla riproduzione velinificata (da velina) dell’immaginario femminile, come corpi al servizio del piacere e della sessualità fallocratica. Ancora tali pratiche/rappresentazioni offrono –nel tempo della crisi- un controaltare speculativo all’immaginario di domesticità, focolare, famiglia attraverso il quale le donne devono essere rieducate per riprendere (umilmente direbbero la Gelmini e Marchionne) i loro tradizionali posti.
Svariati maitres à penser ci stanno adesso spiegando, che cosa siamo (dovremmo essere) e come lo siamo. Imbroglio insopportabile, paternalistico, presuntuoso, quello di parlare (benevolmente, chiaro!), al posto delle donne. Noi siamo ben lontane dall’introiettare l’immaginario sessualizzato nel quale il potere prova a intrappolarci. Siamo convinte, con Foucault “che il sesso non sia una fatalità ma una possibilità di accesso alla vita creativa”. Ma, in questo contesto capitalista e maschile, così come il genere anche la sessualità, vista nel suo esplicarsi sedimentato, triste e rituale, è un dispositivo. Diventa allora bunga bunga, che passa per ciò che solamente si conosce e si riproduce, ordinariamente. La prima forma si resistenza è costituita dunque dallo svelare l’ordito, dal conoscere il contesto, dalla consapevolezza del meccanismo. La seconda sta invece nel creare e ricreare, trasformando la situazione. Non possiamo non darci, ma proprio essendoci possiamo cambiare la situazione.

Secondo itinerario
Bunga bunga as precariousness (arcore’s night in and out). La schiavitù contemporanea, il desiderio, il corpo
Le donne sono precarie. La precarietà è la forma di organizzazione del lavoro nel biocapitalismo. Struttura di dominio basata sulla destrutturazione totale dei diritti e sull’asservimento dei corpi e dei desideri. Mondo violento, frantumato, sclerotico, dove regna l’imposizione della volontà altrui, una volontà immanente che si oppone alla vera realizzazione del sé, mentre d’altra parte ostacola, si frappone a ogni collegamento, alle possibili forme di alleanza. Facendo leva sulla precarietà si è inventata la passione per il lavoro, essenza di una schiavitù che si fa volontaria. Avete voluto uscire dalla fabbrica, sognavate di sbarazzarvi, una volta per tutte, dell’alienazione del lavoro? Eccovi accontentate: questo lavoro precario diventerà parte di voi, performando tutta la vostra vita, ciò che sognate/agite diventerà oggetto del vostro lavoro stesso. Le cosiddette politiche di flessibilizzazione del lavoro hanno addossato ai singoli soggetti l’intera responsabilità di loro stessi. Nella precarietà il corpo emerge. La precarietà è spaziale e affettiva, perpetuo disequilibrio che genera anche sofferenza, malattia, disagio del corpo. Ma essa non dà scandalo. Non abbiamo proteste, appelli, fiaccolate in difesa della dignità dei nostri corpi precari di donna. La precarietà confisca i corpi delle donne così come li confisca il vecchio miliardario. La precarietà approfondisce il legame del corpo con il potere dell’economico. Qualsiasi lavoro, svolto in condizioni di ricatto, è degradante, difficile, esigente. E’ così difficile parlare? Così strana da ammettere, la similitudine? Perché? Come scrive Virginie Despentes: “I tipi di lavoro che le donne nullatenenti esercitano, i salari miserabili per i quali vendono il loro tempo non interessano a nessuno”. Perché?

Terzo itinerario
Bunga bunga as sex work. La produzione biopolitica oltre le differenze delle forme produttive

