Alberto Madricardo Destra e sinistra nell’età della globalizzazione

Alberto Madricardo

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Ha ancora senso parlare di destra e di sinistra? Questa domanda andrebbe
meglio riformulata così: ha senso oggi parlare di sinistra? Può esistere una
sinistra?

Il dubbio di esistenza non tocca infatti la destra, perché essa si fonda sul
presupposto della legittimazione dei processi spontanei nelle relazioni sociali
sulla base della loro “naturalità”. Ma la realtà di fatto dei processi sociali
non si svolge sempre senza complicazioni ed intoppi: le loro dinamiche
attraversano momenti di instabilità, di crisi.

Definiamo “critica” ogni situazione in cui la mera ripetizione di procedure
consolidate rende impossibile o quanto meno insufficiente la gestione delle
relazioni sociali, e in cui sia perciò necessario creare pratiche nuove ed
inedite,  ripensarle alla luce del possibile.

Così il “bisogno” di sinistra e la sua forza della crescono o diminuiscono in
proporzione inversa alla capacità delle relazioni sociali di riprodursi e di
autoregolarsi spontaneamente.

Schematizzando al massimo, si può dire che di destra sono il pensiero e le
pratiche che mirano alla riproduzione sostanziale della realtà di fatto
lasciando ai meccanismi sociali il compito di riassorbire “naturalmente”
(spontaneamente) i fattori d’instabilità; di sinistra quel pensiero e quelle
pratiche che viceversa includono nel loro orizzonte la categoria della crisi,
ne fanno anzi il loro centro problematico.

La crisi di per sé nasce e segnala inadeguatezze nel sistema dei rapporti
interumani. La sua soluzione tradizionalmente può avvenire in due modi:
attraverso il mutamento del sistema di relazioni in cui si manifesta o grazie
alla esternalizzazione da esso della crisi.

Nello schema liberista classico è presupposta la capacità del meccanismo della
competizione, inteso come sistema aperto, di riequilibrarsi spontaneamente
attraverso la sua estensione a nuove parti del mondo. La crisi è destinata a
ricomporsi grazie alla sua diluizione e al rimescolamento dei suoi elementi di
tensione in contesti divenuti più ampi per l’inserimento nel sistema di nuove
periferie.

Nella concezione classica del marxismo la crisi si esplica nella contraddizione
di classe, che dovrebbe culminare, grazie ad un processo cumulativo delle
tensioni interne al sistema, nel rovesciamento dialettico della relazione
sociale. Ma perché ci sia cumulazione delle tensioni c’è bisogno che la
dialettica sociale si svolga in un sistema sostanzialmente chiuso che non ne
disperda la cumulazione, ma la mantenga fino al punto di fusione
rivoluzionaria.

La variante socialdemocratica è una sorta di combinazione in chiave
tecnocratica, pragmatica e gestionale tra le due concezioni, che usa lo stato e
la spesa pubblica come strumento di intervento correttivo sulle tensioni
interne, un pragmatismo gestionale che alterna strategie inclusive ed esclusive
della crisi e non affronta il nodo, in modo organico, della complessità e il
suo elemento centrale, quello del rapporto  tra crisi ed innovazione.

Sosteniamo che la complessità, nella situazione attuale, sta nella coincidenza
divergente creata dalla globalizzazione tra sistemi locali e quello globale che
li contiene.

La globalizzazione provoca l’apertura senza precedenti dei sistemi
relativamente chiusi localizzati e li inserisce nel proprio circuito. Così essi
possono diluire le loro tensioni interne: i paesi avanzati delocalizzano il
capitale, quelli arretrati il lavoro. Così entrambi esternalizzano la crisi.
Crisi locali possono dar luogo a processi rivoluzionari solo in quanto
investono sistemi locali ancora chiusi e sono finalizzati ad abbattere chiusure
locali. Queste sono rivoluzioni della globalizzazione. Oppure possono
caratterizzarsi come risposte violente ad eccessi di razionalizzazione imposti
alle località (reazioni contro la globalizzazione), come è stato il caso della
cosiddetta “rivoluzione” iraniana.

Talvolta tendenze alla chiusura locale alla globalizzazione possono anche
combinarsi con quelle opposte, che spingono ad accelerare l’apertura alla
globalità, la razionalizzazione e la dissoluzione delle relazioni sociali
tradizionali contro l’ordine esistente (come sta avvenendo nel mondo arabo). A
volte queste tensioni così intrinsecamente contraddittorie non possono venire
sufficientemente  diluite attraverso la valvola di sfogo dell’emigrazione e si
possono produrre perciò tensioni esplosive. Si tratta comunque di crisi
“locali”, anche se di vaste proporzioni, che non mettono in discussione
seriamente il sistema della globalizzazione come tale. Crisi globale sistemica
è stata invece quella del 2008, fino ad un certo punto e non si sa quanto
temporaneamente riassorbita grazie all’intervento massiccio degli stati, cioè
di soggetti portatori di un tipo di razionalità che include la crisi, perciò
essenzialmente diversa da quella che ispira le dinamiche delocalizzanti della
globalizzazione.

