Alla ricerca del pacifismo perduto
Foto Giuliana Sgrena
L’8 marzo scorso ero a Tunisi con le donne protagoniste della rivoluzione dei gelsomini. Stavano programmando la campagna per la promozione dell’uguaglianza di genere nella Costituzione, oltre alla separazione tra stato e religione. Una di loro, Sana ben Achour, mi ha detto: «Se la nostra rivoluzione non violenta, nata dal basso, senza ideologie, senza leader carismatici, avrà successo sarà un esempio non solo per i paesi arabi ma per tutto il mondo». Un’affermazione sull’onda dell’entusiasmo rivoluzionario, ho pensato allora. Ma ripensandoci ora ritengo che avesse proprio ragione. Non ho mai negato nel passato il diritto dei popoli alla lotta armata contro gli occupanti o gli oppressori, ma il contesto in cui viviamo oggi richiede un ripensamento su queste forme di lotta. La rete mondiale dell’informazione (internet, blog, Al Jazeera) cambia la natura dei conflitti, esalta la forza delle idee sulla forza delle armi, scuote le coscienze molto più di un qualsiasi atto simbolico. Non sono certo stati i tunisini – e dopo di loro egiziani, yemeniti, siriani, etc. – i primi a teorizzare o praticare la non violenza – non possiamo certo dimenticare Ghandi e Capitini – ma hanno in qualche modo dimostrato che in questo contesto mondiale un’insurrezione non violenta è l’unica che abbia qualche possibilità di successo. Tutte le forme di lotta armata cui abbiamo assistito negli ultimi tempi si sono ben presto trasformate in lotte militarizzate: la violenza delle armi ha permeato la vita dei suoi detentori fino a spingerli a usarle anche nei confronti del proprio popolo, come in Iraq. La potenza delle armi si è rivelata una debolezza di fronte alla forza dimostrata dalle recenti manifestazioni di popolo in Tunisia, Egitto, Yemen e forse ora in Siria. E proprio in Iraq e in Palestina, solo per fare due esempi, dove i movimenti di liberazione hanno percorso la strada della lotta armata, ora si fanno strada esperienze di movimenti non violenti, che dovremmo aiutare a emergere, perché potrebbero rappresentare una soluzione ad annosi conflitti.
Ma veniamo a noi. Negli anni Ottanta il movimento pacifista era andato crescendo culturalmente proprio sulle scelte non violente, in questo distinguendosi dai vecchi movimenti contro la guerra. Il movimento pacifista mondiale, dopo il suo momento più alto di mobilitazione (nel 2003 era stato considerato la seconda potenza mondiale), non essendo riuscito a impedire la guerra in Iraq, ha interiorizzato la sconfitta e non riesce più a trovare oggi, nonostante lo scenario internazionale, le motivazioni forti per una mobilitazione. Con la guerra in Iraq il movimento pacifista ha subito una profonda sconfitta perché si è dimostrato incapace di tradurre le aspirazioni di tanti in risultati concreti.
Oggi mi sembra che nella discussione sull’opposizione alla guerra in Libia (obiettivo urgente e prioritario in questo momento) la cultura della non violenza si sia smarrita: tra i «pacifisti» c’è chi difende la guerra «umanitaria» a sostegno dei ribelli libici (che a differenza degli altri sono armati, anche se questo non deve impedirci di difendere il loro diritto a ribellarsi all’oppressione di Gheddafi) e chi invece è contro la «guerra» dei volonterosi ma è pronto ad appoggiare qualsiasi rivolta armata contro i tiranni. Tra questi sostenitori delle rivolte del Mediterraneo c’è anche chi mi ha detto che non può esserci rivoluzione senza la distribuzione di armi al popolo.
La pace non è solo assenza di guerra e per costruirla occorre una cultura che negli anni Ottanta (quelli del pacifismo contro gli euromissili) sembrava cominciasse a sedimentarsi. Già allora si parlava del pericolo di conflitti nel Mediterraneo e della nostra esposizione con le basi militari collocate nelle regioni del sud. Tutto questo è diventato realtà, ma i «pacifisti» non hanno memoria del proprio passato, forse non sono più nemmeno disposti a scendere in piazza, così come non espongono più le bandiere della pace. A tutte le finestre oggi vediamo le bandiere italiane, esposte per i 150 anni, ma a qualcuno verrà in mente che la stessa bandiera è quella dei caccia che vanno a bombardare la Libia, come era avvenuto 100 anni fa con la prima avventura coloniale?
Gli interventisti si fanno scudo di una risoluzione ambigua dell’Onu di cui i «volonterosi» hanno forzato i termini. Essere contro la guerra è sempre più difficile ed essere per la pace lo è ancora di più. Schierarsi contro la guerra senza se e senza ma è una condizione necessaria ma non sufficiente per essere pacifisti.