Le donne lavorano. Da sempre. Esplicano tutti i generi di attività. Nella divisione sessuale (internazionale e non) del lavoro, le donne si trovano spesso a svolgere oltre i lavori riproduttivi at home- senza un reddito riconosciuto- (fare figli, occuparsi del menage domestico, degli anziani di casa…) anche lavori che afferiscono ad una sfera riproduttiva/produttiva che definiamo di welfare privatistico, fanno le badanti, fanno le colf, le tate e le sex workers (o se preferite le puttane) (da premettere che il sex work- così come per altri lavori riproduttivi- non sono un lavoro solo al femminile, ma viene svolto anche da uomini, trans, etc…). Fanno questi lavori per un’intera vita, oppure per qualche anno, oppure li fanno ogni tanto mixandoli ad altre forme del lavoro di solito con magre entrate salariali.
Il sex work, è un lavoro che si svolge a ridosso del corpo e che attiene alla presa in carico e cura del corpo dell’altro e delle sue emozioni. Chiaro che questo lavoro si svolge non in un contesto di libertà, ma dentro una società capitalistica costruita dentro rapporti e gerarchie di potere che hanno a che fare con i corpi sessualizzati (e razzializzati) e precarizzati. Qual è la differenza che passa tra vendere il proprio corpo-forza-lavoro in una fabbrica di Marchionne, o in una villa berlusconiana, in una universitaria fabbrica del sapere, o in un campo di pomodori di Rosarno? Provocatoriamente potremmo rispondere: nessuna!
Se tocca abbattere la cultura lavorista e cercare di spiegare che oggi il lavoro è sociale – ovvero corrisponde all’insieme delle attività distribuite nella produzione diffusa- e viene prodotto e riprodotto incessantemente, attraverso la conoscenza, le relazioni, la cura, oltre che alla fatica, come non cercare di abbattere la morale che confina le pratiche prostituzionali in un luogo di dannazione, negandone la dignità del lavoro?

Quarto itinerario
Bunga bunga as sexual pratice: biopolitica, genere e piacere

I corpi non esistono di per sé, ma dentro reti di relazioni sociali che li riproducono e li significano. La produzione dei corpi nella società è legata a un dispositivo di potere eterosessista normativo: i corpi normati sono sessualizzati nelle categorie dicotomiche del maschile-femminile.  Cioè  che eccede dalla norma è altro, “diversità”, se non devianza o malattia. La stessa strutturazione binaria del genere, dunque, definisce e concorre a plasmare rapporti di potere asimmetrici incarnati nei corpi. La produzione biopolitica è una produzione che ha a che fare con i corpi, corpi che sono al lavoro e che sono dentro questi stessi dispositivi che li producono binariamente. La sessualità e il piacere sono al centro di questa costruzione binaria:  la sessualità si pone come un dispositivo di potere dal momento in cui il maschile si costruisce in termini di controllo del corpo femminile e di pieno accesso alla fruibilità del piacere, il femminile si costruisce, in una certa misura,  attraverso l’idea di subalternità della sessualità femminile e della sua funzionalità alla sessualità maschile dominante. Normalmente quando il confine di genere viene superato, le donne sono relegate e “controllate” attraverso la categoria morale stigmatizzata della prostituta.
Dunque, il modello di sessualità dominante comporta la produzione dei corpi in cui si inscrive la dicotomia del maschile e del femminile: plasmando i corpi si definiscono le stesse gerarchie di potere che alimentano la divisione sessuale (e internazionale del lavoro). Il cerchio è chiuso.
Come una metafora eccedente, il bunga bunga as sexual pratice, racconta dell’intreccio tra potere, sesso/piacere e produzione nella “normalità”, e non soltanto la decadenza di un vecchio porco sovrano.

Finale. Dalla resistenza alla dichiarazione di guerra di Pris
Noi donne, fike, puttane (al lavoro o no) vorremmo rivoluzionare l’immaginario e le pratiche del piacere e della sessualità. Questo perché sappiamo che da ciò dipende non solo il nostro piacere, ma una nuova idea di vita, di cooperazione e di felicità comune. Per questo nel comune combatteremo perché sia viva la potenza costituente di un nuovo godimento, che con creatività  e determinazione abbatta le gerarchie del genere e del lavoro. Vogliamo godere oltre le vecchie regole e sappiamo che questo ha una valenza rivoluzionaria.
Perché il nuovo welfare sia comune, rivendichiamo contro il capitalismo della precarietà: la democrazia del piacere, la libertà di scelta del lavoro e il reddito garantito. Decretiamo per questo – dentro la crisi del capitalismo globale – inaugurata la fase della crisi del bunga bunga (di destra e di sinistra) e cominciata la lotta per l’istituzione di un godimento polimorfico costituente.

lucciole Pordenone

Lucciole Pordenone, Bunga bungaultima modifica: 2011-02-08T16:27:42+01:00da mangano1
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