Dopo l’esperienza del 2008, per quanto in qualche modo ridimensionato dall’
ammissione della necessità di introdurre correttivi di carattere politico,
continua però a dominare il pensiero e la pratica liberista (cioè della
esternalizzazione della crisi), mentre l’approccio che la pone al centro, per
quanto abbia ripreso un po’ di forza, appare in grado di fungere al massimo
come ispiratore di pratiche correttive.

Anche se il quadro mondiale lascia intendere che sia in atto un “ritorno della
politica” e del pensiero della crisi, tuttavia questo non basta per il momento
a mettere sostanzialmente in discussione l’autonomia delle logiche della
globalizzazione. La situazione complessiva è ancora caratterizzata dal
tendenziale distacco della razionalità produttiva e finanziaria dal territorio
e dalla località su cui pure opera, per cui questi vengono subordinati alle
esigenze della competizione planetaria. In funzione delle strategie della
competizione globale vengono infatti ridefinite le gerarchie e le destinazioni
dei “luoghi” (delle nazioni, delle regioni, dei territori).

Così attualmente il contrasto più rilevante non è  tra parti di un unico
sistema, ma tra sistemi che sono allo stesso tempo interni ed esterni gli uni
all’altro: tra i sistemi locali e quello globale che li contiene. Il primo
comprende e attraversa i secondi, ma non si identifica con essi1. Per essere
più chiari, il sistema globale è caratterizzato dalla presenza di soggetti
altamente consapevoli delle loro finalità, che applicano modelli di razionalità
tecnocratica in funzione del loro successo competitivo e  sono sostanzialmente
esterni alla complessità dei luoghi, entrandovi solo per quel tanto che è
necessario per ottenerne l’agibilità per realizzare  passaggi delle loro
strategie.

I soggetti globali portatori di strategie di razionalizzazione sono al loro
interno strutturati secondo principi di  verticalità e gerarchia e per  loro
natura sono portati ad esternalizzare la crisi, cioè a demandarne la gestione
alle località. Queste invece, poiché contengono tutte le relazioni e le
contraddizioni della vita reale, che è sempre fisicamente localizzata, a causa
della loro complessità – che le rende difficilmente afferrabili con gli
strumenti della razionalità semplificatrice –  sono spesso prive di
consapevolezza di sé, e quindi della loro distinzione dalla realtà globale. Non
possono esternalizzare i loro elementi di crisi se non limitatamente –
attraverso l’esportazione di capitale o l’emigrazione – e a condizione di
disperdere parte delle loro migliori risorse umane. A parte questo, sono
obbligate ad ospitare la crisi e a gestirla.

La crisi si produce a causa della discrepanza tra la complessità delle
situazioni reali e la capacità di ordinazione degli schemi semplificatori ad
esse applicati. A livello sistemico la crisi si manifesta come tendenza al
collasso, nel momento in cui il sistema stesso pare avere esaurito le
possibilità di esternalizzazione delle sue tensioni. La crisi a livello locale
concretamente si manifesta invece come divaricazione e tendenziale
contraddizione, nel medesimo momento e nella stessa realtà territoriale, tra
logiche delocalizzatrici e semplificatrici e della globalità e quelle
localizzatrici e “complessificatrici” delle località.

Il sistema fondato principalmente sulla competizione globale, nonostante la
fiducia incondizionata in esso riposta sia stata, come si è detto, un poco
scossa di recente, sembra avere ancora la meglio in ogni parte del mondo: per
esempio in Cina, dove il regime autoritario, gestito da una élite tecnocratica
chiusa, si legittima esclusivamente sulla base dei suoi risultati economici. Ma
anche in Italia, dove, da parte di molti anche a sinistra in nome della
“modernizzazione”, si subordinano le esigenze sociali e territoriali alla
razionalizzazione produttiva e alle strategie di autoaffermazione nella
competizione globale.

Le nuove tecniche di comunicazione hanno imposto una vertiginosa disparità tra
capitale e lavoro. Nella sua immaterialità, il primo può spostarsi
istantaneamente (in “tempo reale”) quasi in ogni parte del globo, secondo la
convenienza, approfittando di ogni differenza e di ogni squilibrio tra realtà
territoriali2.Il lavoro invece resta legato alla fisicità e dunque alla
località (i lavoratori si possono bensì spostare, ma in modo infinitamente più
lento e – come sappiamo – con disagi infiniti).

Questo fa sì che nel rapporto di mercato tra capitale e lavoro il primo, anche
per l’assenza di un modello planetario alternativo come è stato per un certo
tempo – quale che sia il giudizio che diamo su di esso – il sistema del
“socialismo reale”, gode di un ora indiscusso vantaggio strategico, che si è
tradotto in questi ultimi decenni in un vertiginoso aprirsi della forbice  tra
reddito da capitale e quello da lavoro e in un aumento cospicuo delle
disuguaglianze a tutti i livelli.

Per la verità, come stiamo vedendo sempre più chiaramente, il capitale non è l’
unico a godere del vantaggio dell’immaterialità.  Anche le informazioni e le
idee sono immateriali, e possono perciò diffondersi con la massima rapidità su
tutta la superficie del pianeta con conseguenze rilevanti sulle diverse realtà
locali. Ma si deve tenere conto che ogni territorio ha la sua storia, il suo
passato e le sue peculiari resistenze ad aprirsi. Quindi i tempi di
assimilazione e di rielaborazione delle informazioni e delle idee da parte di
ciascuna località sono molto differenziati. Forse ci sarà un tempo in cui la
velocità di diffusione delle idee sarà maggiore, nell’aprire le località, di
quella del capitale di approfittare delle loro chiusure, differenze e
squilibri, ma per ora non è così.

In un mondo frammentato dominano ancora, e presumibilmente per parecchio tempo,
le strategie di competizione tra oligarchie e sistemi tecnocratici per la
supremazia planetaria, che si svolgeranno mettendo in competizione tra loro
realtà territoriali più ricche e strutturate con quelle più povere e meno
organizzate, perciò più docili.

La strategie competitive globali vengono formulate “in alto”, e imposte in
basso, alle località, siano esse nazioni o comunità (con maggiori o minori
difficoltà, secondo la loro capacità di resistenza e di reazione). La
concentrazione del potere in alto provoca in basso la frantumazione delle
comunità locali e processi di atomizzazione nelle relazioni sociali: nei paesi
“arretrati” la dissoluzione delle società tradizionali, in quelli avanzati la
disgregazione dei “corpi intermedi” della società civile – quali sindacati,
associazioni, ecc., con la conseguente polverizzazione della società civile.

La verticalizzazione del potere economico e la frantumazione sociale
favoriscono sul piano politico l’affermazione del populismo, nelle sue varie
forme, il prevalere dei comportamenti conformistici – inefficaci a gestire le
discontinuità- su quelli innovativi, la dispersione e la dissipazione delle
energie e delle risorse sociali.

Le comunità reali, complesse e localizzate, dalla asettica tolda di comando
delle grandi multinazionali ferreamente organizzate in funzione della
competizione planetaria, appaiono (verum factum) un “magma sottostante”, in cui
si agitano bisogni, aspirazioni e pretese, una materia bruta incapace di darsi
un ordine (“lo zoo Italia” di cui parla Marchionne), e vengono perciò, per
tutto quello che non rientra nelle strategie competitive, lasciate al loro
destino.

In questo contesto la democrazia (come principio di formazione del potere “dal
basso” ) è di fatto negata e formalmente ridotta a retorica liturgia, a
procedura di supporto plebiscitaria per procurare alle élite tecnocratiche il
consenso sociale necessario a far passare in loco le articolazioni le loro
esigenze.

La vicenda Fiat è a suo modo esemplare. Mette a nudo, senza mediazioni, tutto
ciò, rivela la questione di fondo di questa epoca è appunto quello del rapporto
tra globalità e  località.

Qui bisogna stare molto attenti: la globalità non è il male e la località non è
il bene. La globalizzazione consente potenti aggregazioni orizzontali –
soprattutto grazie a Internet – che possono produrre nelle località cospicui
fenomeni spontanei liberatori di massa (come dimostrano i recenti avvenimenti
nel mondo arabo), e d’altra parte ci sono chiusure soffocanti nelle località,
(di tipo tribale, di clan, clientelare, burocratico, mafioso, etnico, politico,
corporativo, ecc.). L’Italia, anche per ragioni storiche, tra i paesi avanzati
ne è particolarmente affetta. Non ha perciò tutti i torti Marchionne quando
parla di “zoo Italia”.

Ma tra una razionalità che concepisce il mondo come la scacchiera su cui
condurre le sue partite competitive e la complessità della vita, che è sempre
localizzata nella sua fisicità, vi è un salto, una differenza non superabile.
Per quanto il sistema globale contenga le località, queste hanno esigenze e
dinamiche proprie che escono dalla razionalità competitiva globale, anche se
non sempre riescono ad esprimere una loro autonomia. Se non si lasciano
passivamente disgregare, ma sviluppano una loro ragione della complessità
tendenzialmente inclusiva, possono riuscire a reagire, a gestire attivamente la
crisi, di cui la razionalizzazione competitiva – per sua natura esclusiva – non
si fa carico.

Le “località”, in quanto si costituiscono come realtà dotate di una loro
peculiarità potenzialmente sistemica, divergente da quella globale, non sono
mai del tutto assorbibili nel coincidente – sovraordinato sistema della
globalizzazione, in quanto, come dice Luhmann: “Nessun sistema è in grado di
scomporre analiticamente un altro per risalire ad elementi ultimi (sostanze)
nei quali la conoscenza possa trovare un sostegno definitivo  e una sicura
corrispondenza con l’oggetto della propria analisi” 3.

Questa differenza, questa impenetrabilità ultima delle località fornisce
garanzia di difesa delle località nei confronti  della razionalizzazione
globale ad esse sovraordinata solo nella misura in cui è tematizzata, assunta
cioè nella consapevolezza soggettiva. Altrimenti la dinamica della divergenza
può avere come effetto il semplice fatto che la località subisce e si fa
passivamente disgregare nella sua consistenza (nel suo essere autoaffermazione
di un qui che si conferma in se stesso), rendere marginale (in un qui che è già
in se stesso un altrove).

La località può anche non essere un mero teatro di manovra della
globalizzazione. La vita che vi si svolge può anche non ridursi a materia
bruta. Se si dà una coscienza, strategie proprie, a partire dal suo
indiscutibile  punto di forza: il fatto di essere la complessità stessa nella
sua concretezza, perciò più reale della globalità, la quale, ha peraltro le sue
– per così dire – incarnazioni nei “nonluoghi”. Queste realtà spaziali, dirette
creature della globalità, ne materializzano l’essenza nella loro semplicità
funzionale – fungibile.

Marc Augé, volendo dare una definizione dei nonluoghi, deve farla conseguire
negativamente a quella di luogo4. Forse si può dire che il nonluogo è
essenzialmente un paradossale “altrove qui” che in certo qual modo costituisce
l’opposto del luogo marginale (un qui che scivola nell’altrove), che fissa così
fisicamente, localizza, l’essenza “delocalizzatrice” della globalizzazione.

L’essenziale unicità della (di ogni) località, che risiede nella stessa
complessità della vita nel suo farsi reale, è di per sé non fungibile, non
delocalizzabile. Questo fatto, che la lega indissolubilmente ad un qui, da
elemento di debolezza, può essere rovesciato in punto di forza, se la località
è capace di acquisire elementi di coscienza e di governo della propria
complessità (della crisi). Poiché in ambienti complessi risultano insufficienti
l’applicazione di schemi epistemologici riduzionisti e di pratiche esclusive,
la “coscientizzazione” della complessità allo stesso tempo richiede e produce
approcci costantemente innovativi.  Così la località, prendendo coscienza della
propria natura, diviene insieme innovativa e ambiente incubatore di
innovazione, ovvero aumenta le sue capacità di gestire la crisi.

Questa “volontà di coscienza” della località può esplicarsi  in forme
politiche, quale può essere quella di un “patto di cittadinanza”
esplicitamente sancito tra cittadini, istituzioni e politica, che
simbolicamente proclama che la località intende diventare un sistema dotato di
soggettività, proponendosi obiettivi di coesione interna su finalità
strategiche largamente condivise e strutturandosi non solo in modo da dotarsi
di potere di controllo e peso negoziale nei confronti dei soggetti e delle
strategie globali, ma anche di rendersi adatto alla gestione positiva delle
crisi.

Poiché la crisi si manifesta nella palese insufficienza degli schemi e delle
procedure applicate nel governo delle dinamiche reali, le quali perciò sfuggono
al loro controllo e producono discontinuità, gestire la crisi  vuol dire
individuare gli schemi e le pratiche innovative capaci di riconnettere le
dinamiche reali entro schemi di senso e di orientarle verso finalità di
ricomposizione, non di competizione come avviene nel caso dei soggetti globali.
Rispetto alla razionalità funzionale, analitica e calcolante di questi ultimi,
che mette in discussione e verifica regolarmente i mezzi ma non i fini, la
località può mettere in campo una razionalità della complessità, allo stesso
tempo proagente e retroagente, in grado cioè di ridefinire costantemente non
solo i mezzi rispetto ai fini, ma anche i fini rispetto ai mezzi. Una
razionalità che si compie non solo nel momento del raggiungimento dei fini
prestabiliti, ma nell’interazione proattiva e retroattiva di tutte le tappe:
quella della formulazione, quella della attuazione e quella del compimento
delle finalità. Una razionalità che si realizza cioè pienamente anche in
quanto  ambientalizza e contestualizza ogni suo passaggio, fino ad
identificarsi con la località stessa, con le sue dinamiche vitali, nella
progressiva identificazione tra coscienza e dinamiche vitali reali.

Tale identificazione tra coscienza e processi vitali può ridurre la
ripetitività e l’esteriorità delle pratiche (ridimensionare l’alienazione
sociale) e può conseguentemente creare le condizioni di incubazione in cui si
producano nel tessuto sociale “sciami innovativi”, tante molecolari
“rivoluzioni copernicane” che liberano altrettanti piccoli “nuovi inizi”.
Questi, cumulandosi tra loro, sono in grado di risolvere autenticamente la
crisi, attraverso la promozione di processi creativi, e di restituire  alla
località la sua centralità nell’orizzonte globale.

Il patto di cittadinanza inteso come embrione della “volontà di coscienza e di
identità” della località, in quanto esplicita e rivaluta le potenzialità e le
aspirazioni alla cooperazione innovativa sistemica presenti nella località
rispetto alla piatta, routinaria e irrelata (quindi dispersiva) riproduzione
dei processi della vita, consente – tra l’altro – ad essa di mantenere
veramente vive le sue tradizioni, le quali, dalla pura, macchinale ripetizione
non vengono salvate, ma distrutte.

L’agire tendenzialmente sistemico nel senso dell’innovazione da parte dei
soggetti agenti nella località è in grado insomma di produrre una efficace
contestualizzazione di essa nel suo presente – rafforzandola sul versante del
suo futuro e quindi anche del suo passato – e di contrastare efficacemente la
emorragia di senso che altrimenti la globalizzazione la condannerebbe a
subire.

L’innovazione – va precisato – qui è intesa nel senso più ampio, radicale e
diffusivo. Non solo quindi come riguardante l’ambito scientifico e tecnologico,
ma anche e prima di tutto come dinamizzazione (disalienazione sociale) del
territorio, attraverso lo sviluppo della partecipazione dei cittadini e dei
soggetti sociali, la promozione e facilitazione della circolazione delle idee e
la moltiplicazione delle sinergie, della diffusione della mentalità e degli
approcci sperimentali, dell’abitudine alla proiezione cooperante verso fini
condivisi, verso il miglioramento complessivo degli standard civili e di
efficienza economica.

Questo discorso, che enfatizza l’importanza della coesione sociale – è appena
il caso di precisarlo –  non ha alcuna analogia con quello delle destre europee
durante il periodo della competizione imperialista, quando predicavano l’unità
nazionale interclassista in funzione della politica di potenza e assimilavano
la lotta di classe al tradimento. O, più vicino, quella in ragione della
mistica del “sangue e suolo” riscoperta predicata dalla destra populista e
xenofoba.

Il richiamo nazionalista ed imperialista all’unità era il presupposto
ideologico dell’ordine chiuso gerarchico imposto all’interno degli spazi
nazionali. Analogamente, la destra xenofoba di oggi offre una lettura ed una
pratica  chiusa della località, e pensa  una sua coesione contro, una sorta di
“nazionalismo locale” che ripropone su scala ridotta esiti gerarchici ed
autoritari analoghi a quelli del nazionalismo imperialista.

In ogni caso la destra tende ad applicare alla località modelli semplificatori
che ne snaturano l’essenza, sottraendole quella che è la sua più peculiare
funzione: gestire la crisi facendosi consapevolmente ambiente complesso,
insieme strutturato e aperto, in grado di incubare l’innovazione.

La località diventa soggetto in quanto, congiunge il promuovere e il lasciar
fare, il progetto politico e la spontaneità sociale, grazie all’instaurazione
di relazioni e procedure che possono essere tanto più fluide in quanto si
ispirano  al principio e alla pratica del coinvolgimento e della
responsabilizzazione soggettiva e promuovono  ad ogni livello le dinamiche di
innovazione, intese come esplicazione sociale ed individuale della “capacità di
dare inizio”.

Il motore di questa esplicitazione e valorizzazione non può che essere quello
della partecipazione dal basso e dell’inclusione. Promuovendo la partecipazione
e l’inclusione, il carattere orizzontale, paritario e dialogico delle
relazioni, la località si rende l’ambiente fluido, in cui vengono sviluppate
sistematicamente le potenzialità insieme propositive e ricettive, capace in
tale modo di incubare l’innovazione e di riaffermare in tale modo la  sua
centralità (centrale è chi sa dare risposte positivamente innovative alle
discontinuità e centrali sono i luoghi che sanno ambientalmente stimolarle e
favorirle) nei confronti di una logica globale di per sé tendenzialmente
indifferente ai luoghi. Con ciò diventando la concretizzazione reale dell’
ossimoro di essere aperta e compiuta ad un tempo. Con ciò appetibile per se
stessa in virtù della sua potenza innovativa, non semplice teatro e spazio di
transito delle strategie delocalizzate della globalizzazione.

La destra esternalizza la crisi e la complessità da cui è generata e in cui
solo perciò possono prodursi le procedure della sua gestione, perché rifiuta
gli approcci che interiorizzano la discontinuità traducendola in fluidità. Sia
che s’identifichi tout court con le logiche tecnocratiche della competizione
globale, sia che le respinga violentemente chiudendosi nella mistica del luogo,
essa evita di affrontare il problema cruciale della crisi e della promozione
sociale delle discontinuità, si identifica con razionalità semplificatrici che
ne escludono la complessità. Nelle sue varianti moderate pragmatiche riconosce
alla politica il compito di mediare, di attutire alcuni effetti della
“modernizzazione” indotta dalla globalizzazione, assegnando però alla località
ruoli sempre subalterni.

Oggi la destra moderata tradizionale europea si trova in difficoltà a mantenere
il proprio duttile pragmatismo, insufficiente perché non abbastanza radicale a
fare fronte alla violenza dell’impatto della razionalizzazione imposta dalla
globalizzazione sui tessuti sociali delle località, ed è insidiata perciò dal
populismo. Questo offre alla società sempre più atomizzata in basso la
suggestiva e facile (conformistica) risposta della chiusura contro e della
ricomposizione mitica “in alto”, a cui viene alienato il compito dell’
innovazione. In quelle estreme, xenofobe e razziste, predica una totale
chiusura alla globalizzazione, nega la complessità e si impedisce la gestione
della crisi.

In ogni caso, tutta la destra oggi è soggetta al vento del populismo, che nasce
dal malessere dei cittadini che si sentono tagliati fuori  dai processi
decisionali reali. Come risposta a questo malessere essa offre la
identificazione verticale con il capo carismatico, una soluzione  mitica e
prelogica, regressiva, per sua natura escludente, che comporta la
deresponsabilizzazione, la rinuncia e il trasferimento nel capo dell’identità
dell’individuo (massificazione).

La sinistra propone (dovrebbe proporre) la partecipazione, la fluidificazione
delle discontinuità nella promozione dei processi partecipativi, la ricerca
collettiva come approccio orizzontale, dialogico ed includente, adeguato a
comprendere e affrontare l’essenza complessa della crisi.

La sinistra non ha ancora saputo cogliere e tradurre organicamente in politica
il mutamento di fondo (le mancano ancora gli strumenti teorici), costituito dal
fatto che la dialettica sociale non è più, almeno principalmente, tra parti di
un sistema, ma si sviluppa in primo luogo nella divergenza strategica tra la
realtà della località e le dinamiche della globalità. Una divergenza che
diviene esplicita e quindi reale tensione politica solo  se la località
acquisisce una coscienza di sé, con l’autoaffermazione della sua natura
sistemica, distinta, anche se non pregiudizialmente contrapposta al sistema
della globalizzazione.

La difficoltà di questa operazione, che è culturale prima che politica, sta nel
fatto che il sistema globale è differente, per approccio e finalità, da quelli
locali, eppure li comprende anche in sé. Probabilmente questa complicazione ha
disorientato ed indotto alcuni a ritenere che esista solo il sistema della
globalizzazione, che la gestione della  crisi (della discontinuità) sia
impossibile o che le località non possono avere riguardo ad essa nessuna chance
di produrre momenti inziali, e di essere perciò destinate alla funzione di mere
trasmettitrici di strategie e decisioni innovative prese altrove. A pensare
perciò che non esistano più destra e sinistra.

Ma – come si è detto – il discrimine tra destra e sinistra sta nel modo di
rapportarsi alla crisi (come categoria costitutiva della dimensione vitale):
nel privilegiare  la verticalità tecnocratica,  delocalizzante e
decontestualizzante, o la orizzontalità democratica, localizzante e
contestualizzante le discontinuità in cui si esprime la crisi.

L’applicazione diffusa e capillare in ogni realtà ed in ogni relazione sociale
del principio dialogico della democrazia e della valorizzazione di conflitti
può essere il principio propulsore di nuovi standard di coscienza e di coesione
sociale. La democrazia, concretamente intesa come processo sociale di
partecipazione reale sempre in fieri, non dunque svuotata, ridotta alla pura
consultazione sondaggistica o plebiscitaria, come la intende la destra, si
sviluppa nella contestualizzazione reciproca dei soggetti individuali e
collettivi e ha come suo effetto la produzione di senso.

Il processo di reciproco riconoscimento e contestualizzazione promossi e
favoriti dall’attuazione di pratiche capillari inclusive della democrazia può
generare quell’ambiente denso di relazioni che può essere “incubatore” – di cui
si è detto – cioè favorevole alle esperienze sociali innovative, che stimolano
ed incoraggiano l’attitudine al “dare inizio” nei diversi ambiti ad avere la
meglio sulle pratiche ripetitive conformistiche, inadeguate ad affrontare
positivamente la crisi e a scrollare di dosso dalle relazioni sociali la loro
deprimente “monotonia”.

L’applicazione in modo radicale della democrazia può, attraverso il
coinvolgimento e di partecipazione, aiutare a guardare alle cose “dal basso” e
quindi l’attitudine ai rovesciamenti di punto di vista (al paradosso) che
favoriscono la produzione sociale del nuovo, assumendo il fatto che l’
innovazione deve molto allo spirito di paradosso.

Questi elementi di riflessione paiono offrire una chiarezza sufficiente a
definire il quadro di una ricerca della costruzione di un pensiero politico che
sia dotato degli strumenti teorici e pratici necessari ad affrontare
concretamente il nodo complesso della gestione della località ad un tempo
contenuta e distinta dal sistema della globalità.

La sinistra ha dunque nella località (intesa come luogo in cui si svolge
realmente la vita nella sua complessità, dove la crisi non è sostanzialmente
esternabile e dunque si impone l’urgenza di creare un approccio consapevole ad
essa) il suo laboratorio.

Il rapporto inclusivo con la complessità può avere effetti paralizzanti, se non
è vissuto con un approccio innovativo, come esperienza del concreto “dare
inizio”. E’ necessario perciò dotarsi di schemi e procedure razionali per
affrontarla attivamente, gestendo inclusivamente la crisi.

Questi schemi e procedure, altamente pervasivi del tessuto sociale, esistono in
gran parte già, ma vanno raccolti, ordinati e finalizzati alla promozione,
circolazione e valorizzazione delle risorse intellettuali, civili ed
economiche. Si tratta di unificare le esperienze partecipative e di promozione
sociale della coscienza ad ogni livello e in ogni ambito, costituendo  un nuovo
paradigma della democrazia che può essere l’articolazione concreta del patto di
cittadinanza.

Portando nella visibilità comune aspetti marginali o nascosti della vita, esso
può orientare l’azione paziente di dipanare la matassa aggrovigliata degli
interessi e delle opinioni dal loro minimo comun denominatore verso livelli
superiori di cooperazione e di coesione. Contrapponendo la partecipazione e il
coinvolgimento dal basso alla gerarchia tecnocratica e all’elitismo, oggi tanto
diffuso anche a sinistra, e offrendo con la partecipazione un’alternativa
efficace alla identificazione conformista con il capo populista, mettendo in
atto approcci che affrontano la complessità in modo inclusivo
contestualizzante, piuttosto che in modo esclusivo e in rapporto a fini
rigorosamente prestabiliti.

L’approccio inclusivo richiede lo sviluppo di dinamiche sociali partecipative e
politiche che incoraggiano le relazioni orizzontali, dialogiche che producono
effetti riequilibranti nel senso della giustizia sociale e della sostenibilità
ambientale.

Attraverso la promozione ad ogni livello di pratiche di contestualizzazione  e
di approcci inclusivi sistemici che favoriscono la formazione  di “ambienti
intensi”, di incubazione dell’innovazione,  la località può gestire la crisi
nel modo più efficace, liberando energie congelate (alienate), compresse o
emarginate al suo interno, in modo che siano riconosciute, utilizzate e
valorizzate entro standard superiori di relazione sociale.

Articolandosi gradualmente e coinvolgendo capillarmente ogni elemento della
realtà sociale, la costruzione nell’applicazione del nuovo paradigma della
democrazia può offrire alla complessità della vita localizzata il modo e la
forza (la forma) per farsi coscienza operante, soggettività locale consapevole
della propria peculiarità e differenza, capace di farla valere efficacemente
nei confronti della spesso brutale razionalizzazione tecnocratica globale in
cui pure è inserita.

L’attuazione di forme di partecipazione e di cooperazione mirata (governance)
tra soggetti diversi, pubblici e privati sul territorio per raggiungere fini
comuni va certamente in questo senso. Come dice Arnaldo Bagnasco: “Si tratta di
uno stile di governo che investe nel promuovere un’immagine delle possibilità
della società locale in cui le cose fondamentali da fare siano relativamente
condivise (….) dal punto di vista della politica questo comporta il passaggio
da uno stile di governo (government) tramite decisioni autoritative a forme di
governance, vale a dire l’elaborazione di politiche pubbliche a cui partecipano
attori diversi, che possono essere differenti a seconda dei problemi o momenti”
5.

Si tratta di progettare e  sperimentare  il più possibile le procedure più
adatte a creare, come lo chiama Bagnasco, “l’attore collettivo” o “attore
unitario locale” 6.

La via non è semplice. Non è facile, dal punto di vista teorico, passare da uno
schema di pensiero che concepisce la realtà come sistema di relazioni che si
evolve in base ad una contraddizione principale interna ad esso che lo anima e
lo ordina, ad un altro che pensa la dinamica reale come evoluzione del rapporto
critico tra sistemi allo stesso tempo coincidenti e differenti, che operano
nello stesso luogo, rispondendo, non accidentalmente, ma sostanzialmente, a
razionalità divergenti e tendenzialmente contraddittorie.

Non è facile neanche praticamente, in alternativa alla semplificazione
tecnocratica globale, realizzare la paziente aggregazione delle differenze che
animano la località fino a farne parti di un soggetto collettivo che,
mantenendo e ravvivando la sua complessità e le sue dialettiche interne, sia
capace però di convogliarsi  verso grandi obiettivi strategici condivisi.

La complessità stessa della realtà da affrontare impone che si adottino fin
dall’inizio strategie che prevedano di realizzarsi attraverso azioni
sincronizzate e convergenti da punti diversi verso un centro comune che la
complessità, per sua natura labirintica, nasconde (il “cuore sfuggente” della
crisi). Nel labirinto il centro sfugge perché non c’è. Ma se in esso si entra
contemporaneamente, in tanti, dal numero maggiore possibile di ingressi,
dandosi continuamente la voce, esso viene costituito come punto ideale di
incontro per mezzo della constatazione che ci si sta reciprocamente
allontanando o avvicinando.

Nonostante le indubbie difficoltà, queste premesse sembrano sufficienti ad
offrire alla sinistra quell’elemento identitario di base, quella certezza
strategica delle sue possibilità e dei suoi fini che il venir meno  dello
schema tradizionale (ispirato , come si è detto, al principio della
contraddizione nel sistema piuttosto che a quello complesso della contemporanea
coincidenza – divergenza tra sistemi) le aveva tolto.

Il nuovo paradigma della democrazia può realizzarsi concretamente solo se si
accetta il presupposto che il cuore della crisi – il “centro” stesso della
complessità – non è necessariamente destinato a sfuggire, ma anzi è sempre di
nuovo momentaneamente generabile dalla coscienza grazie alla pratica del logos
(inteso nel suo significato di connessione) condiviso che vive nella volontà e
dinamiche processuali cumulative comuni. A condizione che a farsene carico non
siano pochi soggetti, i quali non potrebbero mai circoscrivere e rendere in
qualche modo orientabile la complessità, ma il loro maggior numero possibile.
In questo senso la democrazia come “pratica inclusiva della quantità” può
riprendere il sopravvento sulla qualità esclusiva aristocratica.

Lo sviluppo della democrazia come processo partecipativo dal basso è la
condizione in cui la comunità stessa, come tale, si risveglia a partire dal suo
minimo comun denominatore locale, e si riappropria della complessità
sviluppando una sua crescente, diffusa, soggettiva interezza partecipante. Nel
senso che non subisce la complessità, ma per così dire la abbraccia,
percorrendola contemporaneamente da ogni parte, moltiplicando i punti di
incrocio e di  incontro dei soggetti che si muovono entro il suo labirinto,
facendo di questi i segmenti  di un discorso comune, sempre aperto ed in fieri,
ma dotato di senso. Rovesciando in possibilità e opportunità comune il
disorientamento e il paralizzante senso di dispersione che la complessità
comunica ai singoli soggetti, la democrazia può aiutare a uscire dalla
“prigione senza sbarre “, “troppo aperta” in cui ci troviamo.

Alberto Madricardo Destra e sinistra nell’età della globalizzazioneultima modifica: 2011-03-14T16:43:04+01:00da mangano1
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